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I primi cedimenti del feticismo delle merci

L’immagine, dal titolo “old school new strategy”, è dell’illustratore Tullio Corda.

 

Nel 1970 Fredy Perlman, nel numero 6 della rivista “Telos” rivalutava le teorie dello storico ed economista sovietico Isaak Rubin per cui tutta l’opera di Marx non sarebbe “una serie sconnessa di episodi, ciascuno con un problema che sarà abbandonato poi in seguito”1. Dai Manoscritti del 1844 fino al Capitale, dal giovane Marx idealista al Marx maturo e realista, vi sarebbe una fondamentale continuità. Marx ha cambiato e affinato concetti, modificato terminologia, ma non ha mai abbandonato la direzione dei suoi studi e il suo stile, inseguendo un capovolgimento, un quid pro quo che per Rubin è “La teoria del feticismo della merce […] la base dell’intero sistema economico di Marx, e in particolare della sua teoria del valore”2. Perlman cita diverse volte un passaggio dei Manoscritti: “L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea”3.

 

Nei Grundrisse troviamo lo stesso modo di incedere del discorso nel capitolo sul processo di circolazione del capitale a proposito del lavoro oggettivato che si presenta come mezzo di sussistenza del lavoratore: “Tutti i momenti che si contrapponevano alla forza-lavoro viva come forze estranee, estrinseche, e che, sotto certe condizioni da essa stessa indipendenti, la consumavano, la utilizzavano, sono ora poste come prodotto della stessa forza-lavoro viva“4 , anche se “il prodotto del lavoro, il lavoro oggettivato a cui proprio il lavoro vivo ha dato una propria anima, si fissi poi di fronte ad esso stesso come un potere altrui”5.

 

Infine nelle conclusioni del III libro del Capitale lo stile non è cambiato, nel capitolo la “Formula trinitaria”, in cui la dialettica duplice Capitale-Lavoro come ha fatto notare per primo Henri Lefebvre6 diventa una dialettica triplice Capitale-Lavoro-Terra troviamo ancora lo stesso modo di incedere, si legga il seguente passaggio: “Come nel capitale e nel capitalista (che in effetti è solo capitale personificato) i prodotti si trasformano in una potenza autonoma nei riguardi dei produttori, così nel proprietario terriero la terra viene personificata e anch’essa si presenta come una potenza autonoma e pretende la sua porzione del prodotto generato per suo tramite; in tal modo non è la terra che ottiene la porzione del prodotto che le spetta come rimpiazzamento e incremento della propria produttività, ma è il proprietario terriero che in suo luogo riceve una porzione di questo prodotto per i suoi propri fini personali”7. “Autonomizzazione del lavoro oggettivato” o “autonomizzazione della personificazione della terra”, lo stesso concetto di “personificazione”, “potenza estranea”, sono tutti termini che richiamano un capovolgimento che ha funzionato almeno fino alla sussunzione formale del capitale.

 

Il passaggio dei Manoscritti del 1844 citato da Perlman è corretto quindici anni dopo da Marx in “Per la critica dell’economia politica”, perché in realtà le merci non si presentano al produttore in modo “ostile ed estraneo”, ma anzi come un fatto apparentemente naturale e desiderabile. Rubin evidenzia un passaggio di Marx in “Per la critica”: “è solo l’abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia, che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicché il rapporto tra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco tra cose e persone”8. Nel passaggio che abbiamo citato dei Grundrisse si evince che la merce una volta in circolazione si riconcilia con il produttore come mezzo di sussistenza, si potrebbe dire di più, si riconcilia come feticcio perché come abbiamo visto si tratta di lavoro oggettivato in cui i produttori “hanno dato la propria anima” ma che si presenta come “potere altrui”. Ancora nei Grundrisse, Marx scrive: “La forza-lavoro si è soltanto appropriata delle condizioni soggettive del lavoro necessario – i mezzi di sussistenza per la forza-lavoro produttrice, ossia per la sua riproduzione come mera forza-lavoro separata dalle condizioni della sua realizzazione – ed ha posto queste condizioni stesse come cose, come valori che le si contrappongono in una personificazione estranea che comanda”9. Marx vi aggiunge: “Dal processo essa non solo non ne esce più ricca, ma ne esce più povera di quando vi era entrata10 . Quest’ultimo passaggio è simile a quello di quando aveva ventisei anni: “L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiormente è la ricchezza che produce”11.

 

Siamo sicuri che vi sia un Marx per così dire “periodico” o non è piuttosto probabile che egli abbia trattenuto qualcosa e che questo qualcosa sia fondamentalmente l’intuizione del segreto del capitale: il feticismo delle merci? Un capovolgimento tra Capitale e Lavoro dalle mille sottigliezze metafisiche su cui in pochi hanno insistito, tra cui senz’altro l’Internazionale Situazionista. Vi sono innumerevoli passaggi come questi in Marx che sembrano confermare la teoria di Rubin che il feticismo delle merci e la teoria del valore siano indivisibili. Rubin scrive: “La reificazione del lavoro come valore è l’esito decisivo a cui giunge la teoria del feticismo, che spiega l’inevitabile ‘reificazione’ dei rapporti tra persone nel capitalismo. La teoria valore-lavoro non si limita scoprire l’oggettivazione del lavoro (come fattore della produzione) in cose che sono i suoi prodotti; ciò avviene in tutte le formazioni economiche, e rappresenta la base tecnica del valore, non la sua origine. La teoria del valore-lavoro scopre il feticcio, l’espressione reificata del lavoro sociale nel valore delle cose”12 .

