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Il nómos della modernità (seconda parte)

Pubblichiamo la seconda parte del capitolo IX del libro Weltordnungskrieg1 di Robert Kurz, inedito in Italia, nella traduzione di Samuele Cerea (qui la prima ==> il nómos della modernità)


La fine del diritto, lo stato di eccezione globale e il nuovo «homo sacer»

Parte seconda:

A questo punto è necessario sottoporre questo meccanismo, la sua logica e la sua origine storica ad un’analisi più dettagliata. Il concetto fondamentale a questo riguardo è quello di stato di eccezione. Come si sa che il luciferino Carl Schmitt, uno dei più lucidi ma, allo stesso tempo, più inquietanti teorici dell’«ideologia tedesca» nel XX secolo, ha tormentato per lungo tempo i predicatori della libertà democratica, collocando lo stato di eccezione, su cui ritornò insistentemente, al centro del dibattito sul diritto costituzionale. In un saggio dal titolo significativo, «Teologia politica», si trova la celebre (o famigerata) definizione di tutta la sovranità moderna, e quindi anche della democrazia: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite. Infatti concetto limite non significa un concetto confuso, come nella terminologia spuria della letteratura popolare, bensí un concetto relativo alla sfera piú esterna. A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma a un caso limite» (Schmitt 1922).

Schmitt individua qui due punti decisivi, utilizzabili nella polemica contro l’autocomprensione positivistica dello Stato di diritto liberale, il cui apostolo in quel periodo era il filosofo del diritto socialdemocratico Hans Kelsen, cui fanno riferimento significativamente, al presente, posizioni come quella di Hardt e Negri e che, in generale, ha fatto breccia nel senso comune di tutte le illusioni giuridiche. Da una parte Schmitt solleva un problema antico di tutta la teoria giuridica e costituzionale, quello della costituzione: la cornice fondamentale dell’assetto giuridico non può nascere, a sua volta, dal positivismo giuridico, ma solo in virtù di una «decisione» che non si fonda sulla verità e sull’oggettività bensì sulla volontà, sull’autorità e, in ultima analisi. sulla forza: «Auctoritas, non veritas facit legem» (Schmitt, op. cit.).

Dall’altra il problema del fondamento costituzionale e di tutti i principi giuridici resta sempre latente ma può tornare nuovamente manifesto proprio nella figura dello stato di eccezione. A giudizio di Schmitt, lo stato di eccezione rappresenta la verità autentica di ogni costituzione e di ogni diritto. Come afferma il suo concetto, esso è la soppressione della costituzione sul terreno della costituzione stessa, cioè l’epifania del reale fondamento autoritario che consiste nel puro potere decisionale e che viene ignorato dalle dottrine dello stato di diritto liberale. In quest’ottica la teoria di Schmitt potè dimostrare la sua efficacia storica in termini pratici nella misura in cui un suo saggio, «La dittatura» (1921), fornì l’interpretazione determinante dell’articolo 48 della Costituzione di Weimar e, con essa, una cornice interpretativa giuridica per la conquista del potere da parte di Hitler.

Come è noto i nazisti giunsero al potere in seguito ad elezioni democratiche, in maniera assolutamente legale, sulla base di una catena decisionale pienamente conforme al diritto positivo. Non c’è dubbio: anche i nazisti, come del resto anche altri partiti, avevano esecitato la violenza di strada nel corso della crisi economica globale mediante organizzazioni paramilitari come le SA. Ma non ci fu nessun colpo di Stato: essi non sciolsero il Parlamento con la forza delle armi ma «assunsero il potere» secondo i crismi del positivismo giuridico (e con i voti dei deputati cristiani e liberali!).Tutte le misure successive poterono essere realizzate dentro l’involucro del diritto positivo.

Questa circostanza oggettiva ha suscitato il disgusto degli apologeti della democrazia e del diritto positivo, che hanno fatto di tutto per negarla fin dal principio. In questo senso l’opera classica è «Il doppio stato» (Fraenkel 1940).1 Il suo argomento è, da un lato, la costituzione del regime nazista, dall’altro la prassi giuridica del nazionalsocialismo.

Per quanto riguarda il primo punto Fraenkel dichiara risolutamente che la legalità formale della presa del potere da parte dei nazisti sarebbe solo una «leggenda», perchè in realtà si sarebbe trattato di un vero e proprio «colpo di Stato». Ma in questo caso il concetto di «colpo di Stato» deve essere svuotato di tutti i suoi attributi caratteristici (carattere violento della procedura, rottura con l’ordine formale etc.), se lo si intende «salvare» per l’apologetica democratica. Sostanzialmente l’argomentazione di Fraenkel fa leva sull’orizzonte temporale dello stato di eccezione, la cui introduzione viene però ritenuta formalmente corretta, ai sensi della Costituzione di Weimar: «Non appena i nazisti si trovarono investiti di tutti i poteri inerenti allo stato di eccezione civile, vennero a disporre dei mezzi per trasformare la dittatura costituzionalmente temporanea (mirante a ripristinare l’ordine pubblico disturbato) in una dittatura anticostituzionalmente duratura (mirante a edificare lo Stato nazionalsocialista con poteri illimitati di sovranità)» (Fraenkel, op. cit.).

Questo argomento è fragile. In realtà non è facile definire con esattezza la differenza tra ciò che è «temporaneo» e ciò che è «duraturo»; è un problema di discrezionalità che per giunta, sul piano formale, non è neppure inerente al concetto di stato di eccezione. Il vero problema è proprio l’esistenza formale dello stato di eccezione nel contesto del sistema giuridico, cioè la possibilità stessa di una «dittatura interna alla cornice costituzionale» – una questione che Fraenkel elude pudicamente.

In termini più concreti si tratta evidentemente, in ultima istanza, della questione sul significato dell’«ordine pubblico» e del suo «disturbo», su quali decisioni possano essere prese in tal senso etc. Il problema dello stato di eccezione viene completamente ignorato da Fraenkel, sia sul piano formale che su quello sostanziale nella stessa misura in cui Schmitt, al contrario, lo fa risaltare impietosamente. La riflessione democratica resta sempre secondaria, in quanto il presupposto costitutivo viene eclissato.

Anche l’argomento che Fraenkel adduce a riguardo della prassi giuridica del regime nazista, una volta che esso si fu instaurato, non è certo migliore. Secondo Fraenkel lo Stato nazionalsocialista fu un «doppio Stato», incline a rispettare il diritto positivo come uno «Stato normativo» nella sfera dei rapporti civili, mentre nel «settore politico» regnava l’arbitrio puro e semplice di uno «Stato discrezionale» anomico. Nel contesto di questo «Stato discrezionale» «[…] all’interno di questo settore, il potere statale non viene esercitato secondo i criteri del diritto con l’obiettivo dell’attuazione della giustizia» (Fraenkel, op. cit.).

Si tratta di un ragionamento a dir poco ingenuo e per giunta erroneo. Cominciamo col dire che la norma giuridica non è mai assoluta perché in ogni singolo caso è sempre possibile un certo spazio di manovra (un «margine di discrezionalità»). Lungi dall’essere antitetici lo «Stato normativo» e lo «Stato discrezionale» sono piuttosto due facce della stessa medaglia. Detto altrimenti, un elemento di «arbitrarietà» sussiste anche all’interno della norma giuridica e del resto già nel carattere escludente del diritto stesso. Questa circostanza logica rimanda semplicemente al carattere autoritario del diritto nel suo complesso, ossia al carattere feticistico della forma sociale soggiacente, che esige la sottomissione a una forma di relazione irrazionale e che quindi è già di per sé una relazione compulsiva.

Secondariamente, Fraenkel non è autorizzato a introdurre un criterio quasi contenutistico mediante il concetto morale di «giustizia», della cui definizione e derivazione egli sarebbe costretto a rendere conto. Nella sua essenza il diritto è puramente formale. Questo Fraenkel lo avrebbe dovuto apprendere dal maestro supremo Kant, che, come è noto, rifiutava qualsiasi contaminazione di contenuto della sua «forma pura a priori» e che trasformò questo vuoto sostanziale perfino nel fondamento di tutta l’etica e di tutto il diritto moderno. Proprio per questa ragione la «forma» vuota può essere riempita con qualsivoglia contenuto. Non esiste nessun criterio formale in grado di impedire che anche il razzismo e l’antisemitismo acquistino forza di legge. In altre parole: persino lo sterminio di massa potrebbe essere eseguito in ossequio al positivismo giuridico. Non è affatto vero che in quest’ambito abbia dominato il mero arbitrio soggettivo (se non nel senso logico dello spazio di discrezionalità). Invece l’aspetto davvero inquietante della macchina di morte nazista consiste proprio nel fatto che essa potè procedere nel pieno rispetto delle norme, anche in senso strettamente giuridico. Anche per questo motivo la contrapposizione tra «Stato normativo» e «Stato discrezionale» è falsa. I perseguitati del nazismo potevano contare su una certezza negativa del diritto. Il nazionalsocialismo non fu l’opposto della legge ma fece affiorare il fondamento anomico del diritto, il suo presupposto tacito.

In un certo senso Schmitt ha puntato il dito contro il tallone d’Achille della dottrina liberale dello stato di diritto, che continua tuttora ad eludere l’elemento dello stato di eccezione, intrinseco a tutte le costituzioni democratiche, così come tutti i problemi logici e giuridici ad esso oggettivamente collegati. In sintesi: il vero nocciolo della democrazia moderna è la dittatura e la vera essenza della cittadinanza dello Stato moderno consiste, in ultima istanza, in un rapporto di potere. Il guaio è che Schmitt sottolinea certo questa sgradevole verità, ma non allo scopo di formulare una critica emancipatoria della cittadinanza giuridica e della sua forma sociale (capitalistica); al contrario egli si assoggetta alla decisione autoritaria, al puro e semplice potere decisionale come fondamento ultimo di tutta la sovranità moderna, anche e soprattutto di quella democratica. Il teorico dello stato di eccezione è, simultaneamente, il cantore dello stato di eccezione e il rappresentante intellettuale del potere autoritario come posizione ontologica.

