La crisi del Covid-19 secondo la critica del valore
Al momento la prima parvenza di un dibattito pubblico sul Covid-19 – che poi si è a lungo perso polarizzandosi nel tracciare una linea di demarcazione tra chi, di fronte alla nascita, alla diffusione e alla gestione del virus si pretendeva ragionevole, accusando invece di irragionevolezza la fazione opposta e così viceversa – sembra oggi essersi completamente disinteressato di sé, svanendo nel nulla. Di quel poco che ha prodotto ciò che sembra cadere sempre di più nel dimenticatoio è l’accrescimento del livello di coscienza e consapevolezza che, successivamente a quella che riguardandoci indietro viene ricordata come “prima ondata”, sembrava già poter ridisegnare le pratiche necessarie verso vere e proprie rotture emancipatrici: la tragica portata dell’evento aveva illuminato determinati angoli bui della logica del funzionamento del modo di produzione capitalistico tanto che in un primo momento sembrava prendere piede una lettura abbastanza radicale della deforestazione, dell’agricoltura industriale, degli allevamenti intensivi, dell’inquinamento, degli scambi commerciali, della relazione animale umano, animale non-umano e natura e il nesso di questi specifici fattori alla malattia del Covid-19.
A questo proposito il libro Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale (ombre corte, Verona 2021, pp. 128) è uno strumento prezioso per poter riaccendere quella luce. Composto a più mani da alcuni dei membri redazionali della rivista francese Jaggernaut ruotante attorno alla corrente internazionale della “critica del valore”, Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias ne iniziarono la stesura in concomitanza al primo confinamento nel marzo 2020 e poco dopo, verso la fine di agosto, veniva stampato dalle edizioni Crise&Critique col titolo De virus Illustribus. Crise du coronavirus et épuisement structurel du capitalisme, mentre contemporaneamente veniva tradotto ed edito in Brasile come Capitalismo em quarentena, titolo poi ereditato sia dall’edizione uscita in Portogallo che da quella italiana. Questa diffusione – a cui si aggiungono alcuni capitoli tradotti per delle riviste in spagnolo e in tedesco – deve certo tenere conto della propria naturale temporalizzazione: giusto per fare un piccolo esempio, ha visto luce in italiano subito dopo che uno dei tanti attori citati non era più protagonista in prima persona sotto i riflettori mediatici, ovvero il signor Trump; eppure la genuinità radicale dello sguardo degli autori e delle loro letture, poste e composte direttamente nel cuore dell’evento, è stata capace di costruire una serie di efficaci attrezzi che riutilizzati oggi, a pochi anni di distanza, riescono ancora non solo a cogliere nel segno ma anche ad andarne oltre. Questo perché il cominciamento del loro metodo d’analisi, ben lungi dai malvagi soggetti empirici affannosamente ricercati da una determinata critica populista trasversale e ibernata alla sola fase economica neoliberale, riconosce il modo di produzione capitalistico come storicamente determinato nelle categorie di “merce”, “lavoro”, “denaro” e “valore” e l’automovimento tautologico di quest’ultimo, nella logica della “valorizzazione del valore”, assume in tutto e per tutto il ruolo di “soggetto automatico” in un’inversione feticistica del soggetto-oggetto, ovvero l’irrazionale appiattimento della forma sociale sul contenuto materiale. A partire da questa specifica definizione gli autori pongono come «punto di partenza dell’analisi e delle riflessioni sulla crisi del coronavirus» quello che definiscono «l’insieme del processo di crisi fondamentale» che da decenni investe il modo di produzione capitalistico, di cui il Covid-19 è «l’acceleratore ma non la causa». Sì, perché la «crisi planetaria legata alla pandemia non appare nel cielo sereno di un capitalismo in buona salute»; proprio questo pessimo stato di salute è una chiave utile per comprendere lo stato generale delle cose formatosi dal relazionarsi dialettico di molteplici fattori in gioco.
Primo tra tutti il contesto che ha dovuto accogliere il virus, infatti il Covid-19 è comparso «nel bel mezzo di una crisi dell’economia mondiale» accentuando di fatto una tendenza che gli autori definiscono la «crisi strutturale» del modo di produzione capitalistico in quanto questa «non è una delle classiche crisi cicliche che hanno accompagnato la sua fase ascendente» con le canoniche «tendenze alla sovraccumulazione e/o alla sovrapproduzione», ma è di una qualità nuova. Infatti, «ciò che mina strutturalmente e irreversibilmente il capitalismo da diversi decenni non è la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, come pensano gli ultimi dinosauri del marxismo tradizionale», ma «è la diminuzione assoluta del lavoro vivo coinvolto nell’immediato processo di produzione e la conseguente caduta della massa di plusvalore sociale». Non a caso «il regime di accumulazione, oramai da quattro decenni, non è più strutturalmente un regime di accumulazione alimentato dal plusvalore reale ottenuto solo dallo sfruttamento della corrispondente massa di lavoro vivo» ma, spezzato dalla sua stessa contraddizione divenuta palese col passaggio attraverso la terza rivoluzione industriale e oltre, «il capitalismo di crisi» a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento «non ha potuto fare altro che ristrutturarsi in un nuovo regime di accumulazione che si basa sulla moltiplicazione esponenziale del capitale fittizio, vale a dire sull’anticipazione di una futura produzione di plusvalore» al presente; una massa di plusvalore che è però «già “consumata”», facendo di questa corsa un inseguimento autoreferenziale. Così, «dopo gli anni Ottanta, la storia dell’economia» può benissimo «essere intesa come una successione di bolle speculative e di ondate di debiti che sono cresciute in dimensione e frequenza». Come espongono molto bene gli autori, il centro di questa logica d’accumulazione è «l’inversione della relazione tra capitale funzionante e capitale fittizio» di modo che la moltiplicazione di quest’ultimo non è più il punto di partenza come successo per le politiche keynesiane di indebitamento pubblico in vista del boom fordista del dopoguerra, bensì ne è «il motore principale», la marcia perpetua di un regime di produzione sempre più privo della sua stessa sostanza. Tuttavia, checché ne dicano i paladini della critica troncata alla sola finanza, «anche la moltiplicazione del capitale fittizio non diventa una potenza indipendente» ma questi stessi capitali, in quanto «merci derivate», presuppongono aprioristicamente «che nell’economia reale di sfruttamento del lavoro vivo si trovino dei segnali» su cui poter sostenere aspettative di ricavo. Ma queste stesse aspettative, o meglio queste speranze che arrivano direttamente dal futuro, con l’anticipazione fittizia di plusvalore, devono fare i conti con la realtà di un presente strozzato «dal doppio limite interno» (quello appena descritto) «ed esterno» (quello ecologico) del modo di produzione capitalistico.
