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Uscire dall’economia. Prove di dialogo fra Decrescita e Critica del Valore

uscire-dall-economiaNel novembre 2014 è uscito per le edizioni Mimesis il libro Uscire dall’economia – un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, tratto da un incontro avvenuto in Francia nel 2011 fra Serge Latouche e Anselm Jappe.
Il libro ha avuto un buon successo, tanto da meritarsi anche un’edizione francese ampliata, uscita nel 2015 per le edizioni Libre & Solidaire, dal titolo
Pour en finir avec l’économie – Décroissance et critique de la valeur.
Qui presentiamo l’introduzione all’edizione italiana, introduzione che ha avuto uno strano destino: elaborata seguendo anche le indicazioni degli autori, non ha incontrato i favori di Anselm Jappe per quanto riguarda l’edizione francese. Non essendoci né i tempi né le basi per modificarla senza aprire un lungo dibattito, l’introduzione che trovate qui sotto è apparsa, tradotta, praticamente in versione integrale, solo grazie ad un “sotterfugio” di Serge Latouche, che ha proposto di pubblicarla facendola anticipare da una avvertenza dove si dice che l’autore si prende interamente la responsabilità di quello che è scritto.
Sembra che in Francia questa introduzione abbia ricevuto qualche apprezzamento e raccolto un certo interesse, per cui alla fine qualche utilità l’ha avuta.
Per quanto mi riguarda, la cosa che mi ha fatto più male è stata la successiva rottura, spero non definitiva, fra Anselm Jappe e Serge Latouche, promossa da Anselm e Clément Homs a seguito di frequentazioni “equivoche” da parte di Serge Latouche (vedi il nostro articolo “L’Anatra fa scandalo in Francia”).
Non voglio entrare nel merito della cosa: chi vuol farsene un’idea per conto proprio può leggere l’“accusa” portata a Serge da Anselm e Clément, un testo con cui si sancisce la frattura, andando qui: http://www.palim-psao.fr/2015/12/rupture-inaugurale-par-anselm-jappe-clement-homs.html.
Per chi conosce il pensiero di Latouche, definire Serge vicino alla destra è sbagliato, e comunque significa non cogliere appieno il senso della sua meditazione. Ma quel che è peggio, l’interruzione di un dialogo così promettente, ed appena cominciato, fra due delle correnti di pensiero tra le poche capaci di cogliere lo Zeit-Geist e dare importanti indicazioni per avviare percorsi di emancipazione, è stata per me un’autentica sventura, come credo per tutti coloro che mirano a liberarsi dal criminale sistema del capitale. Il mio augurio dunque è che questo dialogo riprenda presto, e che i due autori – a cui va comunque la mia riconoscenza e per i cui rispettivi pensieri resta immutata l’ammirazione – tornino a colloquiare in modo proficuo come hanno fatto in passato.
Massimo Maggini

