Alcuni punti essenziali della critica del valore

Pubblichiamo qui, nella traduzione di Afshin Kaveh, l’appendice presente a chiusura del libro La société autophage di Anselm Jappe, éd. La Découverte, 2017, ancora inedito in Italia

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Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Quest’ultima non è soltanto ciclica, ma finale: non nel senso di un crollo imminente ma come disintegrazione di un sistema plurisecolare. Non è la profezia di un evento futuro, ma la constatazione di un processo divenuto visibile agli inizi degli anni Settanta e le cui radici risalgono all’origine stessa del capitalismo.
Non assistiamo al passaggio a un altro regime d’accumulazione (come nel caso del fordismo), né all’avvento di nuove tecnologie (come nel caso dell’automobile), né a un trasferimento del centro di gravità verso altre regioni del mondo, ma all’esaurimento della fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivo in valore.
Le categorie fondamentali del capitalismo, quelle che Karl Marx ha analizzato nella sua critica dell’economia politica, sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, che si riassumono nel concetto di “feticismo della merce”.
Una critica morale, fondata sulla denuncia dell’“avidità”, non coglierebbe il punto essenziale.
Non si tratta di essere marxisti o postmarxisti, o d’interpretare l’opera di Marx o completarla con altri apporti teorici. Piuttosto, si deve ammettere la differenza tra il Marx “essoterico” e il Marx “esoterico”, tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l’essenza e il fenomeno. Marx non è “superato”, come dicono i critici borghesi. Anche se manteniamo innanzitutto la critica dell’economia politica, e al suo interno soprattutto la teoria del valore e del lavoro astratto, essa costituisce sempre il contributo più importante per comprendere il mondo in cui noi viviamo. Un uso emancipatorio della teoria di Marx non significa “superarla” o migliorarla con altre teorie o, ancora, tentare di ristabilire il “vero Marx” né di prenderlo sempre alla lettera, ma piuttosto pensare il mondo d’oggi con gli strumenti che ha messo a nostra disposizione. Bisogna sviluppare le sue intuizioni fondamentali, a volte contro la lettera dei suoi testi.
Le categorie di base del capitalismo non sono né neutre né sovrastoriche. Le loro conseguenze sono disastrose: la supremazia dell’astrazione sul concreto (dunque la loro inversione), il feticismo della merce, l’autonomizzazione dei processi sociali in relazione alla volontà umana cosciente, l’uomo dominato dalle proprie creazioni. Il capitalismo è inseparabile dalla grande industria, valore e tecnologia vanno di pari passo – non sono che due forme di determinismo e di feticismo.
Inoltre, queste categorie sono soggette a una dinamica storica che le rende ancora più distruttive, ma che apre anche alla possibilità del loro superamento. Effettivamente, il valore si esaurisce. Dal suo debutto, più di duecento anni fa, la logica capitalista tende a “segare il ramo sul quale si siede”, perché la concorrenza spinge ciascun capitale particolare all’impiego di tecnologie che sostituiscono il lavoro vivo: questo comporta un vantaggio immediato per il capitale particolare in questione, ma diminuisce anche la produzione di valore, di plusvalore e di profitto su scala globale, mettendo così in difficoltà la riproduzione del sistema. I diversi meccanismi di compensazione, di cui l’ultimo è stato il fordismo, sono definitivamente esauriti. La “terziarizzazione” non salverà il capitalismo: bisogna tener conto della differenza tra il lavoro produttivo e il lavoro improduttivo (di capitale, ovvio!).
Agli inizi degli anni Settanta è stato raggiunto un triplo, o addirittura quadruplo, punto di rottura: economico (visibile nell’abbandono dell’indicizzazione del dollaro sul sistema aureo), ecologico (visibile nel rapporto del Club di Roma), energetico (visibile nel “primo shock petrolifero”), a cui si aggiungono i cambiamenti di mentalità e delle forme di vita nel dopo-1968 (“modernità liquida”, “terzo spirito del capitalismo”). Così, la società della merce [société marchande] ha cominciato a scontrarsi contro i suoi limiti sia esterni che interni.
In questa permanente crisi dell’accumulazione – che significa una crescente difficoltà a realizzare dei profitti –, i mercati finanziari (il capitale fittizio) sono diventati la fonte principale del profitto permettendo di consumare dei guadagni futuri non ancora realizzati. Il decollo mondiale della finanza è l’effetto, non la causa, della crisi della valorizzazione del capitale.
Gli attuali profitti di certi attori economici non dimostrano che il sistema in quanto tale sia in buono stato. La torta è sempre più piccola, anche se si taglia in fette più grandi. Né la Cina né altri “paesi emergenti” salveranno il capitalismo, nonostante il selvaggio sfruttamento di cui sono il teatro.