Per Schmitt lo stato di eccezione e, con esso, il nucleo di violenza autoritaria della democrazia, rappresenta l’autentica esistenza positiva della società come comunità di lotta esistenziale della nazione mistificata nella contesa cruenta tra le nazioni. Egli avversa la democrazia liberale e lo stato di diritto come una specie di stadio di debolezza della comunità di destino nazionale, in grado di oscurare la dimensione esistenziale del politico.

Una critica radicale emancipatoria dovrebbe comportarsi in maniera diametralmente opposta, ossia rompere una volta per tutte con la democrazia liberale e la dottrina dello stato di diritto, perché in queste forme si è coagulato un rapporto sociale di potere autoritario, che diviene manifesto nello stato di eccezione. È una critica incoerente nei confronti di Schmitt, quella che si limita a difendere il modello ideologico della democrazia liberale con il suo positivismo giuridico, cioè a contrapporre lo stato di aggregazione coagulato contro quello fluido, il rapporto di forza latente contro quello manifesto, senza riconoscere l’essenza comune a questi due fenomeni, la sostanza della sovranità e la sottomissione alla logica della valorizzazione, e quindi la democrazia insieme con il suo stato di eccezione.

Questa possibilità critica, (finora) impossibile, almeno in apparenza, viene raccomandata proprio dal processo postmoderno di decomposizione della sovranità e dall’obsolescenza della determinazione delle sue finalità sociali. Nella crisi globale della terza rivoluzione industriale e della globalizzazione transnazionale del capitale non è più possibile optare per il «male minore» né per un «patriottismo costituzionale» conforme al positivismo giuridico come antidoto presunto all’autoritarismo e alla violenza della barbarie, una volta che si sgretola il fondamento economico della costituzione e dello Stato di diritto, ossia la coesione tra «società del lavoro» e sovranità. Nella stessa misura in cui la desostanzializzazione del soggetto del lavoro e del denaro si accompagna alla desostanzializzazione del soggetto del diritto e dello Stato, anche il positivismo giuridico e costituzionale assume i tratti dell’autoritarismo e della violenza barbarica; la democrazia diviene il suo stesso stato di eccezione, gettando così la maschera una volta per tutte.

Si tratta di una differenza qualitativa rispetto al passato dell’imposizione e dell’ascesa storica del capitalismo. Ai tempi di Carl Schmitt era ancora possibile distinguere chiaramente lo stato di eccezione, che inoltre si riferiva solo allo spazio della sovranità nazionale, dallo Stato di diritto «normale» e dalla democrazia liberale. Contemporaneamente furono i gravi sconvolgimenti sociali causati dalle due guerre e dalla crisi economica mondiale a rendere manifesto, con una durezza inusitata, lo stato di eccezione. Ogni volta che i movimenti sociali e intellettuali contro la guerra e le brutali restrizioni capitalistiche nella crisi minacciarono di superare una certa massa critica e di infrangere la pseudo-legge naturale del bando di tutte le risorse nel principio irrazionale della valorizzazione, gli apparati democratici si nascosero dietro la maschera brutale dello stato di eccezione. In Germania la repubblica di Weimar, che fu un prodotto dello stato di eccezione, ebbe il suo battesimo di sangue e la sua morte, dopo la presa del potere da parte dei nazisti, avvenne ancora secondo i criteri dello stato di eccezione e in un orgia sanguinaria.

Il costrutto della «sovranità popolare» si rivelò in pratica come fondamentalmente menzognero e come il travestimento ideologico di un principio di realtà profondamente repressivo, in cui il cittadino politico costituisce solo una molecola di sovranità, sottomessa ai suoi imperativi, che si arrende e, di conseguenza, capitola incondizionatamente sul piano socio-economico all’irrazionale fine-in-sé capitalistico.

Quando la crisi aggrava intollerabilmente la situazione e il carattere auto-repressivo della cittadinanza democratica sovrana naufraga sugli scogli dell’esclusione sociale e dell’umiliazione degli individui stessi, si impone lo stato di eccezione e la cittadinanza politica viene in gran parte «sospesa»; la sovranità si svincola dai suoi presunti portatori molecolari e si rivela per ciò che effettivamente essa è, il potere autonomizzato della forma feticistica. Nel momento in cui il cittadino «sovrano» viene espulso sul piano economico, viene anche calpestato dagli apparati amministrativi e polizieschi di quella sovranità di cui esso stesso è un elemento, non importa fino a che punto sia consapevole di questo nesso.

Fino a quando l’ascesa, l’espansione e lo sviluppo storico del capitalismo non si furono esauriti, il problema dello stato di eccezione potè affiorare solo in occasione delle grandi avanzate delle «crisi da imposizione», apparendo quindi come una specie di principio antagonista rispetto alle repubbliche borghesi del XIX e del XX secolo. La differenza superficialmente visibile tra «normalità» (cioè, a seconda della fase di sviluppo, monarchia costituzionale, repubblica corporativa o democrazia di massa) da una parte e «stato di eccezione» (dittatura) dall’altra, generò l’idea illusoria secondo cui questi rappresentassero due nomoi assolutamente differenti, di due principi di realtà politici antagonisti.

Questa visione venne ulteriormente consolidata per il fatto che i due differenti «stati» sociali rano incarnati da correnti politiche e posizioni teoriche irriducibilmente ostili. Fu solo alla socialdemocrazia tedesca che venne riservato il ruolo di impersonare sia il ruolo del «cane da combattimento», sia quello dell’agnello pasquale democratico. L’illusione giuridica del movimento operaio consisteva proprio nell’idea di una possibile trasformazione delle categorie socio-economiche capitalistiche fondamentali, ontologizzate e insuperate, in un «socialismo» basato sulla cittadinanza politica e sul sistema della merce, in virtù della forma giuridica.

Questa duplice illusione, la volontà di trasformare in apparenza la società basata sulla capitolazione di fronte al feticcio della valorizzazione, senza distruggere questo principio, per giunta sulla base della sua specifica espressione politico-giuridica, in qualcosa di essenzialmente diverso, finì con l’accecare la sinistra democratico-politica in genere. Lungi dal riconoscere lo Stato di diritto come necessaria espressione derivata della repressione sociale insita nel capitalismo, la maschera di carattere politico-giuridica dei soggetti del valore viene contrapposta sistematicamente a quella economica, come se fossero due entità completamente differenti; di conseguenza, anche all’interno della sfera politico-giuridica, la «normalità» democratica dello Stato di diritto viene invocata come nòmos contro lo stato di eccezione della dittatura, come se si trattasse di due sostanze essenzialmente differenti e incompatibili.

La socialdemocrazia tedesca avrebbe potuto scorgere questa identità effettiva, nel momento in cui essa si convertì, durante la Prima guerra mondiale e dopo di essa, nel «cane da combattimento» dello stato di eccezione; invece continuò a coltivare le solite vecchie illusioni giuridiche, come se nulla fosse accaduto.

Questo pseudo-antagonismo oscurò il dato di fatto per cui la sovranità è fatta di un’unica sostanza, che però, a seconda del clima sociale della dinamica capitalistica, può presentarsi in due stati di aggregazione differenti.

Gli apostoli del decisionismo autoritario, come Carl Schmitt, mistificarono lo stato di eccezione a principio autonomo di realtà sociale, contro la democrazia liberale, sebbene esso costituisca il nocciolo e, allo stesso tempo, la posizione-limite estrema della democrazia liberale stessa. Al contrario gli ideologi democratici, liberali e socialisti eclissarono la logica interna dello stato di eccezione, fingendo di inorridirsi di fronte agli esiti prospettati da Schmitt, sebbene sia essi che i loro antenati, in occasione di ogni scoppio della crisi, avessero dato il loro assenso, esplicito o tacito, a un nuovo battesimo di sangue della «normalità» (costituzionale, repubblicana, democratica).

Durante la fase relativamente di lunga di prosperità, successiva alla Seconda guerra mondiale, nei centri occidentali la sovranità venne identificata in tutto e per tutto con la «normalità» liberale e il suo positivismo giuridico; mentre la logica dello stato di eccezione perdeva smalto, le democrazie presero ideologicamente le distanze dalle dittature della prima metà del secolo e si comportarono come se la loro esistenza rispettasse un principio di realtà completamente diverso; si trattò di alla fine una pacificazione sociale su base giuridica, che non celava più nel suo grembo lo stato di eccezione. Il problema logico e giuridico finì nell’oblio.

Ancor più brusca è ora la rottura della democrazia e dei suoi ideologi con il principio positivistico giuridico e costituzionale che la caratterizza. Adesso però questa rottura non si manifesta più nella forma dello stato di eccezione classico ed inoltre non è più contenuta all’interno della sovranità nazionale. Gli Stati Uniti, come ultima superpotenza mondiale, si sono arrogati il diritto di realizzare a proprio arbitrio una corte marziale planetaria, in nome sia dell’«imperialismo complessivo ideale» democratico, sia del proprio specifico interesse nazionale. In assenza di una vera e propria costituzione mondiale, la carta delle Nazioni Unite può essere calpestata senza alcun cambiamento dello stato di aggregazione politico; lo stesso vale anche per gli USA, che possono attuare queste pratiche senza sospendere esplicitamente la propria costituzione.

Lo stesso vale per i processi di de-giuridificazione interna. Gli abusi degli apparati di sicurezza e il congelamento dei cosiddetti diritti civili si muovono nel limbo del positivismo giuridico, senza che lo «stato normale» democratico venga ufficialmente abolito. In nessuno dei centri occidentali è stato dichiarato lo stato di emergenza e congelata la costituzione. Ma questo significa solo che lo stato di eccezione capitalistico sta iniziando a fondersi con lo stato normale democratico. In apparenza non si registra nessun cambiamento: i media non annunciano la proclamazione dello stato di emergenza, non viene dichiarato il coprifuoco, né ci sono mezzi corazzati che si dirigono verso punti strategici nelle città ma, nonostante tutto, gli elementi dello stato di eccezione si propagano.