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Intro USCIRE DALL’ECONOMIA

Decrescita e critica del valore: un incontro fecondo

Appare qui in traduzione italiana il testo di una conferenza tenuta da Serge Latouche e Anselm Jappe il 25 maggio 2011 al “café des décroisseurs berrichons” di Bourges, nella Francia centrale. Agli organizzatori va il merito, più volte giustamente ribadito nella conferenza dagli stessi interlocutori, di saper organizzare eventi “rari” e all’altezza dei tempi, quali appunto quello tradotto nella presente occasione.
Riguardo agli autori, è forse qui superflua l’ennesima presentazione dei loro profili. Sia Jappe che Latouche hanno oramai una certa eco a livello mondiale, probabilmente sufficiente ad evitare note biografiche. Può essere comunque utile un breve cenno, senza entrare in troppi particolari. Anselm Jappe è uno dei massimi teorici esistenti di quella corrente di pensiero che legge in modo rigoroso quanto inusuale l’opera di Marx, che ha origine in Germania ed è nota con il nome di Wertkritik (Critica del valore), i cui più noti esponenti sono Robert Kurz, prematuramente scomparso nel 2012, e Roswitha Scholz (gruppo Exit), Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff (gruppo Krisis), Lorenz Glatz e Franz Schandl (gruppo Streifzüge, con sede in Austria). Serge Latouche, conosciuto anche più di Jappe, è invece il padre putativo e massimo teorico della Decrescita, movimento di pensiero che si oppone allo sviluppo e alla crescita economica, diffuso ormai nell’intero globo e sempre più anche ispiratore di movimenti e resistenze contro la dittatura dell’economicismo.
Il testo qui presentato ha sicuramente molte qualità: innanzitutto, mette a confronto per la prima volta – sia pur focalizzando l’attenzione solo su un aspetto comunque per niente marginale che coinvolge entrambe, cioè la critica al dominio dell’“economico” 1 – due fra le correnti di pensiero più interessanti in circolazione, ripercorrendone per di più brevemente le tappe, sia cronologiche che teoretiche. Poi, è la trascrizione di un incontro tenuto “dal vivo” dai due intellettuali, quindi senza testi preconfezionati o posture accademiche 2 che, se per certi versi possono chiarire i concetti (anche se non sempre), per altri spesso appesantiscono il discorso. Ho cercato dunque nella traduzione, 3 peraltro rivista e rielaborata insieme ai due protagonisti, di mantenere il vigore e la resa del parlato, forse penalizzando in alcuni passaggi l’approfondimento concettuale, ma guadagnandoci sicuramente in immediatezza comunicativa e coinvolgimento emotivo. Ad arricchire il testo contribuisce inoltre il dibattito che segue la conferenza, anch’esso tradotto mantenendo la vitalità del “parlato”. Esso può essere letto quasi come una FAQ su decrescita e critica del valore, un momento grazie al quale emergono questioni e problematiche quanto mai reali e pragmatiche con cui i due pensieri sono costretti a confrontarsi. Infine, chiude il libro il bel saggio di Anselm Jappe, Decrescenti ancora uno sforzo, pubblicato in Francia nel 2011 nella sua collezione di testi Crédit à mort. 4 Questo testo puntualizza in modo chiaro e preciso il punto di vista della critica del valore a proposito della teoria della decrescita – e può quindi supplire ad eventuali mancanze proprie della conferenza.
Le questioni discusse in occasione di questo incontro sono sicuramente all’ordine del giorno: il passaggio storico che stiamo vivendo, o forse sarebbe meglio dire subendo, con la crisi economica, ecologica, sociale ed umana in corso, richiede un approfondimento deciso e non illusorio riguardo alle sue origini. Come è noto, le risposte generalmente date a questo evento riflettono lo spaesamento in cui versano la ricerca delle cause e l’analisi degli aspetti fondamentali della crisi stessa.
Come dice Robert Kurz, di fronte alle difficoltà di capire con una certa chiarezza il disastro che stiamo vivendo, anche la maggior parte dei marxisti contemporanei è regredita “indietro fino alle teorie precedenti della crisi e si è limitata ad assumere il classico punto di vista piccolo borghese di una critica al ‘capitale finanziario’”.5 È dunque quanto mai urgente affinare lo sguardo e provare a penetrare le ragioni profonde del dissesto in corso.
Il dialogo fra decrescita e critica del valore può sicuramente dare un aiuto consistente in questa direzione.6
A questo proposito, può essere utile un brevissimo excursus fra i principali temi che interessano entrambi i pensieri, temi sui quali non sempre vi è concordanza di vedute e rispetto ai quali il dibattito resta aperto.

Lavoro
Sia la decrescita che la critica del valore fanno della riflessione sul (o forse dovremmo dire “contro”) il lavoro uno dei cavalli di battaglia, anche se partendo da punti di vista piuttosto diversi.7 Parlare contro il lavoro oggi può apparire se non assurdo, quanto meno controproducente per qualsiasi pensiero voglia candidarsi come “guida” per l’uscita dal sistema barbarico e “desensualizzato”8 nel quale ci troviamo. Se, infatti, l’assenza di crescita economica è una disgrazia in un sistema che si fonda sulla crescita dell’economia (ma in questo caso questo fenomeno si chiama “recessione”, non decrescita), altrettanto lo è trovarsi senza lavoro in un sistema in cui solo il lavoro ti dà diritto di esistere (ma in questo caso si chiama “disoccupazione”, non liberazione dal lavoro).
Tuttavia, in modo più chiaro per la critica del valore, ma in modo sostanziale anche secondo la decrescita, il lavoro non è la vittima designata del sistema capitalistico, ma suo complice e motore interno, sostegno sul quale l’intero sistema fa perno. Superarlo, è uno dei compiti più urgenti e indispensabili per qualsiasi autentico progetto di trasformazione. Naturalmente non si intende qui per “lavoro” l’opera umana, gratificante e insieme necessaria, che permette di vivere e “abitare” la terra in modo non distruttivo ma anzi armonioso, ma quell’attività alienante che è apparsa nella storia umana con la cosiddetta “modernità” e in particolar modo con la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Le due correnti di pensiero insistono sull’importanza di tenere presente questa distinzione, tanto da chiamare appunto “lavoro” solo la seconda.9