Ignorando completamente questi fattori si sono massicciamente palesate nel dibattito pubblico sul virus una serie di robinsonate dallo spirito individualistico e irrazionalistico, sentenziando le molteplici cause del Covid-19 con cadenza «antistorica, biologizzante e naturalizzante»: da una parte colpevolizzando le condotte dei singoli e assolvendo la società e il modo di produzione e riproduzione che la regge e dall’altra parte proiettando ed esternalizzando il virus a cataclisma o flagello biologico che, in quanto tali, sono presentati come inevitabilmente esistenti da sempre e per sempre dall’alba delle società umane. Ma come precisano gli autori, «se le malattie, e a maggior ragione le infezioni virali, sono ovviamente fatti biologici, delle malattie come le epidemie sono sempre strettamente legate a specifiche società storiche» proprio perché «il biologico per l’umanità esiste soltanto “incastonato” nella matrice dei rapporti storico-sociali» (e su questo punto si manifestano tutti i limiti astorici della lettura biopolitica foucaultiana e di conseguenza del suo metodo archeologico e genealogico su cui casca, tra i tanti, anche Agamben). Non a caso la diffusione del Covid-19 ha seguito la traiettoria geografica dei circuiti del capitale, tra i flussi «del turismo di massa e degli affari, dei lavoratori migranti e delle catene di produzione globali che utilizzano rotte aeree, ferroviarie e crocieristiche», e si è poi alimentato attraverso altrettanti fattori come «la densità delle popolazioni, l’urbanizzazione, l’inquinamento atmosferico», le condizioni specifiche delle sanità locali; allo stesso titolo «l’invasione delle attività capitalistiche negli habitat ad altissima biodiversità, le condizioni di concentrazione degli allevamenti intensivi e il cambiamento climatico, sono le cause principali dell’aumento esponenziale di zoonosi» di modo che «unificazione virale e unificazione della vita sulla Terra attraverso il rapporto di capitale vanno di pari passo» facendo dei numerosi fattori che circondando l’affare Covid-19 un grande e dettagliato quadro che, in tutto e per tutto, è storicamente determinato alla e nella fase attuale.
Di fronte allo sviluppo dello scenario odierno appaiono sempre più deboli quelle sedicenti soluzioni che pretendono non solo di contrapporre positivisticamente il lavoro al capitale ma che, nonostante le esperienze, auspicano un ritorno dello Stato sociale e del keynesismo vedendo nello Stato la capacità di imporsi e contrapporsi all’economia come se ne fosse il nemico naturale in un immaginario scontro tra astratta ragione politico-statale e classe capitalista empiricamente definita. Gli Stati, in tutte le proprie specificità geopolitiche, si sono ritrovati «sconvolti dal coronavirus» come «presi tra l’incudine e il martello» senza poter «né sacrificare vite alla luce del sole se non vogliono perdere i loro ultimi brandelli di credibilità, né salvare vite rispettando i tempi dell’epidemia e del suo costo economico, senza precipitare la popolazione mondiale nell’abisso del sovraindebitamento», giocando così le risposte alla crisi sanitaria al di sopra di questa difficile negoziazione e delle esigenze contrastanti che ne derivano. Se invece si parte dagli insegnamenti di Robert Kurz sullo Stato che nella sua genesi e logica di funzionamento può essere definito engelsianamente come “capitalista collettivo ideale”, si riesce a cogliere quanto «la sfera politico-statale e quella economica» siano «prese in un rapporto di reciproca complementarità, ciascuna è insieme risultato e presupposto dell’altro». Crollano così nell’inefficacia e nell’anacronismo anche quelle visioni tradizionali che «hanno commesso l’errore di difendere una visione strumentale della natura dello Stato, considerando quest’ultimo come il semplice strumento della classe capitalista, come oggettivazione del rapporto di classe», cercando di riaffermare la positività dello Stato fermamente convinti della possibilità di poterlo liberare dalla strumentalizzazione della classe borghese. Queste letture decapitate non vedono che «gli Stati si fanno carico delle condizioni generali della riproduzione delle società capitaliste che la logica concorrenziale della sfera dell’economia aziendale non può, per la sua stessa logica, sostenere», così la ragione economica, ovvero «il processo di valorizzazione», e la ragione di Stato, ovvero «le condizioni generali di questo stesso processo» si sviluppano in una relazione dialettica senza derivazioni gerarchiche, anche quando le due sfere entrano in ostilità complementari, per esempio quando lo Stato si impone sull’economia o viceversa. Ebbene, «statalismo o liberalismo, dittatura politica o dittatura del mercato autoregolato», si parla sempre di modo di produzione capitalistico, ed è la logica di quest’ultimo ad essere la guida degli Stati (e così viceversa) di fronte al Covid-19, pur nella particolarità di ogni situazione specifica.
Senza mettere in discussione il “soggetto automatico” si perde di vista non solo il funzionamento del modo di produzione capitalistico, ma anche i suoi collassi derivati, crisi ambientale ed epidemie comprese. Finché vivremo feticisticamente secondo la “valorizzazione del valore” le risposte, in quanto altrettanto feticistiche, non potranno che desiderare esclusivamente quelle categorie storicamente determinate che, estese a ogni ambito della vita quotidiana, sono da noi vissute come naturali e ontologicamente date: più Stato, più lavoro, più merci, più denaro. Ma questa è davvero la risposta? Seppur la logica contraddittoria della “valorizzazione” lo richieda essa deve fare i conti con il doppio limite interno ed esterno del sistema che l’ha generata e da cui esso stesso è stato generato. Un virus lo ha ormai reso del tutto palese. Lo scenario futuro si giocherà dunque su pratiche e lotte che stiano al di fuori del suo collasso, del suo crollo e del suo inevitabile imbarbarimento. In tutto questo la cassetta degli attrezzi della “critica del valore” è preziosa, ma l’esito, come ammettono gli stessi autori tra le pagine di Capitalismo in quarantena, non è del tutto certo, per quanto inevitabilmente necessario.