Gli interventi e gli abusi pervadono il quotidiano e lo Stato di diritto positivo, facendo così emergere il suo presupposto anomico, repressivo. Da un lato gli individui vedono annientata, sotto certi aspetti, la loro vita sociale, in quanto devianti o sospetti; dall’altro, allo stesso tempo, l’opposizione politica continua ad agire indisturbata; individui «irregolari», sgradevoli, «espulsi» dalla società, scompaiono all’interno di prigioni e campi in seguito a procedure in gran parte fuori controllo, mentre i «normali», con un certo orgoglio, si confrontano orgogliosamente in tribunale con le autorità; l’omologazione tacita dei mezzi di comunicazione viene accompagnata da dibattiti accesi nelle pagine culturali; accanto agli interventi chirurgici e brutali della polizia e delle forze speciali, la «normale» istigazione alla concorrenza e al rendimento continua invariabilmente il suo corso; la gente osserva alla televisione le atrocità dei combattenti dell’ordine mondiale negli Stati della periferia, come se stesse assistendo a una partita di calcio.

Il graduale imbarbarimento degli apparati abbandonati a se stessi, la rottura con il diritto su tutti i livelli e la trasformazione della politica in senso mafioso si sovrappongono alla «normalità» democratica. La società si converte in uno strano mosaico, in cui elementi di dittatura e di parlamentarismo, di violenza scatenata e di positivismo giuridico si mescolano l’un l’altro.

La differenza rispetto alle manifestazioni anteriori dello stato di eccezione non è certo dovuta al fatto che la democrazia dello Stato di diritto sia più solida che nel passato, che sia in grado di risolvere le contraddizioni sociali anche senza proclamare ufficialmente lo stato di eccezione. Questa idea riflette più che altro le velleità degli ideologi della democrazia occidentale. Invece la cesura decisiva tra positivismo giuridico e liquidazione del diritto non ha luogo perché in gioco non c’è più una mutazione nello stato di aggregazione della sovranità, quanto piuttosto la distruzione della sovranità stessa.

Quest’ultimo punto identifica la differenza con il regime nazionalsocialista, anche se esso potrebbe essere considerato come il precursore dell’identità immediata tra positivismo giuridico e stato di eccezione. Lo Stato nazionalsocialista fu l’esito di una trasformazione (conforme al positivismo giuridico) iniziata già con lo stato di eccezione negli anni della crisi economica mondiale, che sfociò nello stato di eccezione della Seconda guerra mondiale; per certi versi il regime, negli anni tra il 1933 e il 1939, incarnò l’identità tra «stato normale» e «stato di eccezione», che valeva comunque, in un modo o nell’altro, anche per tutte le altre dittature della modernizzazione del XX secolo (nonostante la singolarità del nazismo che, in nome dell’antisemitismo specifico del loro regime, estremizzò l’irrazionalità della relazione sociale fino alla manifestazione visibile della pulsione di morte, molto oltre i caratteri di una dittatura della modernizzazione).

Tuttavia queste manifestazioni dello «stato di eccezione permanente», accompagnato da un positivismo giuridico deformato, erano ancora tutte interne all’involucro politico della modernità, compreso l’olocausto nazista: l’attore era pur sempre il potere sovrano in quanto tale. Le organizzazioni paramilitari, nate con il collasso dell’Impero e dell’esercito furono rapidamente ricondotte sotto il controllo dello Stato, così come le milizie di partito dell’epoca della grande crisi; perfino i pogrom della «notte dei cristalli» vennero orchestrati dalle autorità amministrative. La barbarie apparve nell’uniforme del potere sovrano, che non stava affatto attraversando la sua fase di dissoluzione storica, così come il modo di produzione capitalistico che ne era il fondamento e che avrebbe potuto contare su di un’ultima spinta secolare dell’accumulazione.

Adesso però la fluidificazione del nucleo violento della statalità moderna assume una forma fondamentalmente diversa, come diversa, di conseguenza, rispetto al periodo tra le due guerre, è la dinamica che caratterizza il rapporto meccanico tra «stato normale» e «stato di eccezione». L’elemento dittatoriale non solo si fonde con la procedura democratica, ma si mescola anche con l’anomia post-politica e post-sovrana.

Per ritrovare una costellazione paragonabile non ci si può arrestare alla prima metà del XX secolo, ma occorre ritornare alla genesi protomoderna del capitalismo; non è un caso che teorici come van Creveld, Münkler ed altri ancora abbiano scelto questo sistema di riferimento. È come se un film fosse riproiettato al contrario: fasi di transizione riappaiono in una forma alterata e alla fine la modernità viene nuovamente inghiottita nelle fauci del caos anomico, da cui era sorta. Si tratta comunque di un’immagine fasulla perché questo frenetico movimento retrogrado avviene su di un livello di sviluppo e di socializzazione superiore di alcuni secoli , con una forza distruttiva molto più spaventosa e non coinvolge più un solo centro focale (l’Europa) e determinate zone di conquista coloniale, ma l’intera umanità planetaria.

Lo stato di eccezione ha sempre gettato una luce rivelatrice sull’essenza dello «stato normale» del positivismo giuridico, sebbene ancora all’interno dell’involucro intatto della sovranità, ma l’attuale intreccio dinamico tra positivismo giuridico democratico, elementi dello stato di eccezione e processi anomici sfocia in una nuova barbarie secondaria, che è in grado di distruggere questo involucro, cosicchè essa non può essere ricondotta nel vecchio «stato normale», né è in grado di costruire un nuovo «stato normale». Le misure statali dello stato di eccezione, o taluni singoli elementi, si mediano con la privatizzazione della violenza, il tribunale planetario permanente dell’ultima potenza mondiale si sviluppa di pari passo con la distruzione completa delle relazioni tra gli Stati.

A questo punto risulta impossibile eludere la questione dell’essenza dello «stato normale» della sovranità, cui si aggrappano tenacemente e in maniera aconcettuale gli ideologi affermativi nel suo stadio supremo democratico. Ad ogni nuova avanzata della crisi globale, ad ogni nuovo intervento poliziesco dell’«imperialismo complessivo ideale», ad ogni nuova violazione del diritto internazionale, ad ogni nuova abdicazione al monopolio della violenza e ad ogni nuovo passo verso la de-giuridificazione interna e l’esclusione giuridica, diviene sempre più difficile fare riferimento ai concetti di democrazia, diritti umani e dottrina dello Stato di diritto, alla maniera di un positivismo ingenuo, senza rinunciare ad ogni potenziale critico e riflessivo.

È ormai maturo il tempo di sottoporre a una critica impietosa il potere sovrano della modernità, che sta a fondamento di tutta la democrazia e di tutto lo Stato di diritto, invece di legittimarlo positivisticamente o semplicemente di presupporlo. Desta poca sorpresa il fatto che il tentativo in tal senso del filosofo italiano Giorgio Agamben abbia suscitato una notevole risonanza internazionale. Prendendo le mosse dal concetto di sovranità e di stato di eccezione di Carl Schmitt, introdotti però con un intento critico, Agamben formula con la sua opera «Homo sacer» (Agamben 1995) un giudizio devastante sul nòmos democratico.

Agamben rivolge la sua attenzione alla struttura paradossale dello stato di eccezione, come sospensione del diritto e della costituzione sul terreno del diritto e della costituzione: «Uno dei paradossi dello stato di eccezione vuole che, in esso, sia impossibile distinguere la trasgressione della legge dalla sua esecuzione, in modo che ciò che è conforme alla norma e ciò che la viola, coincidono, in esso, senza residui (chi passeggia durante il coprifuoco non sta trasgredendo la legge, più di quanto il soldato che, eventualmente, lo uccide la stia eseguendo)» (Agamben, op. cit.).

Secondo Agamben, questo paradosso dello stato di eccezione rimanda al paradosso della sovranità stessa: «Il paradosso della sovranità si enuncia: “il sovrano è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico” […] Il sovrano, avendo il potere legale di sospendere la validità della legge, si pone legalmente fuori legge. Ciò significa che il paradosso si può anche formulare in questo modo: “la legge è fuori di se stessa”, ovvero: “io, il sovrano, che sono fuori legge, dichiaro che non c’è un fuori della legge» (Agamben, op. cit.).

Rilevante qui è il «[…] punto di indifferenza fra violenza e diritto, la soglia in cui la violenza trapassa in diritto e il diritto in violenza» (Agamben, op. cit.), la «coincidenza di violenza e diritto che costituisce la sovranità» (Agamben, op. cit.). L’ideologia democratica della «sovranità popolare», intrisa di positivismo giuridico, secondo cui la sovranità è la sommatoria dei singoli individui sovrani o la «volontà generale» (Rousseau), viene regolarmente smentita dallo stato di eccezione, in cui l’individuo viene necessariamente degradato a mero oggetto del «sovrano al di fuori della legge». Naturalmente la ragione sta nel fatto che la «volontà generale» non è la volontà di una maggioranza empirica, ma la forma generale di volontà posta dalla sovranità e originariamente imposta agli individui, prima di qualsiasi contenuto empirico della volontà.

Si tratta quindi di capire in che modo gli individui siano piombati in questa forma di sovranità che si è autonomizzata nei loro confronti come principio politico-giuridico. Il passo decisivo di Agamben suona così: «Il sovrano non decide il lecito e l’illecito, ma l’implicazione originaria del vivente nella forma del diritto» (Agamben, op. cit.).

Questa «implicazione» è una sottomissione che precede il diritto e che è contenuta nel diritto in forma latente, un bando, per giunta privo di contenuto, che viene inscritto nell’esistenza: «Il bando è una forma della relazione» (Agamben, op. cit.) che «non ha alcun contenuto positivo» (ibidem). Una volta che questo bando è stato decretato, all’interno della sua struttura viene presa la decisione su ciò che è lecito o illecito, in virtù della sostanza del diritto.