Moneta
Vi è qui sicuramente meno concordanza di opinioni fra le due correnti: la moneta per Latouche non rappresenta semplicemente la forma che prende il valore, “lavoro morto reificato”, ma uno strumento utile e significativo anche dal punto di vista simbolico. Riappropriarsene, quindi toglierla agli organismi preposti ad emetterla e garantirla (Stati, banche…), e riportarla al suo senso iniziale di “mezzo” e non di “fine” fa parte, secondo la decrescita, di quel passaggio di liberazione dal capitalismo oggi sempre più necessario. Che siano le comunità e le popolazioni a gestire la moneta e il suo valore sarebbe dunque un passo, verso la trasformazione sociale, di grande levatura. La cosa ovviamente pone grossi problemi, ma ci sono tracce che possono aiutarci a districarli, ed alcuni esperimenti sono già stati fatti: per citarne solo un paio, le monete locali in Argentina dopo la crisi del 2001, o la moneta a scadenza – che quindi non permetterebbe l’accumulo di interessi – di Silvio Gesell.10 La critica del valore non la pensa allo stesso modo: proprio Jappe è fra quelli che più ha indagato questo aspetto. Il suo libro, dal significativo titolo Contro il denaro,11 riassume piuttosto bene le motivazioni di fondo di queste perplessità. In estrema sintesi, il denaro risponde ad esigenze capitalistiche, non “umane” tout court. Lo dimostra il fatto che esso, come il mercato, fosse praticamente inesistente nelle società pre-capitalistiche, e solo quando un nuovo paradigma sociale si è imposto (ma sarebbe più corretto dire “è stato imposto”), anche il denaro abbia cominciato a diventare centrale, il “mediatore universale”, rappresentante lavoro astratto, ovvero il lavoro svolto per raggiungere profitto monetario e non risultati concreti per il benessere personale o collettivo. Nel sistema capitalistico il denaro rappresenta il fine, e la produzione il mezzo per arrivare a questo fine: in pratica il mondo alla rovescia. Ma nella crisi fondamentale della valorizzazione, il denaro perde valore sostanziale, ed è sempre più risultato di speculazioni finanziarie e non dell’economia reale. In questo senso, il suo valore fittizio potrebbe trasformarsi repentinamente in ciò che è, cioè “aria calda”, e disastrare velocemente il corpo sociale. Uscire dal suo dominio, in favore di un’organizzazione sociale “altra”, non dominata dall’“economico”, diventa così urgente e necessario. Per la critica del valore la moneta, in questo nuovo contesto, non avrebbe più ragione di esistere, e sarebbe del tutto assurdo promuoverne surrogati o simulacri, per quanto “alternativi” possano essere.12

Rivoluzione culturale e immaginario

Un altro punto fondamentale è quello della rivoluzione culturale e della trasformazione dell’immaginario. Un aspetto forse più indagato dalla decrescita che dalla critica del valore, esso viene tuttavia ripetutamente analizzato da entrambe con una certa attenzione proprio nella conferenza qui proposta. La decrescita è nota per basare gran parte del suo appeal su una proposta di rivoluzione culturale – senza la quale a suo avviso nessun’altra vera rivoluzione è possibile –, dichiarandosi più ancora essa stessa già culturalmente rivoluzionaria.13
La critica del valore non nega la necessità di prestare la massima attenzione a questo elemento, tuttavia – come sottolinea Jappe proprio nell’incontro – non può essere sufficiente pensare che basti un mero “capovolgimento” del pensiero per abbattere il capitalismo e uscire dalle sue forche caudine.14
Nel “non detto” di questi pensieri, e non solo in occasione di questa conferenza, resta tuttavia aperta la questione sul “come” veicolare un nuovo paradigma, che resti veramente tale e non si faccia sussumere dai dispositivi del potere, specie mediatico, una volta che assurge agli onori della cronaca. Un esempio interessante (e incoraggiante) a cui guardare, può forse essere il pensiero situazionista francese degli anni ‘60 – di cui peraltro Jappe è uno dei massimi esperti –, pensiero che, pur senza passare attraverso canali mediatici di grande diffusione, ha sicuramente influenzato in modo decisivo il maggio francese ma più in generale il ‘68 nel suo complesso. Ha ragione quindi Latouche, ribadendo che certe volte persino occasioni minime (come la stessa conferenza di Bourges) possono avere grandi risultati, in date circostanze e a determinate condizioni (per esempio, in tempo di crisi). In questo senso, anche la “pedagogia delle catastrofi ” di cui parla la decrescita, teoria qui comunque contestata con cognizione di causa da Jappe, può forse in qualche modo aiutare.

Modernità
Una “rivoluzione culturale” presuppone comunque di avere un’idea chiara riguardo alla cultura che si vuole combattere, e alle sue origini. In questo senso, sia la decrescita che la critica del valore si schierano apertamente contro la modernità, la prima a partire da un’analisi della storia della nascita dell’idea di crescita e sviluppo, la seconda concentrando la propria critica sull’illuminismo (e al soggetto di “diritto” con esso nato), inteso come pater patrum del movimento culturale che ha fatto da sponda all’imporsi del capitalismo – secondo la lettura della Scuola di Francoforte, in particolare la famosa Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer.15
Può essere curioso annotare come, proprio riguardo all’illuminismo, pur partendo da presupposti critici affini, le due correnti di pensiero approdino ad esiti praticamente opposti, l’una appunto indicandolo come responsabile, o quantomeno corresponsabile, della nascita del capitalismo, l’altra (la decrescita) immaginandolo come un movimento tradito i cui obiettivi restano ancora da realizzare, e che sono fra i compiti che la stessa decrescita si pone.