Afshin Kaveh
L’idea del soggetto automatico è debole. È meccanicistica e anche intrisa dell’illuminismo che si vuole criticare. Fosse così automatico, tale soggetto sarebbe sabotabile con un minimo d’astuzia. Ma il soggetto che muove il capitalismo e tutta la modernità, sebbene prevedibile, è intelligente. Quando incontra ostacoli, tipo la critica di Kurz, la ingloba; seducendo Kurz stesso con alternative. Fa cercare attivamente alternative immanenti all’illuminismo, al quale la critica kurziana appartiene. Così che Kurz stesso, pur criticando efficacemente l’illuminismo, fallisce nel cercare alternative, perchè resta interno al paradigma illuminista. Il filosofo è schiavo delle distorsioni, dei limiti e delle illusioni del linguaggio, se non sa prenderne le distanze, almeno con qualche nozione linguistica.
Si può pensare al soggetto automatico di Marx come intelligenza artificiale ante litteram. Ma l’AI che oggi vediamo non è né libera, né creativa, né consapevole, come quella vivente. Casomai è la manifestazione della creatività di esseri umani viventi. L’intelligenza manifestata dal “soggetto” automatico è invece libera, creativa, consapevole. Il capitalismo è essenzialmente tale intelligenza vivente. Per comprenderlo va abbandonata la fede cieca nell’illuminismo e nel linguaggio. Ripeto: non abbandonare linguaggio e ragione ma usarli in modo più libero, creativo e consapevole.
Grazie “coglione di passaggio” (che brutto nome ti sei scelto :-)) per questo intervento che, per restare nei tuoi termini, non ci sembra per niente da “coglione”. L’autore dell’articolo, Afshin Kaveh, ci ha inviato una risposta, che riproduciamo qui sotto. Prima, solo un paio di note: le tue “punzecchiature” sull’illuminismo kurziano, che in qualche modo resterebbe sullo sfondo nonostante i proclami, coglie un aspetto che effettivamente andrebbe approfondito. La stessa “fede” nella razionalita’ che Kurz e altri del “Krisis Kreis” manifestano spesso nei loro scritti fa pensare che, forse senza neanche accorgersene, un qualche debito verso il pensiero illuminista ce l’abbiano anche loro, magari filtrato dallo sguardo critico di cui sono capaci (che infatti li ha fatti virare verso una ben altrimenti interessante “ragione sensibile”).
La seconda nota riguarda il famoso “soggetto automatico”: definirlo “intelligente e consapevole”, invece, non coglie nel segno, perché questo concetto, elaborato da Marx, vuole proprio indicare, diciamo così, la “dimensione capitalistica”, dimensione che permea ogni cosa e che determina, lo si voglia o meno, il quotidiano di tutti. Una sorta di “metafisica concreta”, all’interno della quale ci sono certo “livelli” differenti, ovvero chi ne trae beneficio e chi soffoca e soffre in un’esistenza indegna (per semplificare), ma che esiste a prescindere da noi e che non possiamo né scansare né abbattere con un semplice atto di volontà, tantomeno riformare o regolare per renderla accettabile secondo i criteri della democrazia e del diritto “borghesi”. Questa “dimensione” conosce solo la regola della “valorizzazione del valore”, per raggiungere la quale tutti i metodi sono validi – e in questo senso la sua “fantasia” e “creatività” sono in effetti sconfinati :-). Soprattutto la sua capacità di recupero è sconfinata, e questo deve renderci ancora più attenti e consapevoli della sua forza e della sua pericolosità, e della difficoltà estrema di superarla (il che significa anche superare la formattazione capitalistica che disgraziatamente determina la nostra esistenza al suo interno, il nostro essere “maschere di carattere”, per riprendere ancora una volta una terminologia marxiana)
Detto questo, grazie ancora per gli importanti stimoli, ed ecco la risposta di Afshin:
“Nel quarto capitolo del ‘Capitale’ Marx scriveva che il valore ha nel denaro il ‘suo modo di esistenza generale’ e nella merce il ‘suo modo di esistenza particolare’. ‘Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico. […] il valore diventa soggetto di un processo nel quale esso, nell’assumere forma di denaro e forma di merce, passando continuamente dall’una all’altra, altera anche la propria grandezza e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore iniziale: valorizza se stesso. Perché il movimento durante il quale esso aggiunge plusvalore è il movimento suo proprio, il suo valorizzarsi, quindi la sua autovalorizzazione. Per il fatto d’esser valore, ha ricevuto la proprietà occulta di partorir valore. Scarica figli vivi o, per lo meno, depone uova d’oro’. Capire la logica di funzionamento del modo di produzione capitalistico come di un ‘soggetto automatico’ che si autoalimenta come fine in sé nell’inversione delle attività e dei bisogni concreti nell’astrazione quantitativa della forma-merce e forma-denaro, non è affatto meccanicistico, anzi, disvela dialetticamente le contraddizioni insanabili (sia interne che esterne) e l’irrazionalità (qui la differenza tra un Marx e un Weber!) d’un modo di produzione che si svolge impersonalmente, alle proprie spalle, non certo creativamente, né consapevolmente (pur non negando determinate e gravi responsabilità empiriche) né intelligentemente. Porla in questi termini invece ricorda tutti i problemi della lettura negriana sulla ‘moltitudine’, la sua ‘auto-valorizzazione’, la sua ontologica ‘forza-lavoro’, il ‘lavoro astratto’ come ‘soggetto rivoluzionario’ e il progresso tecnologico dato benevolmente dall’antagonismo delle lotte di classe. Quelle horreur! Spiace che da questi suoi presupposti iniziali, ahimè, sfugge come un linguaggio distorto, limitato e illusorio possa essere ribaltato in uno libero, creativo e consapevole. Mi viene in mente il Debord della tesi 204 de ‘La società dello spettacolo’: ‘La teoria critica deve comunicarsi nel suo proprio linguaggio. E’ il linguaggio della contraddizione, che deve essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto. Esso è critica della totalità e critica storica. Non è un “grado zero della scrittura”, ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione’. Il linguaggio critico e la critica del linguaggio si risolve dunque nella dialettica, ma se si parte da assunti postmoderni è un duro colpo da digerire”.