Agamben riconduce correttamente questa struttura alla posizione filosofica del supremo illuminista Immanuel Kant, che nella sua etica (la «critica della ragion pratica»), parla proprio della «forma di una legge in generale», da cui dobbiamo separare «ogni materia, ossia ogni oggetto della volontà» (Kant 1788). Ora, questa forma assurda, che fa astrazione da ogni contenuto, è proprio quella «volontà generale», la forma di volontà della sovranità, che esiste in piena autonomia e precede ogni contenuto della volontà; quest’ultimo, a sua volta, può solo essere secondario e indifferente nei confronti di questa forma. Questa forma spettrale priva di contenuto, la «vigenza senza significato» (Agamben, op. cit.) come «principio vuoto», corrisponde al bando assoggettante della sovranità; una volta realizzato, esso assimila e incorpora a priori qualsiasi contenuto concepibile alla sua pretesa, alla sua vigenza vuota.

Sottoposti a questo bando, a causa della sottomissione al «principio vuoto» della sovranità, gli uomini patiscono una riduzione che precede la loro soggettività agente all’interno della forma della volontà generale e che inoltre è aprioristicamente contenuta in questa soggettività: l’individuo, in quanto «corpo vivente» (Agamben, op. cit.) viene degradato a oggetto-soggetto della sovranità, ridotto a «nuda vita», un concetto che ricorre numerose volte nel saggio di Agamben. Questa «animalizzazione dell’uomo» (Foucault; cit. in: Agamben, 1995) è il presupposto della sua esistenza nello Stato di diritto o, come recita, la formula della «pedagogia nera» (Katharina Rutschky): la volontà deve essere spezzata in se stessa, prima dell’apparizione di qualsiasi contenuto giuridico.

Il luogo storico e sistematico in cui si verifica la riduzione a «nuda vita» e la «rottura della volontà» non è altro che lo stato di eccezione, il luogo della «esclusione originaria attraverso cui si è costituita la dimensione politica» (Agamben, op. cit.). Per poter essere inclusi nel diritto gli uomini devono primariamente esserne esclusi: «Lo stato di eccezione, in cui la nuda vita era, insieme esclusa e catturata dall’ordinamento, costituiva, in verità, nella sua separatezza, il fondamento nascosto su cui riposava l’intero sistema politico» (Agamben, op. cit.).

Lo stato di eccezione è la «forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione» (Agamben, op. cit.). La vita, nella definizione dei cosiddetti diritti umani, è sacra solo sulla base costitutiva dell’esclusione escludente, perché già sottomessa: «La sacertà della vita, che si vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano come un diritto umano in ogni senso fondamentale, esprime, invece, in origine proprio la soggezione della vita a un potere di morte, la sua irreparabile esposizione nella relazione di abbandono» (Agamben, op. cit.).

In questo senso la funzione dello stato di eccezione è quella di condurre a priori «il singolo a oggettivare il proprio sé e a costituirsi come soggetto, vincolandosi nello stesso tempo a un potere di controllo esterno» (Agamben, op. cit.). Lo spazio in cui lo stato di eccezione esercita il suo potere di confinamento, sottomissione ed inclusione escludente è il campo (ossia il campo di concentramento); «Il campo è un ibrido di diritto e fatto, in cui i due termini sono diventati indiscernibili» (Agamben, op. cit.) o, detto altrimenti: «Il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (Agamben, op. cit.). La riduzione a «nuda vita» come presupposto dello Stato di diritto si perfeziona nello spazio del «campo» oppure, bisognerebbe aggiungere, in una delle sue molteplici varianti nella storia della modernizzazione (campo di lavoro, istituto di correzione, penitenziario, campo di sterminio).

Pertanto non si tratta semplicemente di un fenomeno storico ma di una logica perennemente attiva e inscritta nello «stato normale»: «La fondazione non è, cioè, un evento compiuto una volta per tutte in illo tempore, ma è continuamente operante nello stato civile nella forma della decisione sovrana» (Agamben, op. cit.). Già a suo tempo Walter Benjamin constatò che «lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola» (cit. da Agamben, op. cit.). Il «campo» è sempre una presenza invisibile «come il paradigma nascosto dello spazio politico della modernità» (Agamben, op. cit.). È quindi necessario «guardare al campo non come a un fatto storico e a un’anomalia appartenente al passato (anche se eventualmente ancora riscontrabile), ma, in qualche modo, come alla matrice nascosta, al nòmos dello spazio politico in cui ancora viviamo» (Agamben, op. cit.).

È a buon diritto che Agamben proclama allora «la tesi di un’intima solidarietà fra democrazie e totalitarismo» (Agamben, op. cit.). La democrazia non è altro che stato di eccezione coagulato, in cui l’elemento totalitario della modernità si concentra e che oggi principia nuovamente a dissolversi nel suo stadio costitutivo: «Lo spazio “giuridicamente vuoto” dello stato di eccezione […] tende ormai ovunque a coincidere con l’ordinamento normale» (Agamben, op. cit.).

In altre parole: lo stato di eccezione, che alberga nell’intimo dello «stato normale», si scioglie dalle sue catene nel corso di un processo secolare di crisi: «In questa prospettiva, ciò che sta avvenendo nell’ex Jugoslavia e, più in generale, i processi di dissoluzione degli organismi statuali tradizionali nell’Europa orientale, non vanno guardati come un riemergere dello stato naturale di tutti contro tutti, che prelude alla costituzione di nuovi patti sociali e di nuove localizzazioni nazional-statuali, quanto, piuttosto, come l’affiorare alla luce dello stato di eccezione come struttura permanente di de-localizzazione e dis-locazione giuridico-politica. Non si tratta, cioè, di un regresso nell’organizzazione politica verso forme superate, ma di eventi premonitori che annunciano, come messi sanguinosi, il nuovo nòmos della terra, che (se il principio su cui si fonda non sarà revocato in questione) tenderà a estendersi su tutto il pianeta» (Agamben, op. cit.).

Non si fatica a comprendere perché un’analisi e un’interpretazione di questo genere risulti a dir poco traumatizzante per gli affabili ideologi democratici e per gli idolatri del capitalismo. Non è quindi sorprendente che la maggior parte delle recensioni, trasversalmente a tutto lo spettro politico-ideologico, abbia respinto la posizione di Agamben in maniera drastica. Inutile a dirsi, a ferire gli eterni apologeti della modernizzazione è stata soprattutto la provocatoria formulazione che identifica nel «campo» il nòmos o il «paradigma biopolitico» della modernità o perfino – come si legge in talune formulazioni di Agamben – dell’Occidente in generale.

Ad esempio Niels Werber preferirebbe di gran lunga applicare il paradigma del «campo» unicamente alla dittatura nazionalsocialista e si aggrappa dunque a questa generalizzazione per censurare Agamben dalla tribuna del Merkur, il principale organo intellettuale del fanatismo democratico da crociata tedesco: il «campo» non sarebbe il paradigma «del regime nazionalsocialista, del totalitarismo, dell’imperialismo moderno, nient’affatto, è addirittura il paradigma di tutto l’Occidente moderno! E il “paradigma biopolitico” di Agamben non individua una corrente più o meno rilevante della teoria politica nel corso della storia dell’Occidente, ma lo spazio in cui il “potere sovrano” adempie alla sua “funzione” originaria: generare nuda vita, passibile di esclusione e inclusione» (Werber 2002).

Tutto questo suona come un palese affronto: certo, l’ideologo della libertà occidentale, in fin dei conti, appare ben disposto a fare ampie concessioni per quel che riguarda le atrocità e le più sinistre tradizioni di pensiero dell’Occidente, purché ci si limiti al regime nazista, al totalitarismo e, forse, all’«imperialismo moderno» (nella sua forma classica). Ma, attenzione, questa analisi critica non ardisca neppure lambire le fondamenta della costituzione moderna, per non parlare della «nostra» meravigliosa democrazia: «Per quale ragione il campo di concentramento sarebbe il nostro nuovo nòmos?» (ibidem) – si domanda Werber, stracciandosi le vesti, per poi aggiungere: «Così facendo si assottiglia la differenza tra gli Stati democratici basati sul diritto e il Terzo Reich» (op. cit.).

Lo stile concitato di Werber dimostra solo fino a che punto sia stato tabuizzato il livello costituzionale comune allo stato di diritto, alla dittatura, al totalitarismo e alla democrazia di massa capitalistica – senza che per questa sola ragione le differenze storiche secondarie debbano per forza scomparire. Tra la moderna dittatura manifesta e il nucleo dittatoriale della democrazia, tra violenza coagulata e violenza fluida non esiste un’identità immediata; tuttavia essi contengono al loro interno un elemento comune, un nocciolo o un fondamento arcaico della modernità, impossibile da scoperchiare, perché, altrimenti, l’intera ideologia legittimatoria democratica si sgretolerebbe.

E così si è levata una voce anche dalla sinistra, da parte del periodico «Jungle World», organo centrale della critica democratica del capitalismo nei limiti stabiliti dalla costituzione americana: «Per quanto possa sembrare incredibile Agamben non riesce a comprendere che la ricerca della felicità, l’inviolabilità del corpo, la salute e la soddisfazione dei bisogni sono proprio l’esatto contrario di ciò che il suo «homo sacer» rappresenta nel suo contenuto storico-sociale. Qui non si tratta affatto di nuda vita ma di una vita qualificata» (Baumann 2002).

Vengono sottolineati qui alcuni punti deboli della tesi di Agamben per rigettare tutta l’impostazione del problema e della critica contenuta nella sua argomentazione. Effettivamente il tallone di Achille di Agamben è una certa tendenza verso l’ontologizzazione che caratterizza, per altri versi, anche Hardt/Negri e l’impianto teorico postmoderno nel suo complesso, influenzato in questo da Heidegger, che è un punto di riferimento anche per Agamben. Di conseguenza l’analisi assume una forma a-storica, che pone in relazione immediata epoche differenti della storia della modernizzazione e della storia (occidentale) in genere, eclissando il vero fulcro dell’argomentazione, ossia la costituzione specifica della modernità.