 

Perlman afferma: “È precisamente la capacità di trasformare il suo ambiente che il lavoratore vende al capitalista, è precisamente di questa capacità che il capitalista si appropria, non soltanto nella forma del lavoro astratto cristallizzato e rappreso nelle merci che ‘assume una determinata forma sociale’ nella società capitalista, assume cioè la forma di valore”13 . L’ambiente in cui abita, vive, si muove e lavora il lavoratore è un paesaggio che egli ha prodotto e che gli si ripresenta fuori di lui come se non fosse opera sua, come se fosse un paesaggio naturale. Arriviamo ora al celebre capitolo “Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto” nel Capitale. La merce, ci dice Marx, appare una cosa “triviale”, “normale”, appunto: apparentemente naturale, un’“abitudine della vita quotidiana”. Invece si tratta di una “cosa intricatissima” “ricca di sfumature metafisiche e di arguzie teologiche”14 . Finché è valore d’uso non presenta niente di misterioso, ma quando si presenta come merce “si trasforma in un oggetto sensibilmente soprasenbibile. Non solo poggia coi piedi per terra, ma di fronte a tutte le altre merci si mette colla testa in giù, e tira fuori dalla sua testa dei grilli molto più meravigliosi che se iniziasse a ballare da solo”15 . Questo carattere mistico non deriva dal valore d’uso, “il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l’immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e perciò ridà anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esista al di fuori di loro16. Il carattere di feticcio delle merci è dovuto all’ “apparenza che le determinazioni sociali del lavoro siano proprietà degli oggetti”17.

 

Nella sussunzione reale del capitale Jacques Camatte sostiene che è la stessa comunità umana sotto il comando del Capitale ad essere diventata una comunità fittizia, ovvero a considerarsi la condizione naturale della specie umana invece che un prodotto storico del Capitale18 . Nella sussunzione reale del capitale gli uomini e le donne stesse diventano parte del feticismo della merce, si rispecchiano gli uni con gli altri come esseri umani naturali e non vedono più la loro domesticazione al mondo delle merci. Fanno ormai parte del paesaggio delle merci o del suo ambiente e qualsiasi trasformazione, anche quella più radicale, contribuirebbe solo a far superare la contraddizione interna del capitale. Nei Grundrisse Marx scrive: “L’universalità verso la quale esso [il capitale] tende trova nella sua stessa natura ostacoli che ad un certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua soppressione attraverso esso stesso”19 e aggiunge qualche pagina più avanti: “esso è una contraddizione vivente”20 . Le trasformazioni, anche quelle più radicali, nella sussunzione reale favorirebbero il capitale aiutandolo a superare se stesso e non lo capovolgerebbero affatto. Tuttavia al momento presente si può ipotizzare che si stia tornando alla sussunzione formale del capitale, certo in forme nuove, ma sempre per lo stesso motivo: perché continuare con la sussunzione reale ha portato alla sua crisi e il capitale è davanti a un ostacolo. Due sono le nostre tesi a questo punto: 1) che vi siano con la sussunzione formale del capitale i primi cedimenti del feticismo delle merci, aspetto che non hanno intravisto coloro che hanno messo in discussione la legge del valore, eppure i due aspetti andrebbero visti come indivisibili. 2) I primi cedimenti del feticismo delle merci non implicano un cedimento del feticismo tout court, nel suo senso antropologico.

 

Oggi il capitale essendo costretto ad allargare le maglie della circolazione della popolazione mondiale, dell’informazione, avendo dovuto abbandonare tre generazioni di precari fuori dal mondo del lavoro indeterminato, tagliando sul welfare, fallendo nel garantire il benessere, ha prodotto una mobilitazione spontanea dal basso, non certo sempre rivoluzionaria, anzi spesso legata alla soluzione di bisogni e desideri immediati che hanno reso molto più consapevoli le persone. Tutto ciò ha prodotto una parziale de-domesticazione rispetto alle tesi di Camatte. Oggi le merci sono più trasparenti, si può demistificare lo sfruttamento del lavoro incorporato, i materiali con cui sono prodotte, dove sono state prodotte, le imprese che le producono e con abbastanza abilità sapere nomi e cognomi degli stessi imprenditori. Nessuno può più nascondersi e le merci non sono più un “geroglifico sociale”, sono decifrabili e decodificabili. Le persone più motivate allora non si fanno più suggestionare dal feticismo delle merci, si organizzano per consumare direttamente valori d’uso o merci il cui feticismo è legato a proprietà etiche. Queste ultime merci sono l’ultima frontiera del feticismo delle merci, senz’altro una risorsa per il Capitale, tuttavia l’aspetto importante resta che non è più possibile considerare le merci con delle proprietà naturali proprie e non il prodotto di altri uomini e donne che vi hanno lavorato, non è più possibile specchiarvisi e perdersi nell’astrazione del lavoro, tutti vi vedono benissimo lo sfruttamento, l’incertezza, la precarietà, il rischio del lavoro vivo e la legge del valore è evidentemente in crisi.