Stato e organizzazione sociale
Infine, un punctum dolens per entrambe le teorie, cioè la questione dell’organizzazione sociale che dovrebbe sostituirsi a quella esistente. Lo Stato viene giustamente criticato, in modo aperto e diretto dalla critica del valore – che non ne vede qualcosa di diverso dall’apparato necessario al buon funzionamento del sistema capitalistico –, in modo più mediato dalla decrescita, la quale non dispera che sia in qualche maniera, al pari della moneta, utilizzabile in modo efficiente e più consono alle reali esigenze dell’essere umano. La questione è scottante, perché se si può essere d’accordo che lo Stato non è niente di più del funzionario più importante, anzi indispensabile, per il capitale, tuttavia resta aperta la questione di quale possa essere la forma sociale che dovrebbe prendere una società post-capitalistica, tenendo conto che ci troviamo all’interno di una società comunque complessa e sicuramente non riconducibile a forme sociali del passato, almeno non nel modo in cui esse si sono presentate nel momento storico in cui vigevano.16 Jappe prova, nel dibattito che segue la conferenza, ad abbozzare una risposta, parlando di “federazione” fra le esperienze di riappropriazione fuoriuscite dal giogo economicista, ma la cosa resta appunto a livello di “bozza” e richiede approfondimenti e momenti di sperimentazione sul campo che aiutino a trovare, attraverso la pratica nutrita dalla critica serrata alle categorie fondamentali del sistema capitalistico, la via per dare corpo a quella che per ora resta solo una possibilità.

Questa piccola incursione, lungi dall’esaurire le potenzialità di questi due pensieri, ben altrimenti ricchi di spunti e già ora comunque in grado di abbozzare risposte importanti a problematiche sempre più urgenti, può dunque servire come prima guida per orientarsi all’interno di questo inedito dialogo, che è auspicabile sia solo agli inizi. Invitiamo a questo punto ad una lettura attenta e non pregiudiziale della conferenza e del testo che segue, affinché sia da stimolo ad una elaborazione creativa e fattiva dei molti spunti che queste due correnti di pensiero sono in grado di darci. Anche questo può essere considerato infatti un compito che l’epoca che stiamo attraversando richiede a tutti e a ciascuno singolarmente, senza quindi credere ancora una volta che sia sufficiente “delegare” qualcuno che dovrebbe pensarci al posto nostro. Solo così anche raccoglieremmo, nel modo migliore, il messaggio che la decrescita e la critica del valore ci lanciano, ovvero la richiesta di quella presa di coscienza e insieme assunzione di responsabilità a cui non possiamo più sottrarci ed a cui siamo, in modo sempre più pressante, chiamati.17 Un compito che solo apparentemente può sembrare fastidioso e ingombrante: si tratta invece di avviare un percorso di liberazione, che può anche essere già di per sé molto piacevole e ricco, in fondo al quale potrebbe apparire non la fine, spesso predicata dalle cassandre di regime, ma l’inizio della storia, quella più vera ed autentica dell’umanità.


Note:

1. E non, quindi, della mera “economia capitalistica”, ma proprio dell’economia tout court, un’esigenza peraltro già propria di Marx. Cfr. per esempio Anselm Jappe: “La ‘Critica dell’economia politica’ di Marx non è solo una critica delle dottrine economiche borghesi, ma anche una critica dell’esistenza dell’‘economia’ pura e semplice. In Marx la parola ‘economia’ non ha mai un significato positivo, né ha mai egli definito la sua teoria come ‘dottrina economica’ o qualcosa del genere, come invece molti marxisti hanno fatto” (traduzione mia, Die Abenteuer der Ware [Le avventure della merce], p. 179, UNRAST-Verlag, 2005). Ma più o meno lo stesso discorso vale per la decrescita: a questo tema per esempio Serge Latouche ha dedicato uno dei suoi libri più complessi, quanto forse meno conosciuti, dal significativo titolo L’invention de l’économie, Albin Michel, 2005; tr. it. L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, 2010.

2. Di solito comunque assenti, per onor del vero, anche nelle opere più “classiche” dei due autori che, nei loro testi, si sforzano sempre di ricercare sia la massima comunicabilità che il massimo rigore.

3. Almeno nella parte che ho curato io, ovvero il seminario e il dibattito, mentre l’intervento centrale di Jappe (ma non le risposte nel dibattito) è stato tradotto ed elaborato da Riccardo Frola, che ha privilegiato altri criteri.

4. Crédit à mort, Éditions Lignes, 2011.

5. Cfr. Robert Kurz, La teoria di Marx, la crisi e l’abolizione del capitalismo, intervista reperibile sul web a questo indirizzo: http://ozioproduttivo.blogspot.it/2014/04/intervista-robert-kurz-maggio-2010-la.html.

6. In questo senso, anche altri due agili libretti, che formano una specie di “tripletta” con il presente libro, usciti in contemporanea ad esso, cioè Norbert Trenkle, Ernst Lohoff , Crisi: nella discarica del capitale, a cura di Riccardo Frola, Mimesis 2014, e Robert Kurz, Ragione sanguinaria, a cura di Samuele Cerea, Mimesis 2014, possono rappresentare un valido sostegno per comprendere i motivi di fondo della presente crisi, soprattutto per quanto riguarda l’approccio proprio della critica del valore, e indicare in direzione di possibili esiti “altri” rispetto alla devastazione a cui stiamo assistendo. Per approfondimenti di tematiche che non è possibile ripetere qui, anche per ragioni di spazio, in modo sufficientemente articolato, invitiamo quindi alla lettura di questi testi, così come quello di Norbert Trenkle – Ernst Lohoff , Terremoto nel mercato mondiale. Sulle cause profonde dell’attuale crisi finanziaria, a cura di Massimo Maggini, uscito sempre per Mimesis nel giugno 2014.