Questo vale soprattutto per ciò che lo stesso Agamben ha definito come un’enigmatica «figura del diritto romano arcaico» (Agamben, op. cit.), ossia l’«homo sacer», che ha dato il titolo alla sua ricerca. L’«homo sacer» poteva essere ucciso senza tema di castighi, ma non sacrificato, ed è proprio per questa ragione che, secondo Agamben, esso simboleggia la «nuda vita», l’uomo come biomassa soggiogata, buona ad essere sfruttata e passibile di uccisione, lo stadio preliminare della «capacità giuridica», in cui la minaccia della morte impunita, dell’«esclusione includente» resta latente, in quanro congenita nella costituzione della forma-diritto.

Ora, nella migliore delle ipotesi, la figura dell’«homo sacer» potrebbe funzionare come una metafora per la costituzione moderna, che dovrebbe essere per giunta esplicitata. Invece Agamben colloca il tema di questa «figura oscura» sullo stesso piano del problema della cittadinanza moderna, tracciando una linea di congiunzione astorica tra i concetti e le realtà sociali, dai rapporti di natura religiosa delle fasi arcaiche dell’antichità, fino al moderno Stato costituzionale.

La decurtazione astorica del pensiero postmoderno va di pari passo con quella fenomenologica, perché né i fatti storici né tantomeno i fenomeni attuali vengono messi in relazione con una specifica forma storico-sociale: anche sotto questo aspetto Agamben manifesta il suo irretimento nel discorso postmoderno. Richiamandosi al concetto di «biopolitica» di Foucault, di cui Agamben, sotto certi aspetti, intende portare fino alle estreme conseguenze il programma filosofico, egli si serve anche del concetto foucaultiano di «potere», positivistico e confuso, che ostacola una chiara analisi strutturale delle sfere sociali e della loro relazione logica reciproca.

E così Agamben deve necessariamente sviluppare il carattere della sovranità e dello stato di eccezione direttamente dalla sfera politica, senza riflettere sulla relazione politico-economica complessiva della modernità. La sua esposizione sfocia perciò nella mistificazione delle categorie politiche e, in questo senso, l’«oscura» figura antica dell’«homo sacer» viene utilizzata ancora una volta per posizionarsi su un campo semantico corrispondentemente confuso.

Questa indeterminazione dissolve anche la specificità dell’antisemitismo e dello sterminio degli ebrei in un concetto universale di «campo» nella modernità; un topos che, sotto molti aspetti, presenta tratti apologetici (e minimizzanti per il nazismo). Su questo punto l’errore di Agamben è diametralmente opposto rispetto a quello degli apologeti democratici e della sinistra borghese, che enfatizzano la singolarità e la peculiarità di Auschwitz, solo per offuscare intenzionalmente la logica della modernità capitalistica, l’unico terreno cui Auschwitz poté diventare realtà, così come la forma coercitiva del «campo», immanente a questa logica, nelle sue molteplici forme fenomeniche. La singolarità di Auschwitz può essere pensata solo congiuntamente all’universalità del «campo» della modernità, e viceversa.

Nonostante tutto, però, l’offensiva di Agamben, in ultima analisi, non è apologetica, né minimizzante, e anzi tocca un nervo scoperto dell’apologetica occidentale, superando di gran lunga tutte le limitazioni postmoderne, non da ultimo la falsa immanenza di Hardt/Negri (che perciò fanno riferimento ad Agamben solo in maniera fuggevole e piuttosto riluttante). Agamben ha scoperto la testa di Gorgone che si cela dietro alla retorica democratica, dietro alla premessa eternamente ripetuta della «ricerca della felicità», della «salute e soddisfazione dei bisogni», del diritto di ogni uomo alla «inviolabilità del corpo» etc., e in che modo la «nuda vita» del bando e dell’abbandono viene inclusa nella presunta «vita qualificata» del cittadino democratico.

Per estrarre il nocciolo della logica sviluppata da Agamben è necessario capovolgerla dalla testa ai piedi, dalla posizione invertita della fenomenologia astorica postmoderna a una critica sviluppata dell’economia politica. Solo nella prospettiva della macchina «desoggettivata» della valorizzazione capitalistica, dell’irrazionale «soggetto automatico» (Marx) della modernità, il cui concetto viene curiosamente trascurato in tutto e per tutto da Agamben, la logica della sovranità e dello stato di eccezione, della «nuda vita», del bando e dell’inclusione escludente acquista un significato riconoscibile. Ad «animalizzare», in un certo qual modo, gli uomini, a ridurli a «corpi vivi» prima della «qualificazione» secondaria della loro vita non è certo la falsa ontologia foucaultiana di un «potere» astorico o di un dominio in generale, ma la polarità strutturale specificamente moderna di politica e economia, di lavoro astratto e macchina statale.

La forma del valore o la relazione del valore, incarnata nella forma-denaro, che si autorelaziona con se stessa mediante il processo di valorizzazione, costituisce davvero primariamente quel vuoto metafisico, l’assurda «forma di una legge generale» di Kant, svuotata da ogni contenuto, che appare in Agamben come «vigenza senza significato» o «principio vuoto». Questa essenza divina secolarizzata di una spaventosa forma vuota, un vuoto sostanziale, che domina l’intero processo vitale, rende la modernità la più mostruosa relazione storica di dominio.

La sovranità, la corrispondente volontà generale vuota, non è altro che la relazione di coercizione politica di questa mostruosa forma vuota. Questa struttura complessiva di valorizzazione e di sovranità astratta, che fu in origine l’esito dell’economia protomoderna delle armi da fuoco e del relativo dispotismo militare, è già di per sé uno stato di eccezione permanente che è sprofondato, per così dire, nella società.

Stato di eccezione non significa altro che un inasprimento della sottomissione molto oltre il normale (per come lo si possa definire) dei membri della società nei confronti di misure, che non sottostanno al loro potere decisionale. Va detto che ove vige l’imperativo di forme feticistiche interiorizzate, rese concrete dagli apparati istituzionali e amministrativi, da rapporti di potere coercitivi etc., non si può davvero parlare di «decisioni libere» degli individui sociali. Ma lo stato di eccezione è proprio una condensazione, un’intensificazione, un acuto inasprimento del dominio, che supera di gran lunga la misura «abituale», «normale».

Singoli elementi dello stato di eccezione della modernità esistevano già anche nei precedenti rapporti di dominio, proprio come una manifestazione temporanea, «supplementare», intensificata del dominio, ad esempio quando i membri della società erano costretti a prestazioni straordinarie: tributi, servigi di natura militare e lavorativa sotto l’amministrazione coattiva e repressiva di un’istanza sociale feticistica. A quest’ambito appartiene il lavoro forzato nella costruzione di fortificazioni (esempi estremi: il limes romano e la muraglia cinese), di mausolei e di monumenti sacri o anche per progetti civili come i canali, per il rifornimento delle truppe etc.

Ciò che contraddistingue l’autentico stato di eccezione, mai esistito prima della modernità, è una manifestazione specifica della «abnormità», accompagnata da una tipologia specifica di internamento di grandi (o quantomeno significative) parti della popolazione; da qui deriva il concetto di «campo». Non si tratta di prigioni convenzionali nella cornice della regolamentazione penale, ma di «inclusioni» che si situano prima o al di là di qualsiasi relazione giuridica. Qui l’inclusione va oltre l’intervento di istanze mediatrici; essa diviene immediata.

Lo «stato normale» feticistico è, in un certo senso, un carcere sociale e territoriale allargato: agli uomini non viene impedito di muoversi, non viene loro imposto, di regola, di fare questo o quello e continuano a godere di un determinato status giuridico. Nello stato di eccezione questo status giuridico viene generalmente «sospeso», le attività più importanti sono generalmente oggetto di prescrizione e, almeno per una determinata parte della popolazione lo spazio del carcere si riduce, per così dire, fino alla pelle.

Gli uomini sottomessi allo stato di eccezione, nel suo significato più ristretto, si trovano in uno spazio sociale separato, escluso, in cui la loro volontà, per quanto ridotta, in quanto dominata dalla forma feticistica, le loro necessità più elementari, perfino la loro esistenza fisica, non valgono più nulla, in cui tutti i rapporti di potere «normali», regolati, in qualche modo relativi, sono sospesi a favore di una sottomissione assoluta. In questo spazio di eccezione gli individui vengono scissi da tutti i loro legami sociali e personali abituali, ridotti letteralmente a «nuda vita», a vita passibile di liquidazione, mere «braccia» per il monarca teocratico, per il dittatore, il principio al di là di ogni attività autonoma, per quanto condizionata da un rapporto di dominio.

L’economia politica delle armi da fuoco degli albori della modernità ha generato un dominio dispotico di tipo nuovo con le sue esigenze, caratterizzato soprattutto da una fame insaziabile di denaro per foraggiare il complesso militare-industriale, nato con i cannoni e la loro produzione, che fu la matrice della moderna macchina sociale capitalistica. Non era più possibile soddisfare questa fame di denaro solo mediante prestazioni straordinarie temporanee; essa generò piuttosto uno «stato di eccezione» qualitativamente nuovo, paradossale e perfezionato sul piano istituzionale, associato alla nascita della sovranità moderna. Per meglio dire: nella modernità lo stato di eccezione esisteva prima del suo stato normale; si potrebbe dire che la normalità moderna venne ghermita e portata alla luce da uno stato di eccezione di tipo nuovo.

Carl Schmitt fa riferimento a questo stato di eccezione in maniera superficiale, mediante la sua famigerata definizione del politico come dualismo amico-nemico, perché la sua prospettiva è essenzialmente nazionale: il problema per lui consiste solo nell’autoaffermazione esterna, esistenziale, della nazione ontologizzata come «comunità di destino» sul campo di battaglia della concorrenza tra i «popoli». Invece la prospettiva di Agamben, ed è proprio questa la novità, non è nazionale e rivolta all’esterno, ma sociale, individuale e riferita all’interno: per lui il problema consiste nel fatto oggettivo della sottomissione sociale interna, il bando sociale interno della sovranità e dello stato di eccezione, che si completa nella riduzione a «nuda vita». per questa ragione il tenore di Schmitt è sostanzialmente affermativo, mentre Agamben argomenta in modo sostanzialmente critico ed emancipatorio.