È necessario criticare la centralità del concetto di “lotta di classe” nell’analisi del capitalismo. Il ruolo delle classi è piuttosto una conseguenza del loro impiego nell’accumulazione del valore in quanto processo anonimo – le classi non ne sono all’origine. Non è l’ingiustizia sociale che rende il capitalismo storicamente unico, essa esisteva da ben prima. Sono il lavoro astratto e il denaro i rappresentanti che hanno creato una società interamente nuova in cui gli attori, anche gli stessi “dominanti”, sono essenzialmente gli esecutori di una logica che li oltrepassa (un riscontro che non esonera affatto certe figure dalle proprie responsabilità).
Il ruolo storico del movimento operaio, al di là delle sue proclamate intenzioni, è stato funzionale nel promuovere l’integrazione del proletariato. Questa si è rivelata effettivamente possibile durante la lunga fase di ascesa della società capitalista ma, oggigiorno, non lo è più.
È necessario riprendere una critica della produzione, e non soltanto della distribuzione equa di categorie presupposte (denaro, valore, lavoro). Oggi, la questione del lavoro astratto non è più “astratta”, ma direttamente sensibile.
L’Unione Sovietica è stata essenzialmente una forma di “modernizzazione di recupero” (attraverso l’autarchia). Questo vale ugualmente per i movimenti rivoluzionari della “periferia” e i paesi che hanno potuto governare. Il loro fallimento dopo gli anni Ottanta è la causa di numerosi conflitti attuali.
Il trionfo del capitalismo è anche il suo fallimento. Il valore non crea una società che funziona, fosse anche tra le ingiustizie, ma distrugge le proprie basi in tutti i campi.
Piuttosto che continuare a cercare un “soggetto rivoluzionario”, bisogna superare il “soggetto automatico” (Marx) sulla quale si fonda la società della merce [société marchande].
A fianco dello sfruttamento – che continua ad esistere, e anche in proporzioni gigantesche –, vi è la creazione di un’umanità “superflua”, perfino di un’“umanità di scarto”, che è diventata il principale problema posto dal capitalismo. Il capitale non ha più bisogno dell’umanità e finisce con l’autodivorarsi. Questa situazione costituisce un terreno favorevole all’emancipazione, ma anche alla barbarie. Piuttosto che a una dicotomia Nord-Sud, siamo di fronte a una “apartheid globale”, con dei muri attorno a delle isole di ricchezza, in qualche paese, in qualche città.
L’impotenza degli Stati di fronte al capitale mondiale non è soltanto un problema di cattiva volontà, ma il risultato del carattere strutturalmente subordinato dello Stato e della politica alla sfera del valore.
È impossibile superare la crisi ecologica nell’ambito del capitalismo, anche puntando alla “decrescita” o, peggio ancora, al “capitalismo verde” e allo “sviluppo sostenibile”. Finché perdura la società della merce [société marchande], l’incremento della produttività fa sì che una massa sempre crescente di oggetti materiali – la cui produzione consuma delle risorse reali – rappresenti una massa sempre più piccola di valore che è l’espressione del lato astratto del lavoro – ed è soltanto la produzione di valore che conta nella logica del capitale. Essenzialmente il capitalismo è, dunque, inevitabilmente produttivista, volto alla produzione per la produzione.
Stiamo inoltre vivendo una crisi antropologica, una crisi della civilizzazione, quindi una crisi della soggettività. C’è una perdita dell’immaginario, soprattutto di quello che nasce nell’infanzia. Il narcisismo è diventato la forma psichica dominante. Si tratta di un fenomeno globale: la Playstation può trovarsi nella capanna in mezzo alla giungla così come nel loft newyorkese. Di fronte alla regressione e alla decivilizzazione promosse dal capitale, è necessario decolonizzare l’immaginario e reiventare la felicità.
La società capitalista, fondata sul lavoro e il valore, è anche una società patriarcale – e lo è nell’essenza, non soltanto per accidente. Storicamente la produzione di valore è un affare maschile. In effetti, non tutte le attività creano del valore che appare nello scambio di merci [échanges marchands]. Le attività dette “riproduttive” che si svolgono soprattutto nella sfera domestica sono generalmente devolute alle donne. Queste attività sono indispensabili alla produzione di valore, ma non ne producono direttamente. Giocano un ruolo imprescindibile, ma ausiliario, nella società del valore. Questa società consiste tanto nella sfera del valore quanto in quella del non-valore, vale a dire nell’insieme di queste due sfere. Ma la sfera del non-valore non è “libera” o “non alienata”, tutto il contrario. Questa sfera del non-valore contiene lo status di “non-soggetto” (da molto tempo anche a livello giuridico), perché queste attività non sono considerate come “lavoro” (per quanto possano essere utili) e non appaiono sul mercato.