Il coglione di cui sopra ha in mente un soggetto che agisce. Voi parlate di un automatismo, nominalizzato come soggetto da Marx, che si riferisce ad un’inversione: un soggetto negato che crea un automatismo autolesivo, che fa uova d’oro. Da allievo di Hegel, Marx fa una geniale critica ma rimane sedotto dalla potenza del metodo hegeliano: elevare il predicato a soggetto assoluto, dimenticando o negando d’essere il soggetto che fa tale magia nera. Il soggetto automatico è la nominalizzazione (reificazione) di un’azione umana che diventa un assoluto, cioè un feticcio della critica dialettica del capitalismo. Insisto a concepire il soggetto automatico come un feticcio filosofico tipico del metodo hegeliano. Il quale crolla di fronte alle alternative creative generate dal supposto automatismo capitalista. Che mero automatismo evidentemente non può essere. Per generare alternative serve quella creatività e quella consapevolezza che solo i viventi hanno. Il capitalismo è agito da soggetti necessariamente viventi. Non necessariamente solo quelli in cima alla piramide. Tutti i componenti della piramide, dalla cima alla base, sono i soggetti attivi, che condividono il feticismo per le loro categorie astratte. Quando Marx o Kurz credono nel soggetto automatico, soffrono dello stesso feticismo che sostiene la piramide capitalista. Il soggetto automatico è un feticcio marxista. È un deus ex machina come gli altri, in mancanza di altre spiegazioni. Che il filosofo, vincolato dal materialismo, non riesce neanche a concepire.
Abbandonando il pensiero binario del paradigma newtoniano / hegeliano e abbracciando quello quantico, si trovano soluzioni creative. Al passo con il progresso della conoscenza scientifica. La scienza quantistica concepisce una consapevolezza e una creatività libera che non scaturisce dalla materia. Al contrario: la materia è una delle forme possibili di esistenza, assieme all’energia e all’informazione, che pervade il mondo. La consapevolezza libera e creativa precede la materia. La soggettività consapevole e liberamente creativa è immanente in tutta la cosiddetta materia. L’elettrone non esiste come entità materiale. È una potenzialità di materia energia e informazione, che collassa in determinate circostanze, diventando o materia o energia o informazione. C’è più mente soggettiva in un elettrone o in una molecola di glucosio che nel feticcio marxista di cui sopra. Accettare che possa esistere una mente liberamente creativa senza materia è dura per il nostro pensiero lineare. Così come è dura per molti fisici (Einstein compreso). Però risolverebbe la secolare questione del soggetto automatico, che è puro feticismo. Negri fa lo stesso.
Ciao “coglione” :-). Penso che tu faccia un po’ di confusione. Parlare di “soggetto automatico” non significa rendere tutto “oggettivo”, ma riconoscere uno stato di fatto che domina, in tutti i sensi, il mondo e con, o meglio contro il quale è necessario fare i conti. Questo “stato di fatto” penetra ogni poro dell’esistente, lo si voglia o no, e prenderne atto significa aprire la possibilità di contrapporvisi coscientemente. Il rischio, altrimenti, è quello invece di “soggettivizzare” le responsabilità, e credere che la sofferenza del mondo dipenda da un pugno di spietati individui (o gruppi) che agiscono per tenere il resto del mondo nelle condizioni spesso terribili e sub-umane che sappiamo, allo scopo di trarre profitto (o, meglio, plusvalore) dal lavoro estorto a queste masse impoverite e schiavizzate. Non che questo non sia (anche) vero, ma l’errore grossolano è pensare che eliminati questi cattivoni (il famoso 1% che brutalizzerebbe il 99%), tutto vada a posto, magari un po’ alla volta, e sarebbe intrapresa la strada della giustizia e dell’equa distribuzione mondiali. Purtroppo la cosa non è così semplice, magari lo fosse. La storia dovrebbe insegnarci qualcosa, in questo senso, e i ripetuti e tragici fallimenti non sono stati un caso, dovuto magari alla mancanza di volontà dei promotori di quella o quell’altra rivoluzione, o alla perfida opera del nemico al confine. Comprendere a fondo il concetto di “soggetto automatico” aiuta ad evitare di infilarsi in qualche altro cul de sac, e invita a prendere sul serio la difficoltà che si incontra nel volersi liberare del dominio capitalista.
Tu dici “Il capitalismo è agito da soggetti necessariamente viventi”. Forse sarebbe più corretto rovesciare la frase e, nell’ottica appunto del “soggetto automatico”, dire “I soggetti viventi sono necessariamente agiti dal capitalismo”. Questo non è un destino immutabile ed eterno, ma è un fatto di cui prendere nota e soprattutto da prendere sul serio. Dici anche ” per generare alternative serve quella creatività e quella consapevolezza che solo i viventi hanno”, e qui possiamo sicuramente concordare, ma questo significa per l’appunto uscire dal dominio del “soggetto automatico” e trovare una strada verso la liberazione. Ma questa strada non apparirà mai se non ci contrapponiamo consapevolmente al, di nuovo, “soggetto automatico” capitalistico. E per farlo non basta ribellarci e/o “distruggere” questo o quell’altro “responsabile”, o ritenuto tale. Occorre un salto di qualità, che prevede anche una visione più chiara e che vada più a fondo, possibile, a nostro avviso, solo se si prende atto del fatto che viviamo all’interno di una specie di micidiale automatismo (che si può anche descrivere più nel dettaglio) che determina le nostre esistenze e che è quello che deve essere veramente attaccato. Questo comporta “lotte” anomale, come quella contro il lavoro, il che potrebbe portarci ad un “fronteggiamento” proprio contro coloro, gli operai, che una volta erano ritenuti essere il “soggetto rivoluzionario” per eccellenza, giusto per fare un esempio.
Per citare Kurz, questo “processo autoreferenziale” definito da Marx “soggetto automatico”, è “Il vuoto totale…della modernità che si valorizza” (da “Weltordnungskrieg”, in italiano “Guerra dell’ordine mondiale”, non ancora apparso nella nostra lingua).