Di fatto le «guerre di formazione nazionale» della protomodernità ebbero una funzione costitutiva, non tanto però nei confronti dell’esterno (ossia in riferimento all’estenzione della sovranità territoriale) quanto piuttosto in un senso interno, socio-economico. Le si potrebbe anche definire come «guerre di formazione economica», «guerre di formazione dei mercati» o addirittura come «guerre di formazione del capitalismo». E in causa c’era perciò la costituzione di uno stato di eccezione permanente, nella misura in cui il dispotismo della sovranità iniziava a includere le persone del «suo» territorio, non più solo temporaneamente, in determinati periodi di guerra e emergenza, bensì permanentemente, in uno spazio separato dalle loro residue manifestazioni vitali e dalle loro relazioni sociali o personali.

Il capitalismo è il paradosso di una prestazione straordinaria permanente. Si trattava di convertire l’intero processo riproduttivo sociale in un unico processo di «creazione di denaro» o di «moltiplicazione del denaro» e gli uomini in astratte macchine da lavoro e rendimento astratto di questa «legge», inizialmente esteriore ed imposta.

Questa mostruosità prese le forme dello stato di necessità costituente o dello stato di eccezione, che operò da levatrice del capitalismo, la cui funzione fu quella di spezzare una volta per tutte la volontà di autonomia sociale. Nonostante la descrizione che Marx fa nel Capitale circa la cosiddetta «accumulazione originaria» e le ricerche del primo Foucault, la storia di questa brutalizzazione delle relazioni sociali, senza precedenti nella storia dell’umanità, è ancora ben lungi dall’essere stata scritta; non da ultimo a causa dell’opposizione rabbiosa dell’apologetica democratica.

All’inizio colonizzazione esterna e interna erano identiche: in entrambe le sfere gli uomini vennero assoggettati in egual misura al dispotismo della macchina della valorizzazione. Solo nel proseguimento di questo processo, esse poterono prendere strade differenti; grazie all’ideologia illuministica fu possibile compensare la sottomissione interna, facendo ricorso a modelli razzisti. I sudditi «bianchi» dello stato di eccezione permanente poterono atteggiarsi a dominatori di secondo grado nei confronti dei sudditi «di colore», che non riuscirono mai sfuggire davvero allo stato originario, costituente, della riduzione totale a «nuda vita».

Lo spazio sociale dell’esclusione includente, della riduzione a «nuda vita» fu uno spazio di coercizione fin dal principio. Durante la protomodernità il «campo» veniva ancora chiamato casa, che ricevette così lo spettrale significato collaterale di «istituto»: la casa dei poveri, la casa di lavoro, la casa di correzione, la casa dei pazzi, la casa degli schiavi – le «case del terrore» in cui si perfezionò l’addestramento a un lavoro astratto eteronomo, in una forma esemplare per la società nel suo complesso; un processo che si inasprì nei «campi» delle più tarde dittature della modernizzazione e della crisi.

Questo stato di eccezione originario è ormai divenuto lo stato normale della modernità, che è la base di ogni Stato di diritto. Il rapporto capitalistico non è altro che uno stato di eccezione coagulato, la costituzione permanente di uno spazio di inclusione escludente e di esclusione includente, che in questo stadio di una normalità/eccezione secondaria, si presenta come lo spazio dello sfruttamento di energia umana astratta in forma aziendale. Il processo di valorizzazione si è svincolato dallo scopo originario della moltiplicazione permanente di denaro per il finanziamento della macchina militare convertendosi in un fine-in-sè sociale. E la sovranità si è ritirata dallo spazio funzionale immediato di questo fine-in-sé, per circondare, come una catena di ferro, gli uomini confinati in questo spazio e trattenerli per tutta la durata della loro vita attiva.

Questo spazio è effettivamente uno spazio estraneo alla vita, sebbene cronologicamente esso occupi e brutalizzi la maggior parte della vita attiva. È lo spazio in cui tutte le relazioni sociali e personali sono sospese a favore delle relazioni meramente funzionali del processo di valorizzazione; lo spazio in cui i lavoratori «non sono presso di sé, ma al di fuori di sé» (Marx); lo spazio in cui, un giorno dopo l’altro, si verifica la più ampia riduzione a «nuda vita», cioè a forza-lavoro attiva, a dispendio di rendimento astratto per il fine-in-sé irrazionale. Chi entra per la porta dell’economia aziendale, deve lasciare ogni speranza in una vita autodeterminata all’interno di questo spazio astratto: qui non c’è più alcuna possibilità di accordo reciproco, ma solo la «legge coercitiva della concorrenza» e la legge funzionale della valorizzazione del valore.

Gli individui confinati al suo interno sono destituiti da ogni possibilità di determinare il contenuto della loro prassi da una costrizione assolutamente immediata. Da questo spazio funzionale economico-aziendale promana sempre l’atmosfera della casa del terrore e del «campo», in esso continuano a valere le leggi della subordinazione dispotica e del comando militare, che si fanno beffe della psicologia aziendale e di tutte le ideologie della responsabilità personale. L’istigazione permanente al rendimento e le campagne del management, l’esecuzione continua di imperativi desoggettivati non è altro che l’esercizio quotidiano dello stato di emergenza, un quotidiano servizio obbligatorio.

Una «qualificazione» è possibile per la «nuda vita», periodicamente espulsa dallo spazio funzionale riducente per un tempo residuale, conformemente alla sua possibilità di riduzione e sfruttamento, solo in maniera secondaria e come mero effetto collaterale del processo di valorizzazione, come ristrutturazione del proprio io per il prossimo impiego. La capacità giuridica di questa esistenza è legata alla sua capacità di farsi ridurre; per questo la «nuda vita» costituisce il nucleo dell’«individuo libero e autonomo».

Ma questa autonomia altro non è se non l’interiorizzazione dello stato di eccezione permanente, coagulato, nel corso di in un processo di assuefazione plurisecolare, repressivo e autorepressivo (definito da Elias con uno sfrontato eufemismo come «processo di civilizzazione»). La relativa «ricerca della felicità» nella macina della concorrenza universale può sfociare solo nella più completa desolazione. Anche l’uomo di successo, secondo i criteri capitalistici, è l’uomo abbandonato. E ogni tentativo di «qualificare» questa «nuda vita» in sè, anche la «salute» o, più in generale, il «soddisfacimento dei bisogni» restano sempre e solo dubbi prodotti collaterali del processo autotelico della metafisica reale, come dimostrano inequivocabilmente, ad esempio, le restrizioni del settore sanitario, messe in atto in tutto il mondo.

Ogni qualificazione secondaria della vita, anche il mero status di soggetto giuridico, è certamente condizionata dalla possibilità per l’individuo di farsi ridurre e di sottomettersi «produttivamente» al capitalismo , indipendentemente dalle possibilità sociali e materiali effettive. È una mostruosa minaccia latente, che può diventare in qualsiasi momento manifesta: la minaccia che una riduzione a «nuda vita» solo relativa, contingente, privata, possa convertirsi, o meglio riconvertirsi, in una riduzione assoluta, duratura e pubblica (sovrana). Nelle crisi essa diviene fluida, nella misura in cui fuoriesce di nuovo dall’alveo della «normalità» costituita, iniziando a palesare la sua autentica natura.

Lo stato di emergenza, nella sua forma più acuta, si scatena nel momento in cui il mantenimento dello stato di eccezione permanente, convertitosi in una seconda normalità, non è più possibile e incombe il pericolo che la sottomissione delle risorse e degli individui a un bando irrazionale venga alla luce. E allora sono gli organi della sovranità a incaricarsi della riduzione a «nuda vita» mentre dallo spazio funzionale economico-aziendale risorgono la casa del terrore e il «campo», alla coercizione indiretta del lavoro e dell’amministrazione subentra quella diretta, alla qualificazione secondaria della vita si sostituisce ancora una volta la distribuzione primaria delle razioni di emergenza secondo i criteri di una penuria artificiale, oppure fenomeni perfino peggiori.

Nelle crisi di imposizione e di sviluppo del capitalismo questo stato di eccezione secondario, potenziato, la fluidificazione del normale stato di eccezione originario, divenuto permanente, coagulato, segnava solo un cambiamento nello stato di aggregazione della sovranità, una transizione dalla latenza alla manifestazione. Anche sotto questo aspetto la crisi mondiale della terza rivoluzione industriale appare qualitativamente nuova. A liquefarsi adesso è precisamente la sovranità stessa, nella misura in cui lo spazio dell’esclusione includente si dissolve: il confinamento degli uomini sfocia infine nell’assurdità pura e semplice. La sovranità, laddove può essere conservata, reagisce a questa circostanza in maniera automatica, con le sue consuete misure di crisi, sebbene esse non diano alcun frutto.

Alla fine della «società del lavoro» capitalistica riappaiono gli stessi processi di inclusione e esclusione dei suoi albori, ma in direzione opposta. Ancora una volta il film viene riproiettato al contrario e a velocità accelerata, anche qui su di un livello di sviluppo assai superiore. La sovranità protomoderna aveva inventato nuove forme di crimine e internò masse di individui come criminali nelle sue case del terrore, per materializzare il lavoro astratto. Adesso l’agonizzante sovranità postmoderna sta inventando nuove forme di crimine, di «campo», di amministrazione degli uomini e di industria carceraria, questa volta per le masse dei «superflui», nella cui esistenza il lavoro astratto si smaterializza. La sovranità recupera la funzione dell’esclusione includente dall’economia aziendale, ma solo per farla sparire in un buco nero.

I programmi a base di ribassi salariali e di lavoro coatto, socialmente utile, promossi dallo Stato, falliranno inevitabilmente, perché non potranno mai essere la base di un’accumulazione autonoma, ma rappresentano solo la transizione verso nuovi strati di paria economici. Il concetto di «autovalorizzazione», l’idea dell’individuo come «imprenditore di se stesso», contrabbandati assurdamente da Negri come prospettive emancipatorie e caldeggiati anche nelle proposte della commissione Hartz (accanto a misure coercitive istituzionali contro disoccupati e beneficiari di trasferimenti sociali), esigono un’economicizzazione della coscienza spinta all’estremo, laddove l’economia non può più assorbire le masse degli esclusi.