7. “La riduzione del tempo di lavoro e il cambiamento del suo contenuto sono dunque innanzitutto scelte di trasformazione sociale, risultati della rivoluzione culturale che la decrescita richiede. […] La decrescita implica […] al tempo stesso una riduzione quantitativa e una trasformazione qualitativa del lavoro” (Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, pp. 99-100, Bollati Boringhieri, 2008). “[…] non bisogna mettere in discussione solo i contenuti del lavoro (interessante e creativo, oppure noioso e imposto), né la sola questione dello sfruttamento e delle gerarchie (per quanto rimangano, naturalmente, importanti), ma soprattutto il ruolo del lavoro come forma-base della vita sociale” (Anselm Jappe, Il gruppo Krisis, la critica del lavoro e il “primato civile degli italiani”, in Manifesto contro il lavoro, p. 129, DeriveApprodi 2003).

8. L’aggettivo “desensualizzato”, che può apparire fuori contesto in una riflessione come quella propria del presente libro, viene invece usato spesso dai teorici della critica del valore, ed assume comunque un significato particolare nell’area linguistica germanica. La radice di questo termine, infatti, cioè la parola Sinn (senso), rimanda al tempo stesso sia all’aspetto concettuale, ovvero il “senso” delle cose, sia ad aspetti più propriamente legati ai sensi e alla sensualità (come in italiano, dopo tutto, se ci facciamo attenzione). Cfr. come esempio dell’uso di questo termine nel contesto della critica del valore, il seguente passaggio: “Con la scomparsa della razionalità economico-aziendale distruttiva naturalmente non si mira certo a smantellare le forze produttive generate ciecamente dal capitalismo ma ad impiegarle secondo una “ragione sensibile” [sinnlichen Vernunft] nei confronti del contenuto (invece che secondo una razionalità monetaria astratta, indifferente ai contenuti), a trasformarle e a svilupparle ulteriormente. Superamento del lavoro non significa perciò semplicemente una mera diminuzione quantitativa del tempo di lavoro per mezzo di una “completa automatizzazione” (priva di riguardo per i contenuti), ma la liberazione di tutte le attività sociali dalla loro forma astratta, desensualizzata [entsinnlichten], indifferente […]” (Robert Kurz e Norbert Trenkle, Il superamento del lavoro. Uno sguardo alternativo oltre il capitalismo, in Manifesto contro il lavoro, cit., p. 109). È importante sottolineare questo duplice significato, perché allude al fatto che la trasformazione cercata non sia un mero capovolgimento tecnico dell’esistente, ma una riappropriazione totale dell’esistenza, in tutti i suoi aspetti, anche e soprattutto quelli legati ai sensi e alla sensualità, troppo spesso trascurati nei “progetti rivoluzionari” classici, piuttosto aridi e asfittici da questo punto di vista (ed anche per questo, probabilmente, hanno avuto gli esiti che ben conosciamo). Una liberazione, cioè, non può che essere totale, come ci hanno insegnato, per brevi ma folgoranti momenti, alcune correnti culturali e alcuni momenti in cui la vita è esplosa e si è ribellata al potere e al “dovere”: il piacere e il godimento, in tutti i loro aspetti, devono avere un ruolo sostanziale e centrale, e non fare da comprimari ad una razionalità (aziendale) che desertifica l’esistente per il fine astratto e feticistico della valorizzazione monetaria. Su questi temi, cfr. anche il Pamphlet per la buona vita proposto dalla rivista Streifzüge in varie lingue (in italiano con il titolo Ciò che ti distrugge non va riparato, visionabile sul web a questo indirizzo: http://www.streifzuege.org/2014/ci-che-ti-distrugge-non-va-riparato).

9. Interessante e per certi versi chiarificatrice può essere qui anche la distinzione che attua in questo senso Hannah Arendt in Vita Activa, fra “lavoro” e “opera”, a cui sono dedicati rispettivamente il III e il IV capitolo di quel libro: il primo (lavoro) è proprio dell’animal laborans ed è l’attività “necessaria” e spiacevole propria dell’uomo al fine di mantenersi in vita, la seconda (l’opera) è il risultato durevole della creatività e della mente umana. Benché le intenzioni della Arendt non fossero certo quelle di promuovere un percorso di “liberazione” dal lavoro, questa distinzione può aiutare ad intendere meglio anche il pensiero dei nostri autori. Per una chiara visione, invece, del carattere distruttivo e storicamente alienante del lavoro, è consigliabile la lettura del bel saggio di Paolo Lago, Il significato di labor. Uno sguardo al significato di labor (da cui l’italiano ‘lavoro’) in alcune occorrenze di autori latini, presente sul web a questo indirizzo: http://www.streifzuege.org/2002/il-significato-di-labor.

10. Silvio Gesell, vissuto fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, predicava la creazione di monete a scadenza, che quindi non avessero la possibilità di creare interesse e di essere tesaurizzate. Questo tipo di moneta venne sperimentato nel 1932 a Wörgl, in Tirolo, durante la Grande Depressione, e con un certo successo, tanto che il governo austriaco ne proibì l’emissione l’anno successivo. Che comunque essa rappresenti anche un modo efficace di uscire dal sistema capitalistico è una cosa ancora da dimostrare. In questo senso, può essere utile una lettura dell’articolo di Andreas Exner, rintracciabile sul web a questo indirizzo: http://www.streifzuege.org/2005/bye-bye-critica-dellinteresse.