E, visto che oramai ho scomodato Kurz, finisco con questa lunga citazione da “Weltkapital”, cioè “Capitale mondo” (questa volta per fortuna pubblicato anche da noi :-)), dove lui riassume in termini sicuramente migliori di quanto riesca io, tutta quanta la problematica di questo benedetto “soggetto-non soggetto”:
“Karl Marx ha compendiato mirabilmente questo carattere di autonomia dei moderni rapporti sociali feticistici mediante il concetto di ‘soggetto automatico’, in cui il valore/denaro si relaziona con sé stesso. La struttura delle forme sociali con le sue categorie sotterranee o manifeste (‘lavoro astratto’, valore, denaro, merce, dissociazione sessuale e le relative istituzioni del mercato, dello Stato, della nazione, della famiglia moderna) precondiziona aprioristicamente tutte le manifestazioni dei soggetti sociali, plasmando quindi i loro rapporti volontari. È la forma della volontà a essere predeterminata, quale che sia il suo contenuto. È senz’altro vero che gli attori ‘fanno la storia da sé stessi’, come afferma Marx, non ‘liberamente’ però, quanto piuttosto in maniera preformata dal ‘soggetto automatico’ del capitale, cioè del valore che si relaziona con sé stesso, della forma di rappresentazione del ‘lavoro astratto’ e di un rapporto di dissociazione sessuale altrettanto fondamentale e complementare (che sarebbe da integrare in un superamento della teoria di Marx). Certo, il carattere ambiguo e inautentico della ‘libera volontà’ degli attori, in questo sistema feticistico, è stato regolarmente evidenziato, a partire dall’Illuminismo fino alla critica postmoderna del soggetto. Ma nessuno ha mai posto in discussione come tali le categorie feticistiche fondamentali e le istituzioni del moderno sistema della merce, che abbracciano e preformano tutti i soggetti, nel corso dell’intera storia dello sviluppo e della teoria – ad eccezione dell’oscura e incompiuta critica del feticismo di Marx; esse sono state invece ontologizzate e, quindi, affermate come forme sovrastoriche della socialità. Pertanto la ‘critica del soggetto’ non poté che sfociare nell’autosottomissione cieca alle leggi eterne del sistema sociale, preconizzate dall’Illuminismo scozzese nella figura della celebre ‘mano invisibile’ del mercato di Adam Smith.”
un saluto
ps: non abbiamo capito molto bene i riferimenti alla “quantistica” e quant’altro, come per esempio quando dici che questa scienza concepirebbe “una consapevolezza e una creatività libera che non scaturisce dalla materia” oppure affermi che “c’è più mente soggettiva in un elettrone o in una molecola di glucosio che nel feticcio marxista di cui sopra”. In tutta onestà, ci sembra che anche in questo caso tu faccia un po’ di confusione, ma qui ci arrendiamo, e lasciamo la parola a chi ne sa più di noi, e ha voglia di aggiungere qualcosa 🙂
Ho letto tutto ciò che è stato pubblicato in italiano di Kurz, compreso capitale mondo.
“Marx ha indicato il carattere autonomo dei moderni rapporti sociali con il concetto di soggetto automatico, in cui il valore/denaro si relaziona con sé stesso”.
Questo è feticismo. Non vedo la differenza tra il credere nel Valore che si relaziona con sé stesso e il credere nel Valore come feticcio, come fan tutti. Il soggetto, interiormente è irriducibile a qualunque causalità cognitiva esterna (dice la teoria quantistica). Il suo sistema cognitivo, strutturatosi linguisticamente nel modo feticista più evoluto e moderno, ne condiziona la volontà. Fin qui ci siamo. Ma intanto tale sistema è sociale ma anche interiore a ciascun soggetto. Inoltre il soggetto è irriducibile al suo sistema cognitivo. Può esserci il soggetto automatico più pervasivo e potente che vuoi; metti pure che si parli di intelligenza artificiale (concetto più accettabile per me), il soggetto, nel suo mondo interno è irriducibilmente libero, autonomo e creativo (crf F. Faggin, cit).
“La struttura delle forme sociali (…) condiziona tutte le manifestazioni dei soggetti sociali, plasmando i loro rapporti volontari.”
Sostituendo “struttura economico politica delle forme sociali” con “Dio ha creato il mondo” abbiamo lo stesso enunciato feticista. Cambia il nome del feticcio che condiziona, plasma, determina la volontà dei singoli soggetti. Eccoci nella disputa teologica o teopolitca su libero arbitrio o predestinazione. La teologia è meno determinista!
“La forma del volere è predeterminata, quale che sia il suo contenuto.”
-Voler libersi dal soggetto automatico – sarebbe un volere condizionato dal soggetto automatico, dunque?
“Gli attori fanno la storia da sé stessi, non liberi, in quanto preformati dal soggetto automatico del capitale, cioè dal valore che si relaziona con sé stesso, dalla forma lavoro astratto e dal rapporto sessuale dissociato.”
Vabbè, ma ci si può almeno dissociare e riprendersi autonomia, libertà, creatività?
“Il carattere inautentico della libera volontà degli attori è stato evidenziato dall’Illuminismo fino alla critica postmoderna del soggetto. Nessuno ha mai detto che le categorie feticiste fondamentali e le istituzioni del moderno sistema della merce, che abbracciano e preformano tutti i soggetti, siano state ontologizzate e affermate come forme sovrastoriche della socialità”.
Da chi se non da ogni soggetto condizionato dall’educazione che ha ricevuto, ma da cui può liberarsi, se lo vuole?.
“Pertanto la critica post moderna del soggetto finì nell’autosottomissione cieca alle leggi eterne del sistema sociale, preconizzate dall’Illuminismo scozzese nella figura della celebre ‘mano invisibile’ del mercato di Adam Smith.”
Il soggetto automatico, a differenza della eterna mano invisibile, può essere fatto fuori, disattivato, neutralizzato? Fosse così bisognerebbe sottolinearlo e chiarire come farlo!
L’oppressione c’è, non ci piove. Ma se ciò che opprime è pensato come soggetto astratto, chi la soffre sparisce in quanto soggetto autonomo, libero, creativo. Non è più soggetto che fa la sua storia, ma un figurante del soggetto astratto. Temo che Smith e Marx siano stati precondizionati dalla stessa forma sociale. Mano invisibile o soggetto automatico sono reificazioni separate da un secolo, ma precondizionate dalla stessa forma interiore del cosiddetto soggetto automatico.
Dice che “Parlare di soggetto automatico pervasivo non significa oggettivare tutto”?