Pertanto si tratta solo di stadi di transizione della repressione sociale, destinate a sfociare nella più totale assenza di prospettive. Due sono le alternative: o i «superflui» verranno abbandonati al loro destino, nella totale impossibilità di riprodurre la loro esistenza, come avviene generalmente nella periferia, in cui questo processo va di pari passo con la dissoluzione imminente della sovranità, con la formazione delle strutture tipiche di un’economia del saccheggio e con la violenza anomica. Oppure, laddove la sovranità può ancora contare su di un’organizzazione solida, come nei centri dell’Occidente (legata principalmente alle possibilità di rifinanziamento mediante il capitalismo delle bolle finanziarie, ormai agonizzante), essi verranno rinchiusi stabilmente nelle carceri, nei campi di internamento e in istituzioni simili a campi di concentramento – proprio come sta già accadendo per i «clandestini» e i rifugiati. Questa tendenza è visibile al massimo grado nei paesi anglosassoni, soprattutto negli USA. L’ultima potenza mondiale ha già rinchiuso in gabbia milioni dei suoi «superflui», e ogni giorno se ne aggiungono migliaia.

In altri termini, l’imperialismo democratico dell’esclusione e della sicurezza non si rivolge più solo verso l’esterno, contro i «superflui» della periferia, ma anche, e con impeto sempre maggiore, verso l’interno, nella forma di un’amministrazione coercitiva di emergenza dello stato di eccezione sociale contro i suoi stessi «superflui». Alla fine della modernità, mentre «il film si riavvolge», la colonizzazione interna e esterna, ormai priva di scopo e totalmente inefficace, fa la sua ricomparsa come repressione in forme sempre più identiche contro gli «indesiderati» interni ed esterni.

In questo momento esistono ovunque due tipi di «nuda vita», entrambi sottomessi al dettato della macchina della valorizzazione: da un lato c’è una riduzione relativa degli «occupati» superstiti come pure unità di rendimento dentro lo spazio funzionale dell’economia aziendale, che si conservano nello stato di eccezione coagulato come normalità e quindi all’interno della forma giuridica. Dall’altro invece c’è la riduzione assoluta, quella degli «esclusi», a oggetti puramente biologici sottoposte a controllo, assorbiti dallo stato di eccezione rifluidificato, nella forma dell’amministrazione del lavoro e dell’industria carceraria, che decadono gradualmente anche dal loro status di soggetti del diritto.

Le cose viventi dell’eccezione sovrana vanno incontro ad una paradossale «appartenenza esclusa», descritta da Agamben in modo solo apparentemente enigmatico: «Essa è quel che non può essere incluso nel tutto a cui appartiene e non può appartenere all’insieme in cui è già sempre incluso» (Agamben, op. cit.). Questo enigma può essere risolto se posto in relazione con la coercizione feticistica del lavoro astratto: sul piano empirico i superflui del capitalismo non possono più essere inclusi nella logica totale della valorizzazione, cui però continuano ad appartenere logicamente; non sono più un elemento dell’insieme delle unità viventi di rendimento astratto, in cui però sono pur sempre incluse, in virtù della definizione capitalistica dell’essere umano (cioè conformemente alla sua specifica forma-soggetto).

Nella crisi della terza rivoluzione industriale questo paradosso termina con una situazione senza via di scampo, che segna la fine assoluta della «cittadinanza» moderna e, proprio per questo, viene ostinatamente negata dagli ideologi. Ad esempio, il filosofo tedesco Odo Marquard, nella sua «Apologia della cittadinanza»2, delinea i contorni di un «processo di inclusione» che fa a pugni con i dati reali, un’invocazione surreale del vecchio programma di integrazione socialdemocratico all’interno dello stato di eccezione coagulato della logica della valorizzazione, questa volta nelle condizioni della globalizzazione, analogamente ai propositi di Hardt e Negri:
«Al mondo borghese non si deve solo l’emancipazione del “Terzo stato” ma anche il processo di dissoluzione del “Quarto stato” – cioè il proletariato – nel “Terzo stato” […] Invece dell’esclusione del proletariato dallo status di cittadino, erroneamente pronosticata dalla “teoria dell’impoverimento” di Marx, ha avuto luogo un processo di “integrazione nella cittadinanza”, per usare la definizione di Franz von Baader del 1835 […] Pertanto ritengo che […] il destino abbia in serbo anche per il Terzo Mondo, apparentemente sempre più povero, l’integrazione: non l’immiserimento – come vorrebbe far credere una teoria de-europizzata, che cerca la sua salvezza, rifugiandosi in contrade esotiche – ma l’“integrazione nella cittadinanza” del Terzo mondo» (Marquard 2000).

Nella misura in cui questo processo si sta verificando davvero in una forma paradossale, quella dell’individualizzazione capitalistica («ciascuno è il proprio bourgeois»), si tratta comunque di un’«integrazione» di cadaveri viventi, di soggetti desoggettivati. Sul piano formale lo status del lavoratore salariato si dissolve nella figura dell’«imprenditore di se stesso», che però si rivela come un paria della libera impresa, una condizione da tempo abituale nella periferia e che adesso sta iniziando a diffondersi anche nei centri capitalistici, grazie al premuroso sostegno della sovranità e della sua amministrazione di emergenza socio-economica. Non è affatto detto che immiserimento e status di cittadino si escludano vicendevolmente.

Un processo analogo coinvolge anche gli Stati in via di disintegrazione della periferia: la loro «integrazione» secondaria nella «comunità democratica dei popoli» avviene nella forma degli zombie, come spettri esangui della statalità democratica, meri involucri formali. L’universalizzazione della forma (forma-valore, forma-Stato, forma-soggetto) va di pari passo con la sua desostanzializzazione. Agamben direbbe che in gioco c’è pertanto una paradossale «integrazione» (formale) mediante un’«esclusione» (sostanziale).

Mano a mano che questa realtà assume contorni sempre più nitidi e brutali, anche la reazione della coscienza ideologica plasmata sulla cittadinanza e sulla democrazia si fa sempre più veemente. Secondo Marquard la condizione attuale del mondo è semplicemente oggetto di «calunnie» (op. cit), un atteggiamento analogo a quello di Bjorn Lomborg, che minimizza con un certo autocompiacimento le devastazioni ecologiche, confrontando, ad esempio, la distruzione dell’ecosistema delle foreste pluviali, sviluppatosi nel corso di intere epoche geologiche, con il rimboschimento a base di «foreste industriali» a crescita veloce, per trarre un bilancio positivo (Lomborg 2000)3 o a quello dei guru delle bolle finanziarie che ancora fino a poco tempo fa calcolavano gli straordinari guadagni della New Economy.

Mentre nella crisi della Terza rivoluzione industriale l’impoverimento capitalistico di massa e la distruzione della natura procedono a ritmo accelerato, gli aguzzini democratici esigono con furia inquisitoria una professione di fede universale sulla condizione «salubre» del mondo e sulla propaganda illuministica, secondo cui tutto va sempre per il meglio. Nella critica delle pretese capitalistiche Marquard scorge solo le «velleità intellettuali» di «decadenti tardo-culturali», la «nostalgia della privazione nel mondo dell’abbondanza» (op. cit.): «Laddove il negativo scompare progressivamente dalla realtà (!), grazie a quel sollievo che è rappresentato dalla civiltà (!), non scompare simultaneamente l’inclinazione umana verso il negativo […] A causa della nostalgia della privazione […] il benessere viene infine ridefinito come disagio» (op. cit.).

Questa dichiarazione è talmente provocatoria da tradire una certa inclinazione intrinseca verso la guerra civile. Se risulta impossibile qualsiasi accordo circa la percezione della realtà, il futuro non può che riservare la mutua volontà di sterminio. Senza esserne pienamente coscienti i cordiali e socievoli cani da combattimento intellettuali della società democratica feticistica e distruttrice del mondo stanno formulando collettivamente le basi occulte di un programma di esclusione per i «superflui», la cui sola esistenza, in un mondo che diviene sempre «migliore», viene percepita come disturbante. Dietro a questi discorsi cosmetici si cela solo il vecchio discorso di sterminio malthusiano, la riduzione ultima e assoluta della «nuda vita» a materia morta.

Sarà così che le popolazioni dei moderni «homines sacri», quando la crisi supererà una soglia critica quantitativa, verranno silenziosamente rimosse dall’idillio del mondo disneyano di «economia di mercato e democrazia». La vita del moderno «homo sacer» è la «vita che può essere uccisa ma non sacrificata», ricacciata ancora una volta nello stadio primordiale della sottomissione totale, impossibile da sacrificare gradualmente sull’altare dell’economia di impresa al fine-in-sé irrazionale della valorizzazione del valore; pertanto essa può essere proscritta, bandita, esiliata, ma rimane pur sempre inclusa e, alla fine, può essere uccisa impunemente, non importa in quale forma, in quale momento, in quale modo l’omicidio si compia, al di fuori dell’autentica liturgia sacrificale capitalistica (ad esempio a causa dell’impossibilità graduale di accedere alle cure mediche).

Ma nella misura in cui le pretese del capitalismo diverranno sempre più sfrontate, anche la collera sociale si accumulerà corrispondentemente, scatenandosi sotto forma di imponenti ribellioni e di sanguinosi conflitti sociali, che non risparmieranno le metropoli democratiche, una volta che sofferenze, provvedimenti coercitivi, restrizioni delle necessità vitali e repressione mediante l’industria carceraria supereranno una certa soglia critica. Non è affatto detto che le conseguenze di questa collera siano liberatrici.

A questo proposito è necessario correggere ulteriormente Agamben. La logica della riduzione potenziata a «nuda vita» nello stato di eccezione prevede fin dal principio due forme, due tipologie differenti di «homo sacer». Da una parte possono essere uccisi, ma non sacrificati, tutti i «superflui» e cioè anziani, malati, disabili, disoccupati di lunga durata, mendicanti etc., così come i criminali, i delinquenti di ogni genere (fino ad arrivare ai «terroristi»), tutti respinti nello status delle «vite indegne di essere vissute». Dall’altra però ci sono gli ebrei come potere dell’estraneità, sui quali può essere proiettato l’immane potenziale di alienazione della società feticistica moderna.