 

Il feticismo degli oggetti anche qualora non si presentino come merci, anche qualora non si presentino con le sottigliezze del lavoro oggettivato astratto, non è eliminabile. E questo per una questione antropologica evidente: il feticismo non ha che fare solo con la reificazione del lavoro e la sua autonomizzazione come potenza estranea personificata dal capitalista, non è un’invenzione del capitale anche se è il segreto involontario della sua lunga vittoria, ma una relazione che gli uomini e le donne hanno con gli oggetti per le emozioni, i sentimenti, i ricordi, i sogni, il gusto, i sensi, il piacere, in una parola la soggettività che richiamano e costruiscono. Il feticismo è diverso geograficamente e storicamente, tuttavia non si può pensare che gli oggetti siano inerti e non richiamino passioni, anche i doni e i materiali casuali o no che abbiamo accumulato nella nostra vita hanno un potere feticistico. Non si tratta di un requisito della classe agiata, è una condizione della specie umana. E forse una società senza feticismo non è neanche desiderabile. Quindi, da una parte vi è un cedimento del feticismo delle merci così come teorizzata da Marx, dall’altra, probabilmente, neanche un capovolgimento del capitale porrebbe fine al feticismo per gli oggetti. Forse la mossa più radicale che si possa fare è separare le proprie passioni, le proprie emozioni, i propri sentimenti, i propri ricordi, i propri sogni, il proprio sentire, i propri piaceri per gli oggetti dal mondo delle merci. Tuttavia ci vuole un metodo e forse quello proposto dall’antropologo Massimo Canevacci, il “feticismo metodologico”21 potrebbe offrire utili spunti. La questione oggi è che con il cedimento del feticismo delle merci e di conseguenza della forma-valore il Capitale sta ricorrendo a nuove strategie di contenimento della comunità umana che ammettono apertamente la sua contraddizione implosiva. Il rischio è una restaurazione autoritaria che metta ordine nell’emergente nuova sussunzione formale del Capitale.


Note:

1. Perlman, 1972: 18

2. Rubin, 1974: 5

3. Marx, 2004: 69

4. Marx, 1997: 70

5. Marx, 1997: 73

6. Lefebvre, 1980

7. Marx, 1968: 402

8. Marx, 1969: 16

9. Marx: 1997: 72

10. Marx, 1997: 72

11. Marx: 2004: 68

12. Rubin 1974: 60-61

13. Perlman, 1972: 45

14. Marx, 1968: 67

15. Marx, 1968: 68

16. Marx, 1968: 69

17. Marx, 1968: 83

18. Camatte, 1978

19. Marx, 1997: 12

20. Marx, 1997: 28

21. Canevacci, 2001


Bibliografia:
Camatte J., Verso la comunità umana, Jaca Book, Milano, 1978
Canevacci M., Antropologia della comunicazione visuale, Meltemi, 2001, Roma.
Lefebvre H., Il tempo degli equivoci, Muthipla edizioni, 1980.
Marx K., Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 2004
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, La Nuova Italia, Scandicci, 1997.
Per la critica dell’economia politica, Riuniti, Roma, 1969.
Il Capitale. Critica dell’economia politica. Avanzini e torraca editori, Roma, 1968
Perlman F., Il feticismo delle merci, Lampugnani Nigri Editore, Milano, 1972
Rubin I. I., Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, Milano, 1976

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Daniele Vazquez

Vive a Roma. È antropologo urbano, scrittore e dottore di ricerca in urbanistica (Università IUAV di Venezia). Tra i primi aderenti al Luther Blissett Project, nel 2000 partecipa al suo seppuku producendo sotto lo pseudonimo Associazione Psicogeografica Romana il disco The Open Pop Star (Wot4 records), cui partecipano esponenti nel Neoismo, della net.art e di aliensinroma. Ha fondato e fatto parte di numerosi gruppi anti-artistici, attivisti e di ricerca indipendenti sulle forme-di-vita urbane, tra i quali Rizoma Autogestione Metropoli, Men in Red, occuparespazinterni, Dipartimento Arte e Propaganda, luoghisingolari.net. Ha pubblicato contributi per diversi libri e articoli per numerose riviste tra le quali Infoxoa, Drome magazine, NIM magazine, Basic Income Network, Arch’it, Artapartofcult(ure), Archivio di Studi Urbani e Regionali (ASUR) e Critica degli Ordinamenti Spaziali (CRIOS). Ha pubblicato nel 2010 il volume Manuale di Psicogeografia (edizioni Nerosubianco), nel 2012 il romanzo di fantascienza La comunità dei sogni (edizioni Gilgamesh), nel 2015 il volume La fine della città postmoderna (Mimesis Edizioni).

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