Per logica grammaticale sarebbe così. Per me, combattere un soggetto astratto è comunque feticista. Perciò dissento dal “rischio di soggettivizzare le responsabilità e credere che l’oppressione dipenda da pochi soggetti che tengono il mondo nelle condizioni sub-umane che sappiamo”. Come se la prima parte del sintagma implicasse la seconda. Responsabilizzare il soggetto è realistico. Credere che l’oppressione nella piramide capitalista vada attribuita agli apicali è ingenuo. La responsabilità è sempre soggettiva. Attribuire l’agentività ad un soggetto astratto è feticista. Non ho bisogno di tale sega mentale, per la mia battaglia. Per me il campo di battaglia è interiore, prima che sociale, e riguarda tutti. Perciò rifiuto l’idea ottocentesca di soggetto automatico. Dopo un secolo e mezzo è ora di cambiarla, senza rimpianti. Se non l’ha fatto Kurz, facciamolo noi. Il soggetto diventi almeno plurale. L’automatismo, incompatibile col libero arbitrio, e con la teoria quantistica, va cestinato. Mano invisibile e soggetto automatico, sono postulati equivalenti, feticisti, e non certo di sinistra. Questo punto è cruciale. Quanto al paradigma quantistico, che esclude gli automatismi newtoniani, consiglio di leggere Irriducibile di Federico Faggin, Mondadori.
Per venirci incontro propongo di sostituire soggetto automatico con un “noi tutti, capitalisti dentro”. Dice che forse sarebbe più corretto rovesciare la frase e dire “soggetti viventi necessariamente agiti dal capitalismo”. Va un po’ meglio. Ma resta il feticcio che agisce sui soggetti reificandoli, senza la loro partecipazione e responsabilità. Delle due una: o agiscono e allora sono responsabili o sono agiti, e allora sono cose. Dire che i soggetti siano agiti da un soggetto astratto conferma il mondo a gambe all’aria. Tuttavia questo sforzo per un finto ribaltamento ci avvicinerebbe. Purtroppo non è solo la questione dell’agentività ad allontanarci. Divergo anche sul fronteggiamento conflittuale. Riconosco che siamo costretti a competere e combattere. Devo anche riconoscere che nel farlo si accetta e si rinforza il sistema. Kurz mi ha aperto gli occhi sul punto, grazie a Maggini. È ironico che il maestro resti cieco su ciò che dice. Ma è in buona compagnia: riguarda anche Marx e Kurz!
Il peggior nemico degli oppressi sono loro stessi, se decidono di competere per possedere il Valore. Lotta di classe è lotta perdente contro sé stessi, che conferma e sostiene la piramide del sistema. Ogni lotta immanente ad un sistema, che crea un mare di perdenti, crea un mare di perdenti, che si scervellano a chiedersi “dove abbiamo sbagliato”?! il problema sta nel manico di ciò che si adopera. Dice che io sarei confuso e contraddittorio? Non lo escludo ma lei mi conosce tramite il linguaggio. Peccato che il linguaggio stesso lo sia! È un modo per comunicare, interiore e sociale, ambiguo, fantasioso. Non si critica l’aufklarung senza restare tenacemente consapevoli delle distorsioni linguistiche sulle quali si basa. Un filosofo non può ignorare la grammatica trasformazionale. Gli scritti di Kurz sono zeppi di nominalizzazioni (reificazioni). E con tali distorsioni inconsulte in testa, pretende di criticare le aberrazioni dell’illuminismo!? Funziona per decostruire. Quando si cerca di costruire l’alternativa, restando nelle forme linguistiche illuministe, cioè capitaliste, si torna su ciò che si ha distrutto. Wittgenstein si è già scornato su questo ossimoro, per ricaderci ancora.
Noi umani siamo più intelligenti del linguaggio, se ricordiamo che è solo un dito che indica la luna. Il problema è che finiamo per credere alle forme linguistiche del capitalismo, mentre lo critichiamo! La critica funziona per distruggere, non per costruire. Proprio come il capitalismo illuminista può solo distruggere, anche se passa per una fase “creativa”. La critica razionale non può funzionare in fase costruttiva perché è incompleta, come dice Kurz. Per distruggere l’illuminismo bisogna dominare e distruggere il linguaggio stesso o meglio il rapporto feticista che coviamo nei suoi confronti. La critica portata fino in fondo deve distruggere anche la fede cieca nello strumento linguistico, per quanto il suo uso possa denurade alcune sue aberrazioni. Kurz frana come Marx, se non sappiamo criticarli. Paradossalmente Kurz e Marx vivono solo se abbiamo il coraggio di criticarli fino in fondo. Gentilmente ma spietatamente; con intelligenza e infinita pazienza. Devo far notare come critico me stesso, senza rinunciare al linguaggio e alla ragione? Ogni volta che mi pare di trattare qualcuno da coglione, mi dico che il coglione potrei essere io.
F. S. Fitzgerald, diceva che l’intelligenza è la “capacità di tenere insieme due idee opposte in mente e conservare la capacità di funzionare”. Descrivere l’elettrone come materia, energia o informazione è una contraddizione confusionaria che si risolve nel concetto di campo di possibilità. Le parole sono campi di significato possibili, non verità. Quando incontro un feticcio, lo riconosco subito. Per questo ho bisogno di ricordare a me stesso ciò che sono. Per non credere di avere la verità in tasca. Tutti siamo coglioni a credere negli altarini linguistici. Tenerlo a mente aiuta a smontare la piramide interiore, la quale collima con la piramide reale, sociale, che intendiamo distruggere.
Buondi’ CdP (riprendo la nomenclatura di W.Smith, che vedo ha già commentato il tuo ultimo commento :-)). Adesso vorrei farlo brevemente anch’io, riprendendo alcuni tuoi spunti.
Tu dici che indicare, come fa Marx, “il carattere autonomo dei moderni rapporti sociali” in cui “il valore/denaro si relaziona con sé stesso” è feticismo. E perché mai? Constatare che la legge del valore domina in ogni ambito dell’esistente, lo si voglia o no, significa forse arrendersi a questa legge come fosse un destino insormontabile? Ben al contrario, in Marx come in Kurz significa aprire gli occhi, e mettersi in condizione di rispondere al livello adeguato a questa terribile “sfida”, senza illusioni né infingimenti. Conoscere il nemico è, diciamo così, il presupposto fondamentale per affrontarlo veramente. Questo è proprio il contrario dello stordimento feticista, che rende passivi e, di fatto, collaborativi col sistema.