11. Anselm Jappe, Contro il denaro, Mimesis, 2013.

12. Che in questa dimensione “altra” possa avere una qualche funzione un “altro” tipo di moneta, ora non più “fine” ma “mezzo”, oppure se, a quel punto, sia del tutto inutile ed anche inopportuna, è una questione che, personalmente, ritengo ancora aperta, e credo sia giusto resti tale. In ogni caso, una eventuale nuova moneta, ora “riappropriata”, non potrebbe né dovrebbe avere l’importanza che ha nel sistema del capitale, e svolgerebbe solo un ruolo secondario, di appendice a scambi che si svolgerebbero su un altro terreno e con criteri radicalmente diversi da quelli propri dei “mercati”.

13. Cfr. infra “La decrescita, come sapete, non è un concetto, non è cioè il contrario della crescita: è molto semplicemente uno slogan mediatico perché provocatore, che serve a spezzare il gergo, il rumore dominante dell’ideologia economicista, che è l’ideologia della necessità della crescita. […] Con questo slogan, noi siamo dunque al tempo stesso nell’immaginario dominante, e tuttavia questo stesso immaginario viene radicalmente contestato” (p. 48).

14. Cfr. infra “[…] dibattere di analisi, teoria, immaginario è un primo passo, ma occorre avere anche coscienza dei limiti di tutto questo: per esempio, oggigiorno, rispetto a trenta anni fa, la coscienza ecologica si è sviluppata considerevolmente, tutti si dichiarano ecologisti, una grande parte della gente ha coscienza dei danni che vengono inflitti all’ambiente, ma questa presa di coscienza non ha rallentato un solo istante la devastazione del mondo” (p. 97).

15. Dialektik der Aufklärung, Querido Verlag, 1947, tr. it. Dialettica dell‘illuminismo, Einaudi, 1966. Lettura dell’illuminismo rispetto alla quale, tuttavia, la critica del valore, e in particolar modo Robert Kurz, cercano di andare oltre.