Il capitalismo non ha inventato la separazione tra la sfera privata, domestica, e la sfera pubblica, il lavoro, ma l’ha fortemente accentuata. Questa è nata – malgrado le sue pretese universaliste, che si sono espresse attraverso l’Illuminismo – sotto forma di una dominazione degli uomini bianchi occidentali, e ha proseguito a fondarsi su una logica d’esclusione: separazione tra, un lato, la produzione di valore, il lavoro che lo crea e le qualità umane che vi contribuiscono (in particolare la disciplina interiorizzata e lo spirito della concorrenza individuale) e, dall’altro lato, tutto quello che non vi fa parte. Una fetta degli esclusi, e in particolare delle donne, sono stati parzialmente “integrati” nella logica della merce [logique marchande] nel corso degli ultimi decenni e sono potuti accedere allo status di “soggetto” – ma soltanto quando hanno dimostrato di aver acquisito e interiorizzato le “qualità” degli uomini bianchi occidentali. Generalmente, il prezzo di questa integrazione consiste in una duplice alienazione (famiglia e lavoro per le donne). Allo stesso tempo, si creano delle nuove forme d’esclusione, soprattutto in tempi di crisi. Tuttavia, non si tratta di esigere l’“inclusione” degli esclusi nella sfera del lavoro, del denaro e dello status di soggetti, ma di farla finita con una società in cui solo la partecipazione al mercato dà il diritto d’essere “soggetto”. Il patriarcato, non più del razzismo, è una sopravvivenza anacronistica nel quadro di un capitalismo che tende all’uguaglianza di fronte al denaro.
Il populismo costituisce attualmente un grande pericolo. Critica unicamente la sfera finanziaria, mescolandovi degli elementi di sinistra e di destra, evocando talvolta l’“anticapitalismo” troncato dei fascisti. È necessario combattere il capitalismo in blocco e non soltanto la sua fase neoliberale. Un ritorno al keynesismo e allo Stato sociale non è né sostenibile né possibile. Vale la pena di lottare per “integrarsi” alla società dominante (ottenere dei diritti, migliorare la propria situazione materiale)? O è semplicemente impossibile?
Conviene evitare il fuorviante entusiasmo di chi somma tutte le attuali forme di contestazione per dedurne l’esistenza di una rivoluzione già in atto. Alcune di queste forme rischiano d’essere recuperate per la difesa dell’ordine stabilito, altre possono condurre alla barbarie. Il capitalismo stesso realizza la propria abolizione, quella del denaro, del lavoro, ecc. – e dipende dall’agire cosciente se il seguito sarà migliore oppure peggiore.
È necessario superare la dicotomia tra riforma e rivoluzione – ma nel nome del radicalismo, perché il riformismo non è “realista”, in nessun caso. Spesso si dà troppa attenzione alla forma della contestazione (violenta/non-violenta, ecc.) invece di interessarsi al suo contenuto.
L’abolizione del denaro e del valore, della merce e del lavoro, dello Stato e del mercato, deve aver luogo immediatamente – né come programma “massimalista” né come utopia, ma come unica forma possibile di “realismo”. Non basta liberarsi della “classe dei capitalisti”, è necessario liberarsi del rapporto sociale capitalista – un rapporto che coinvolge tutti, indipendentemente dai ruoli sociali. Dunque, è difficile tracciare chiaramente una linea tra “loro e noi”, anche dire “noi siamo il 99%”, come hanno spesso fatto i “movimenti di piazza”. Tuttavia questo problema può presentarsi in maniera molto differente nelle diverse regioni del mondo.
Non si tratta assolutamente di realizzare qualche forma d’autogestione dell’alienazione capitalista. L’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non sarà sufficiente. La subordinazione del contenuto della vita sociale alla forma-valore e alla sua accumulazione potrebbe essere in grado, al limite, di fare a meno di una “classe dominante” e di svolgersi in una forma “democratica”, ma non per questo meno distruttiva. La colpa non è né della struttura tecnica in quanto tale né di una modernità considerata come insuperabile, ma del “soggetto automatico” che è il valore.
Esistono differenti modi d’intendere l’“abolizione del lavoro”. Concepire la sua abolizione attraverso le tecnologie rischia di rafforzare la tecnolatria imperante. Piuttosto che ridurre semplicemente il tempo di lavoro, oppure fare un’“elogio dell’ozio”, è necessario superare la distinzione tra il “lavoro” e le altre attività. Su questo punto, le culture non-capitaliste sono ricche d’insegnamenti.
Non vi è alcun modello del passato da riprodurre tale e quale né alcuna saggezza ancestrale che ci guidi. Ma il fatto stesso che tutta l’umanità, durante dei lunghissimi periodi, e ancora una buona parte dell’umanità fino a poco tempo fa, abbia vissuto senza le categorie capitaliste, dimostra almeno che queste non sono niente di naturale e che è possibile vivere senza.

Anselm Jappe

Anselm Jappe

Anselm Jappe (1962) filosofo di origine tedesca, ha studiato a Roma, dove si è laureato con Mario Perniola, e a Parigi. Insegna Estetica all’Accademia delle Belle Arti di Roma. Ha tenuto conferenze in molte Università europee e latinoamericane. Ha pubblicato nel 1993 la prima monografia su Guy Debord e ha continuato ad occuparsi dei situazionisti, è uno dei maggiori interpreti della «critica del valore».

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