Dici ancora:
“- Voler liberarsi dal soggetto automatico – sarebbe un volere condizionato dal soggetto automatico”
Ma niente affatto, perché mai? Come e perché arrivi a queste conclusioni? Già arrivare a volersi liberare dal “soggetto automatico” indica senz’altro che è stato fatto un passo oltre il suo (del “soggetto automatico”) volere (fatto, peraltro, di una volontà del tutto particolare, “non cosciente”, diciamo così).
E ancora:
“Vabbè, ma ci si può almeno dissociare e riprendersi autonomia, libertà, creatività?”
È esattamente quello che cerchiamo di cominciare a fare criticando ed “attaccando” il dominio del “soggetto automatico”. Perché questa cosa non ti torna?
Infine, un appunto del tutto interessante:
“Il soggetto automatico, a differenza della eterna mano invisibile, può essere fatto fuori, disattivato, neutralizzato? Fosse così bisognerebbe sottolinearlo e chiarire come farlo!”
Giustissimo. Sarebbe veramente arrivato il momento di provare a mettere a fuoco questo tipo di problematica (considerando, peraltro, che anche la famosa “mano invisibile”, che ha molto a che fare con il “soggetto automatico”, è tutt’altro che eterna ed inattaccabile). Sarebbe davvero arrivato il momento di provare a capire come muoverci per “disattivare” il dominio del “soggetto automatico”. Ma come farlo se neanche prendiamo atto che esiste questo “soggetto”, se non lo comprendiamo e magari pure lo “rifiutiamo” in nome di soggettività queste sì del tutto astratte (“maschere di carattere”, direbbe qualcuno) che magari vorrebbero esserne, illusoriamente, già fuori, senza tematizzarlo e combatterlo coscientemente?
Il ruolo di soggetti “autonomi, liberi e creativi” è qui veramente determinante. Ma in che modo prendono forma questi “soggetti”, dove nascono, come quando perché? Cosa ci garantisce che non vengano recuperati, fagocitati dal sistema in quattro e quattr’otto come è la regola? Un passaggio fondamentale è dunque quello che passa per la consapevolezza di cosa sia il dominio del “soggetto automatico”, ovvero della “dimensione” all’interno del quale ci troviamo e che determina, lo si voglia o meno, il nostro agire, e finanche il nostro pensare. “Smarcarsi” da questa dimensione è, con ogni probabilità, uno dei compiti più difficili che ci possano essere oggi, ma è anche il presupposto essenziale per provare a costruire un “altroquando” che non abbia più niente a che vedere con essa.
In questo senso, il pensiero marx-kurziano che disquisisce sul “soggetto automatico” guarda proprio ad una soggettività liberata e non più alienata (anche e forse soprattutto – almeno inizialmente – nel pensiero) che ad esso si contrapponga.
Il “soggetto automatico” peraltro – se è questo che ti spaventa – è tutt’altro che un pensiero astratto: ben al contrario, è un fenomeno decisamente concreto, che prende la forma dello Stato, del denaro, del mercato, del lavoro, della merce e, in summa, del valore, per menzionare solo le forme prevalenti e macroscopiche. Cosa c’è oltre quelle, dopo di quelle? Questa è la scommessa che ci giochiamo, ma possiamo giocarcela se teniamo saldamente in vista cosa sia ciò che combattiamo, cosa sia ciò che vogliamo superare, e verso dove, a partire da quello e contro di quello, vogliamo andare.
All’opposto, se non si tiene presente questo livello di attenzione e di riflessione (e di prassi che si basi su di esso) finiamo inevitabilmente per “soggettivizzare” le “colpe”, e individuare come responsabili del disastro in corso quello o quell’altro gruppo sociale, quella o quell’altra etnia, e via sviando. Quando tocca agli ebrei, quando agli arabi, quando ai migranti, quando ai popoli e ai paesi del sud, quando ai russi e ai cinesi, agli americani o ai “vagabondi”, agli zingari e ai pensionati, agli “intellettuali” e ai “pirati”- per citare una vecchia canzonetta 🙂 – e chi più ne ha più ne metta. Ma in questo modo, facciamo – lo si voglia o meno – soprattutto un gran favore al sistema, che evita di fatto di venire messo in questione come invece sarebbe il caso.
Certo, una eventuale quanto auspicabile rivolta, che si muova sul terreno della contestazione del “soggetto automatico” si troverebbe a scontrarsi con molti gruppi sociali (non ultimi gran parte degli stessi lavoratori) che traggono comunque dei benefici dallo status quo. Ma questo “scontro” non sarebbe determinato dalla convinzione che, “eliminati” questi, avremmo superato il problema e potremmo finalmente vivere una vita degna, senza cambiare la forma sociale che è all’origine del problema stesso, cioè il sistema del capitale (e qui “sistema” va inteso come un tutto con proprie leggi e strutture, molto articolato e ben radicato, in qualche modo funzionante e assolutamente difficile – ma non impossibile, purché si sappia ciò che si sta facendo – da attaccare nella sua totalità, come pure sarebbe necessario).