16. E neanche ovviamente possiamo propendere per soluzioni new age, né per un anti-industrialismo astratto o un “ritorno alla natura” altrettanto astratto. È forse il caso di riportare qui una lunga citazione da una intervista a Robert Kurz, che chiarisce molti aspetti della questione: “Già Marx disse, a ragione, che l’anti-industrialismo astratto è reazionario, perché getta via il potenziale di socializzazione e, così come gli apologeti del capitalismo, può immaginare solo un contesto generale di riproduzione sociale nelle forme del capitale. L’anti-industrialismo conclude che l’autodeterminazione umana potrà esserci solo a spese della ‘desocializzazione’, in piccole reti basate su un’economia della sussistenza (small is beautiful). Il ritorno postulato alla riproduzione agraria è solo l’aspetto materiale di questa ideologia. Al posto di una divisione delle funzioni, ampiamente diversificata e interrelata, deve entrare il ‘fai da te’ immediato. Si tratta di una fantasia economica che costituisce un aspetto di quella che Adorno chiamava ‘falsa immediatezza’. Se queste condizioni fossero realizzate, una gran parte dell’umanità attuale morirebbe di fame. […]. Tali idee sono un mero sotterfugio. Non chiedono di entrare in conflitto con l’amministrazione della crisi, ma piuttosto di coltivare il loro proprio idillio immaginario, ‘al lato’ della sintesi sociale reale operata dal capitale. Nella pratica questi progetti sono completamente irrilevanti. Essi non rappresentano altro che un’ideologia dei ‘buoni sentimenti’ per sinistre disorientate, le quali intendono illudersi nel capitalismo di crisi correndo il rischio di diventare esse stesse un mezzo a cui ricorrere da parte dell’amministrazione della crisi. La questione, invece, è liberare la riproduzione sociale dal feticcio del capitale e dalle sue forme basilari. I potenziali della socializzazione sono determinati nel capitalismo in modo puramente negativo, come sottomissione degli esseri umani al fine in sé della valorizzazione. Perfino il lato materiale della produzione industriale obbedisce a questo imperativo del ‘soggetto automatico’ (Marx). Pertanto, il contenuto materiale della socializzazione industriale non può essere superato positivamente, ma deve essere abolito insieme alle forme feticistiche del capitale. Ciò non riguarda solo i rapporti sociali di produzione ma anche il rapporto con la natura. Non si tratta, di conseguenza, di assumere l’industria capitalista e il produttivismo che gli è inerente senza rotture. Tuttavia, un ‘antiproduttivismo’ ugualmente astratto, o la regressione a una povertà idilliaca in un’economia di sussistenza e l’atmosfera socialmente oppressiva di confuse ‘comunità’, non è alternativa, ma solo il rovescio della stessa medaglia. Il compito è dunque di rivoluzionare le condizioni materiali di produzione a livello sociale globale ed avere come obiettivo la soddisfazione dei bisogni, così come la preservazione delle basi naturali. Ciò significa che non potrà più aversi lo sviluppo incontrollato secondo il criterio generale e astratto della cosiddetta razionalità dell’economia d’impresa. I vari momenti della riproduzione sociale devono essere considerati nel contesto della logica stessa del rispettivo contenuto. Per esempio, le cure mediche e l’educazione non possono essere organizzati secondo lo stesso criterio delle macchine perforatrici o dei cuscinetti a sfera. Le infrastrutture sociali oltrepassano in generale la forma valore, grazie alla ‘scientifizzazione’. Anche nell’industria deve essere sostituita questa logica del valore, che trasforma le forze produttive in forze distruttive, per cui vengono dismessi domìni di aree vitali per caduta di ‘redditività’. Così, la mobilità non dev’essere eliminata, o ridotta al livello di carretti trainati da asini, ma piuttosto, partendo dalla forma distruttiva del trasporto automobilistico individuale, trasformata in una rete qualitativamente nuova dei trasporti pubblici. Gli ‘escrementi della produzione’ (Marx) non possono continuare a essere sparsi nella natura, anziché essere integrati in un circuito industriale. E la ‘cultura della combustione’ capitalista non può essere mantenuta, ma è necessario un uso differente delle energie fossili. Infine, è necessario che i momenti della riproduzione non suscettibili di essere abbracciati dal valore e dal lavoro astratto, che furono dissociati dalla società ufficiale e storicamente delegati alle donne (attività domestiche, assistenziali, cura etc.), siano organizzati in forma coscientemente sociale e slegati dalla loro caratterizzazione sessuale. Questa ampia diversificazione della produzione industriale e dei servizi, secondo criteri puramente qualitativi, è qualcosa di differente da un anti-industrialismo astratto; ma esige l’abolizione della ragione capitalista, della sintesi attraverso il valore e il calcolo economico imprenditoriale da quello derivante. Ciò funziona come processo sociale, per mezzo di un contro-movimento sociale della stessa società, e non attraverso ‘modelli’ pseudo-utopici, che avrebbero solo da essere generalizzati. La società post capitalistica non può essere dipinta come un modello positivo che si debba presentare preconfezionato. Ciò non equivarrebbe ad alcuna concretizzazione, non andrebbe oltre una patetica astrazione e un’anticipazione della falsa obiettività, inevitabilmente la stessa che deve essere abolita. Ciò che la teoria può sviluppare, in quanto critica dell’economicismo capitalista, sono i criteri di una socializzazione differente. Qui è inclusa, in primo luogo, una pianificazione cosciente delle risorse, che deve sostituire la dinamica cieca delle ‘leggi coercitive della concorrenza’ (Marx). La pianificazione sociale è stata screditata, anche a sinistra, perché il suo concetto non è mai stato compreso oltre l’estinto socialismo burocratico di Stato. Ma questo socialismo non costituiva un’alternativa al capitalismo, ma piuttosto, essenzialmente, una ‘modernizzazione in ritardo’ nella periferia del mercato mondiale, che faceva uso dei meccanismo dello Stato capitalistico. La logica del valore non era abolita ma semplicemente nazionalizzata. La coscienza critica non andava più in là, nelle condizioni di uno sviluppo non concluso del capitalismo mondiale. Non doveva essere per forza così, ma è un fatto storico. Si trattava semplicemente della partecipazione delle regioni periferiche al mercato mondiale con pari diritti, partecipazione che è finita nel fallimento. Pertanto, questa formazione rimaneva prigioniera dell’aporia di una ‘pianificazione del valore’, che per sua natura non è pianificabile, ma implica la concorrenza universale, sotto i dettami del produttivismo astratto. Se oggi la socializzazione negativa attraverso il valore urta in limiti storici su scala mondiale, è all’ordine del giorno un nuovo paradigma di pianificazione sociale, oltre il mercato e lo Stato, il valore e il denaro.” Intervista cit., http://ozioproduttivo.blogspot.it/2014/04/intervista-robert-kurz-maggio-2010-la.html.

17. Per evitare equivoci, questa “assunzione di responsabilità” è qualcosa di qualitativamente e radicalmente differente dall’assoggettamento richiesto dal potere. Ne è piuttosto il contrario, per cui può assumere forme molto diverse da quelle a cui siamo abituati e per le quali esiste tutta una serie di dispositivi funzionali al disciplinamento necessario per il buon funzionamento del dannoso sistema in cui viviamo. Per una efficace panoramica sulle tematiche del disciplinamento e dell’assoggettamento, cfr. Michel Foucault, Résumé des cours 1970-1982, a cura del Centro Sociale Occupato Autogestito Godzilla di Livorno, BFS, 1994, ma anche Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, in A partire da Foucault. Studi su potere e soggettività, (atti di un convegno tenuto a Livorno nel giugno 1992), a cura di Andrea Grillo, pp. 158-163, La Zisa, 1994.

 

Nella foto Massimo Maggini e Serge Latouche a Livorno.

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Massimo Maggini

Vive a Livorno e si occupa da molti anni dei temi del lavoro e della trasformazione sociale. Collabora coi movimenti per l’ambiente e per le lotte sociali.