Questa proiezione, basata sulla polarità strutturale tra il sub-uomo negativo e il superuomo negativo, costituisce fino ai giorni nostri il paradigma del processo di eliminazione in cui lo stato di eccezione coagulato si fluidifica. Non c’è dubbio: esiste pur sempre un legame tra Auschwitz e il nomos moderno del «campo» o della casa del terrore e questo legame non può certo essere cancellato, ma non esiste una coincidenza perfetta. La casa di lavoro, la casa di correzione, l’industria penale, il campo di concentramento, anche il «campo di sterminio mediante il lavoro» sono di una qualità differente rispetto ad Auschwitz, il puro campo di sterminio allo stato puro, fine a se stesso, totalmente estraneo al tetro utilitarismo del feticcio della valorizzazione, la cui distruzione simbolica doveva essere inscenata proprio mediante l’annientamento degli ebrei.

L’antisemitismo moderno è il surrogato irrazionale della critica emancipatoria del capitalismo, una pseudocritica del potere mostruoso del «soggetto automatico» attraverso l’esclusione effettiva e, infine, lo sterminio degli ebrei: per questa ragione esso rappresenta l’ultima riserva ideologica della forma-soggetto capitalistica, l’opzione di deviare verso un oggetto sostitutivo le inevitabili rivolte contro le pretese del sistema in modo da preservare il sistema stesso.

Allo stesso tempo funge da catalizzatore per il sostegno razzista, biologista o culturalista dell’imperialismo democratico dell’esclusione e della sicurezza. La sua definizione del nemico ha una valenza sostitutiva immaginaria e, di conseguenza, può essere rivolta contro le minoranze ebraiche, ma non necessariamente. In quanto proiezione fantasmagorica l’antisemitismo, come falso incanalamento proiettivo della ribellione, può funzionare anche senza gli ebrei. Di fatto è possibile scatenare il pogrom anche contro «stranieri», individui di colore, disabili, emarginati, ma per questo è comunque necessario il catalizzatore antisemita (quale che sia lo status e l’intensità dell’antisemitismo all’interno di ogni specifico contesto). La riformulazione razzista empirica del processo di esclusione è possibile solo grazie all’orientamento delle energie negative di crisi verso questa immagine spettrale. L’identificazione etno-culturalistica «verso l’alto» del principio negativo con gli ebrei, conformente ai criteri della «biologia razziale», permette anche la sua applicazione «verso il basso» del meccanismo selettivo di crisi su base razzista sulle persone di colore, gli stranieri etc.

In questo modo il desiderio delle masse, decise a restare all’interno della sfera giuridica e nella costellazione dei diritti del «normale» stato di eccezione coagulato, anche a costo di indirizzare su qualcun altro la definizione di nuovo «homo sacer», trova così una forma di decorso ideologica e pratica. Oggi però l’esecuzione di questa logica interna del processo di valorizzazione è assediata da contraddizioni molto più aspre rispetto alla situazione dell’epoca tra le due guerre. La fluidificazione dello stato di eccezione non avviene più nel contesto della sovranità ma si compie nella forma della liquefazione e della dissoluzione della sovranità stessa, dinamicizzando la pulsione di morte immanente al feticismo moderno: gli individui si definiscono vicendevolmente come «homines sacri» e questo avviene orizzontalmente, verticalmente, trasversalmente a tutti gli strati e i segmenti della società globale. Ne deriva un impulso da parte della sovranità in decomposizione, che si mescola con l’impulso spontaneo della plebe e in entrambi i casi il catalizzatore dell’antisemitismo è efficace, in forma palese oppure occulta.

Tra fenomeni oggettivi quali la «superfluità» di sempre più individui e il collasso del diritto internazionale, tra la desostanzializzazione della forma-valore, del diritto e della sovranità e la legge marziale globale dell’imperialismo complessivo non vi è nessuna identità immediata ma una struttura di mediazione assai estesa. Tuttavia la crisi del diritto all’interno e all’esterno si condizionano reciprocamente. E la ricomparsa dello stato di eccezione sociale originario, della ur-forma moderna della «nuda vita» e del moderno «homo sacer» nelle due forme dell’«ebreo» e del «superfluo» è anche il subtesto delle guerre dell’ordine mondiale, che svelano lo stato di eccezione globale e sono destinate a sfociare nell’anomizzazione democratica globale.

Nella crisi della terza rivoluzione industriale ogni essere umano è in prospettiva un «uomo dei diritti umani» (Agamben, op. cit.), come dichiara Agamben riallacciandosi a Hannah Arendt, «perché siamo tutti virtualmente homines sacri» (Agamben, op. cit.). Però questa conseguenza estrema, autoaggressiva, dell’esclusione includente, destinata all’autodistruzione, si conforma ancora una volta alla polarità di razzismo e antisemitismo, con la sua definizione di «vita indegna di essere vissuta» da una parte, e la proiezione fantasmatica di un principio «razzialmente estraneo» da sopprimere a tutti costi dall’altra.

Adesso inoltre questo processo non si compie più nel modus di un’ulteriore formazione della modernità, ma in quello della sua degradazione, in cui la forma politica si decompone assieme a quella economica e si manifesta «la struttura in senso proprio fondamentale della metafisica occidentale» (Agamben, op. cit.). Ma poiché Agamben non riesce a liberarsi dal concetto positivistico postmoderno di potere foucaultiano e la sua analisi esplicativa manca di qualsiasi riferimento all’economia politica, egli si incaglia inevitabilmente, nonostante la sua sconfessione della politica democratica, in uno sterile psotulato nel gergo di Beck e di Giddens, cioè nel «campo verso quella nuova politica che resta in gran parte da inventare» (Agamben, op. cit.). In realtà non rimane più nulla da inventare. Nello stato di eccezione del XXI secolo il nòmos della modernità non deve essere ridefinito ma solo abolito, se l’umanità non vuole abolire se stessa.

Testo originale:
Weltordnungskrieg (cap. IX): Der globale Ausnahmezustand;
Traduzione dal tedesco di Samuele Cerea

Bibliografia
Agamben, Giorgio (1995); Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita
Baumann, Jochen (2002); Des Staatsbürger neue Kleider.Giorgio Agamben zieht die Menschenrechte ab und lässt den Homo sacer einsam zurück, in: Jungle World 30-31 2002
Böhm, Andrea (2001); Allah unterm Sternenbanner, in: Die Zeit 49/2001
Doran, Jamie (2002); Documenti di un crimine di guerra; in Le Monde diplomatique, settembre 2002.
Fleischauer, Jan (2001): „Jeden Tag strammstehen?“, in: Der Spiegel 46/2001
Hoyng, Hans (2001); Richter und Henker, in: Der Spiegel 52/2001
Kant, Immanuel (1788); Kritik der praktischen Vernunft
Knaup, Horand et. al. (2001) ; „Alle Bürger unter Generalverdacht“, in: Der Spiegel 47/2001
Ladurner, Ulrich (2002); Verheerende Lektion. Bosnien beugt sich Amerikas Druck und beschädigt den eigenen Rechtsstaat, in: Die Zeit 5/2002
Prose, Francine (2002); Wer ist ein echter Patriot?, in: Die Zeit 6/2002
Schmitt, Carl (1922); Politische Theologie
Schmitt, Carl (1921); Die Diktatur
Schwelien, Michael (2002); Im Käfig des Siegers, in: Die Zeit 5/2002
Werber Niels (2002); Die Normalisierung des Ausnahmefalls. Giorgio Agamben sieht immer und überall Konzentrationslager


Note:

1. Robert Kurz, Weltordnungskrieg, Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus im Zeitalter der Globalisierung, Horlemann Verlag, Bad Honnef 2003.

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Robert Kurz

Robert Kurz (1943-2012). Ha sviluppato una critica radicale della modernità e una nuova teoria della crisi mondiale attraverso l’analisi del sistema globale del capitalismo. Le sue teorie sono state pubblicate sulle riviste teoriche “Krisis” e “Exit!” e in numerosi libri. Di Kurz sono apparsi in Italia "La fine della politica e l’apoteosi del denaro", "L’onore perduto del lavoro", il "Manifesto contro il lavoro", "Ragione sanguinaria", "Il collasso della modernizzazione" e "Il capitale mondo".

3 Commenti

  1. Scusa, ma andrebbe bene un bottone “print friendly” per conservare il testo. In questo caso un capitolo mancante nella traduzione portoghese. Grazie.

  2. …cè anche da dire che il Diritto in quanto tale se lo è sempre fatto il più forte, come pure le favole sulla divisione di poteri ecc. Tuttavia la crisi potrebbe non voler attendere.

    La durata dei cicli
    varia infatti da 7 a 11 anni. 2007 più 11 fa 2018. Anche ammettendo che
    il ciclo in corso possa durare di più, diciamo due anni, arriviamo al
    2020. La crisi sarà di ritorno quando la FED avrà appena cominciato a
    ridurre il suo bilancio. E che dire della BCE e della Banca del Giappone
    che non avranno neanche il tempo di cominciare?

    Comunque, tutto è pronto per una formidabile crisi di sovrapproduzione. La
    situazione attuale è comparabile a quella della vigilia del 1929, ma in
    peggio. L’indebitamento pubblico e privato è ben superiore e gli Stati e
    le banche centrali hanno esaurito tutte le loro munizioni.

    Allorché la crisi di sovrapproduzione esploderà in Cina, coincidendo con
    quella degli Stati Uniti, dell’Europa e di altri paesi asiatici, come
    Giappone, Corea, India, ecc., più nulla potrà arrestarla, nessuno
    sbarramento resisterà, si affonderanno a vicenda.

    La terra si aprirà sotto i piedi dell’aristocrazia operaia e della
    piccola borghesia. L’ignobile palude delle mezze classi sarà rovinata e
    con essa una parte della grande borghesia. Proletariato e borghesia
    saranno spinti a uno scontro sanguinoso, provocato da una frattura
    irreversibile e da una polarizzazione della società.

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