Non ti torna ancora, vero? 🙂
Visto che hai pure letto “Capitale Mondo” (a proposito, complimenti sinceri per averlo fatto, sei uno dei 14 o 15 acquirenti di questo notevole quanto sconosciuto libro, :-)), per finire passo qui la parola una volta di più all’amico e compagno Kurz, che su questi argomenti riesce, al solito, ad essere ben più chiaro – nel suo stile, certo – di quanto io riesca, nonostante tutti i miei sforzi. Proprio alla fine del libro, pp.522 e 523, disquisendo su pensiero di Sloterdijk e sulla volontà disperata di “supremazia sessuale” (argomento quanto mai caldo oggidì) dell’uomo “di crisi” – che le cui “fondamenta” crollano all’interno del periodo storico che si caratterizza per la crisi fondamentale del sistema del capitale -, indicando un percorso per un possibile nuovo movimento emancipatorio all’altezza dei tempi, sostiene che esso debba presupporre “una nuova ‘esistenza da combattente’ emancipatrice, l’anelito verso la polemica, verso l’esasperazione, verso il conflitto duro, ovviamente e in egual misura per gli uomini come per le donne, in una lotta di liberazione comune e qualitativamente nuova. Il contenuto di questo movimento di liberazione non potrà che essere la critica categoriale della struttura formale sociale del moderno sistema della merce. E il suo obiettivo storico non sarà più lo Stato dei lavoratori o quello regolatore ma una società globale oltre il ‘lavoro astratto’ e il denaro, oltre il mercato e lo Stato, oltre l’economia e la politica, oltre la relazione di dissociazione sessuale. […]
Questo movimento di liberazione dovrà comunque continuare a lottare per le gratificazioni immanenti al sistema, per il denaro, per i trasferimenti statali e per una difesa da tutte le pretese dell’amministrazione della crisi. Ma diversamente dal vecchio movimento operaio non gli sarà più possibile una transizione senza soluzione di continuità dall’immanenza verso la (presunta) trascendenza, dalla lotta per l’interesse nel contesto della produzione universale di merce e della ‘valorizzazione del valore’ alla direzione e alla regolazione della stessa struttura formale nella forma dello Stato nazionale. […] All’ordine del giorno c’è piuttosto una rottura categoriale, ossia il passaggio dalla lotta per gli interessi vitali generali all’interno delle categorie capitalistiche alla liquidazione di queste stesse categorie. La tensione tra i due elementi dovrà essere mantenuta. Tuttavia l’esito sarà favorevole solo se la difesa dalle sopraffazioni dell’amministrazione della crisi non si intestardisce esclusivamente sulle preoccupazioni immediate ma mira a liquidare la concorrenza universale.
[…] Contro la ‘critica del capitalismo’ assolutamente reazionaria, neo-piccoloborghese e largamente decurtata in senso ‘democratico-nazionale’ sarà perfino necessario prendere le difese degli esponenti del capitale finanziario e speculativo transnazionale, sospinto dalle proprie contraddizioni immanenti, senza badare a scrupoli tattici. Non ci sono più ‘tiranni’ da ghigliottinare come accadde nel corso della transizione dal feticismo degli uomini al feticismo delle cose.”
un caro saluto, e alla prossima
Caro C.d.P, quello che lei, sommariamente, con notevole leggerezza definisce “linguaggio”, è quel sistema segnico verbale/non-verbale, che le consente di avere una coscienza e di immaginarsi di fare tutti i salti quantici che vuole di palo in frasca. Ovunque è presente un segno vi è ideologia. E il linguaggio verbale, per restringere il campo, e’ un fato storico-oggettivo, ovvero collettivo, sociale, dunque materiale, per cui ci si può anche dilettare in qualche robinsonata semantica, cambiando qualche vocale qui e là, regredendo al ruolo magico delle parole, ma il sistema segnico continuerà ad essere la luna che permette al suo dito di aver la funzione d’i indicarla. La coscienza, V. Docet, è fatta della materia dei segni, evidentemente oltre la psicologismo o il determinismo. Senza linguaggio, senza società , lei non avrebbe una coscienza individuale e probabilmente neppure l’illusione di essere un soggetto. Che rimane una possibilità, ovvero un progetto, se vuole un problema e che per può risolversi in un fallimento.
Ogni individuo è fabbricato socialmente e proprio attraverso il sistema segnico ma non per questo si ignora la questione del “senso” e ci si accontenta di farsi parlare dal linguaggio. Ci sono notevoli margini di libertà nel linguaggio che non è dominio esclusivo di una classe. Wittgenstein poi si era scontrato con la povertà di una considerazione puramente logica del linguaggio al di fuori del suo concrescere con un specifica forma di vita, di un contesto, di un frame che genera senso. Il capitale è un processo di astrazione che si dispiega nel tempo. Una metafisica reale ed è per questo, che si può sputare su Hegel quanto si vuole, ma il suo metodo resta adeguato alla comprensione di una società in cui categorie astratte come valore, denaro ne permeano le relazioni sociali. L’illuminismo ci ha lasciati da un pezzo, il razionalismo stenta, la ragione quella strumentale vince su tutto il fronte, fa breccia pure nella sua considerazione funzionalista del linguaggio.
La riconsiderazione fatta da Kurtz della teoria di Marx, per quel poco che la conosco, mi sembra porre con forza il problema della “Totalità” per non perdersi in una vana e agitata marea di considerazioni “neopositiviste” dell’esistente che non portano da nessuna parte. Totalità, una categoria tanto astratta e inafferrabile quanto concreta e gravida di conseguenze reali, che attraverso una più o meno lunga catena di mediazioni, arriva fino a bussare alle nostre porte ed anche alla sua. Il capitalismo è senza misura e divora, per restare nel campo ideologico e alienato del sistema, l’unico capitale che abbiamo a disposizione: il tempo della vita. Lei, caro C.d.P può anche credersi immortale e fare causa al principio di causalità rimane che la sua vita come la mia, e di altri è vita espropriata. La trasformazione capitalista della vita in lavoro e dunque in merce, in valore, in denaro, e la resistenza che ad essa si oppone rappresentano , per me, l’ultima linea sulla quale posizionarsi nella guerra civile mondiale in corso. Per dirla con Debord, lo spettacolo non è altro che la forma assunta dal capitalismo nello stadio in cui l’economia autonomizzata domina tutta la società. Esso è l’economia sviluppantesi per se stessa…
L’astrazione di ogni lavoro particolare e l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo d’essere concreto è per l’appunto l’astrazione.
Lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: l’equivalente generale astratto di tutte le merci.
La generalizzazione del valore della merce comportano il dominio dell’astratto sul concreto, della forma sul contenuto, della quantità sulla qualità specifica, del significante sul significato. Di un significante che non rinvia più ad alcun oggetto, che è ormai totalmente preso in un gioco di geroglifici dietro al quale non si nasconde alcun contenuto. I segni non rimandano che ad altri segni, ad un’enorme accumulazione di capitale segnico fittizio, che allude al sogno capitalista di una produzione infinita di valore libera dai vincoli della valore materia, della natura, fino alla distruzione totale del pianeta.In questo regno dell’equivalenza generale avanza la perdita di senso, la distruzione del linguaggio e allora si fa avanti una schiera di “lavoratori creativi” che si affannano per ornare ed abbellire il vuoto…
Saluti Prolet