4 Commenti

  1. Ciao Massimo, non avevo mai letto questo tuo commento, ma dopo aver sentito dal vivo Serge Latouche, le sue teorie sul soggetto da cui indirizza suoi scritti, quelli che faranno la decrescita (gli impiegati statali), mi sono cadute le braccia. Credo che proprio non si concilia con quelle di Jappe.
    Come fai a metterli insieme?? Sono agli opposti.

    • ciao
      e’ una reazione che hanno in molti, e la comprendo bene 🙂
      Tuttavia, credo che la Decrescita e la Critica del Valore siano due teorie che in qualche modo si integrino piuttosto bene, purche’ siano disposte a dialogare fra loro. In effetti Serge ogni tanto puo’ far cascare le braccia, e pure qualche altra cosa, ma non e’ questo il punto. La Decrescita, anche se indubbiamente deve la propria esistenza e forza in gran parte al pensiero di Serge, non puo’ e non deve essere identificata tout court con lui, con il suo personaggio, con quello che fa che dice che mangia o che veste. 🙂 Piuttosto e’ bene che questo pensiero che deve molto a lui, non gli appartenga come una “proprieta’ privata” ma entri a far parte di una piu’ generale “sapienza collettiva”, se cosi’ posso dire, e da essa sia elaborato e pensato. E’ in questo senso che credo le due teorie, a mio avviso fra le piu’ penetranti e feconde in questo momento storico, debbano dialogare, senza preconcetti ma anzi con la massima apertura – che non significa consenso acritico tout court riguardo a tutto quello che dicono. Persino la Critica del Valore a mio avviso ha zone in ombra che andrebbero ripensate e soppesate con attenzione, ma questo non toglie ad essa “valore”, per usare un termine decisamente improprio in questo contesto.
      Per entrare nel merito e fare un esempio, trovo l’insistenza della Decrescita sulla trasformazione dell’immaginario un contributo veramente importante che questa teoria da’ a chiunque sia interessato/a ad una trasformazione radicale del mondo, cosi’ come trovo sia un contributo determinante l’analisi che fa la Critica del Valore della crisi capitalistica. Come la prima non fa un’analisi altrettanto rigorosa e serrata della crisi, la seconda trascura elementi meno “concreti” (ma solo in apparenza) come l’immaginario, e per questo e’ bene – sarebbe bene – che pensieri come questi collaborassero in vista di una “spallata” al criminale mondo del capitale, invece di essere in competizione fra loro per chi la dice piu’ giusta e vede piu’ lungo.
      un saluto

    • Ciao Savino, non so come, ma oggi sono ricapitato in questa pagina e, rivedendo la tua nota, mi è venuta voglia di risponderti nuovamente, magari chiarendo meglio il mio punto di vista su questa vicenda, se riesco (e scusa se forse mi ripeterò un po’, ma – come dicevano gli antichi – repetita iuvant – e ripetere, a distanza di quasi sei anni, certi concetti aiuta, probabilmente, a non farli invecchiare :-)).
      Be’, come già avevo scritto, sono abbastanza consapevole delle differenze, talvolta anche radicali, fra le due correnti di pensiero. E anche di quelli che, a mio avviso, sono i loro difetti (non solo di quelli della decrescita di Latouche, quindi :-)). Tuttavia, mi sembra che al loro interno ci siano dei “punti cardinali” imprescindibili, a partire dai quali sia forse possibile rimettere in piedi un’istanza “sovversiva” all’altezza dei tempi. E quando dico “sovversiva” intendo radicalmente anticapitalistica, cioè inconciliabile con il capitalismo e non recuperabile da esso. Solo per tornare sull’esempio che gia’ utilizzai nell’altro commento, l’insistenza sull’importanza di dare forma compiuta ad un immaginario anticapitalista, nella decrescita, e il “disvelamento” della dinamica della crisi senza ritorno nella società a tecnologia avanzata, nella critica del valore, sono due di questi.
      Il lavoro da fare è lungo, certo, ma questi due pensieri sono dei buoni punti di partenza, imprescindibili, sempre a mio avviso, per chi abbia veramente a cuore l’abbattimento, reale e definitivo, del regime del capitale. Non sono i soli, certo, ma il loro contributo va sempre tenuto di conto. Naturalmente, come in ogni cosa, bisogna sapersi muovere al loro interno e soprattutto non farli diventare delle “religioni”, cioè occorre avere l’atteggiamento sobrio e l’approccio attento che comunque sempre conviene. Tantomeno trattarli come “mode”: se dicono qualcosa di importante, lo dicono davvero, e non in modo passeggero. Se porteranno anche risultati “pratici” di un certo rilievo, lo vedremo. Può essere interessante, intanto, constatare che il pensiero di Jappe & c. comincia ad avere una diffusione più “capillare” in Francia ed ha avuto il suo ruolo, certo minore e sotterraneo, anche nei recenti scioperi francesi contro l’aumento dell’eta’ pensionabile (cf. https://anatradivaucanson.it/dibattiti/tout-le-monde-deteste-luc-ferry). Un saluto.

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