Questi appunti di poche e brevi note, assolutamente non definitive, vorrebbero da una parte sintetizzare – nei limiti del possibile – una serie di questioni lamentate spesso come difficili e, dall’altra, stimolare il primo passo di un dibattito in seno alla “Critica del valore”, nella speranza d’intessere una tela continuativa con gli sforzi teorici dei compagni e delle compagne del gruppo Crise&Critique in Francia rispetto alla critica della “forma-soggetto”, o ai contributi del compagno tedesco Julian Bierwirth del gruppo Krisis sulla necessità di riformulare la lotta sociale. Ciò che segue è stato inizialmente abbozzato – perlomeno a grandi linee – a margine di un incontro informale animato da un gruppo di circa venti persone e svoltosi in due giornate, nella suggestiva cornice delle campagne di Gragnano (LU), tra il 15 e il 16 giugno. Il primo giorno si è caratterizzato dall’esposizione della storia e delle istanze teoriche della “Critica del valore”. Il secondo dall’esposizione delle pratiche comunitarie dell’America Latina e dei pensieri di Ivan Illich e Gustavo Esteva (che, per curiosità, si sarebbe avvicinato, negli ultimi anni di vita, alla “Wertkritik” con la lettura delle opere di Kurz e Jappe, ricercando poi una comunanza d’intenti tra le teorizzazioni di Illich e quelle di Marx). Da lì è maturata in me un’esigenza sostanziale che, in diverse occasioni nel corso dell’ultimo anno, avevo già privatamente discusso con Anselm Jappe e Massimo Maggini: può la “Critica del valore” dialogare col “municipalismo libertario” di Murray Bookchin e darsi l’assemblearismo, la democrazia diretta, il confederalismo democratico, l’esperienza dello zapatismo o il consiliarismo operaio (così come teorizzato da Debord e dall’Internazionale situazionista) come forme da cui partire e a cui guardare? Lancio il sasso e non nascondo la mano.
Afshin Kaveh – estate 2024
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Quale forma per il contenuto della “Critica del valore”?
Cosa ci insegna la “Wertkritik”?
Presto la corrente teorica internazionale della “Wertkritik” (“Critica del valore”) soffierà quaranta candeline sulla torta. Sono infatti trascorsi trentotto anni da quando, nel marzo del 1986, veniva pubblicato, nel primo numero della rivista tedesca Marxistische Kritik che da lì a breve avrebbe cambiato vesti in Krisis, l’articolo di Robert Kurz Die Krise des Tauschwerts, ovvero La crisi del valore di scambio. Ma alla luce degli anni trascorsi, delle tante pubblicazioni, traduzioni e diffusioni, avanzamenti, teorizzazioni e revisioni, studi, dibattiti, incontri e seminari, la “Critica del valore” oggi cosa vuol essere? Privilegiando i toni puntuali dell’oltraggio, della polemica ben argomentata, del regolamento dei conti, la “Critica del valore”, nella propria originale rilettura della critica dell’economia politica di Karl Marx, si è sempre posta orgogliosamente al di fuori del dibattito istituzionale e universitario. Chi gravita attorno a quest’ultima produzione del sapere ha dovuto constatare che la “Critica del valore” faceva sul serio, e non per épater le bourgeois: la “Critica del valore” ha sempre e per davvero voluto contare i giorni al modo di produzione capitalistico, fargli definitivamente la festa, abolire la merce, il valore, il denaro, il lavoro, lo Stato.
L’estrema radicalità della “Critica del valore” negli anni ha attirato su di sé gli interessi dei movimenti impegnati nel sovvertimento dell’esistente, dalla critica sociale a quella ecologica, ma si è mai dimostrata all’altezza del compito? Vistasi additata come setta di intellettuali, seppur virtuosi, la “Critica del valore” è mai davvero riuscita ad essere anche solo questo? Insomma, una vera e propria “Scuola di Norimberga”, così come definita da Anselm Jappe sulla falsariga della “Scuola di Francoforte”?
Ogni suo sforzo di sviluppare con precisione una “critica categoriale” che ambisce ad afferrare le logiche di funzionamento del modo di produzione capitalistico è stato spesso tacciato di immobilismo, di arido gioco intellettuale, di impraticabilità. Ma la “Critica del valore” è realmente un disarmo incondizionato? Pur non avendo mai avuto pretese direzionali o normative, sfugge ai più quanto sia utile comprendere le categorie di funzionamento, le categorie fondamentali del capitalismo: queste ci aiutano immediatamente, sia in generale ma anche nello specifico e nel contingente, poiché afferrando cosa il capitalismo effettivamente è ci si dà un percorso su cosa assolutamente non fare per non rischiare di riproporre le sue logiche di funzionamento.
Al di là di questo approccio tipico della cassetta degli attrezzi della “Critica del valore”, ovvero disvelare il contenuto categoriale del modo di produzione capitalistico per riuscire in questo modo a caratterizzarne e individuarne ogni meccanismo, è forse giunto il momento di riflettere sulla forma della prospettiva di rottura emancipatoria. Ma quale forma dare al contenuto della “Critica del valore”?
Che cos’è il capitalismo?
Il modo di produzione capitalistico, il “moderno sistema di produzione di merci” (Kurz), è una sintesi sociale. Non è naturale o eterno, non è una “cosa” ma, bensì, un “rapporto sociale” storicamente determinato. In esso gli esseri umani si associano e socializzano privatamente: tutti gli individui sono atomizzati, isolati e separati ma entrano in relazione concorrenziale tra loro tramite rapporti esterni mediati da merci. Perché esterni? Tale relazione, anziché svolgersi nel proprio agire intenzionale, si dispiega impersonalmente, alle spalle dei singoli individui che vi partecipano indossando “maschere di carattere” (Marx). Tali maschere sono le personificazioni dei rapporti economici da cui sono agiti e non agenti, oggetti – e non soggetti – del “soggetto automatico” (Marx) che è l’automovimento stesso del modo di produzione capitalistico.
La logica di funzionamento di quest’ultimo si estende attraverso le categorie generalizzate del valore, della merce, del denaro, dello Stato e, soprattutto, della duplice esistenza del lavoro nei propri lati “concreto” e “astratto”. Nel modo di produzione capitalistico è il lato astratto del lavoro a rivestire maggiore rilievo poiché è ben più importante far astrazione dal contenuto materiale e concreto del suo dispendio per inseguire il fine in sé della “valorizzazione del valore” (Marx). Esempio: non mi interessa produrre delle graziose e comode tazzine da tè ma solo che queste si vendano. Il fatto poi che siano effettivamente graziose e comode non è per buon gusto ma perché le rende appunto maggiormente vendibili. Il fine della produzione di merci non è mai la soddisfazione dei bisogni, bensì la funzione tautologica della valorizzazione.
La merce costituisce la “cellula”, la “forma elementare” (Marx) del modo di produzione capitalistico. Essa contiene un “problema strutturale” (Lukács) in quanto esisterebbe sia come “valore d’uso” (la qualità materiale del corpo della merce, data dal lato concreto del lavoro, dalla sua specificità, qualità che la distingue da tutte le altre merci; esempio: una patata non è una vanga e viceversa) che come “valore” (la sostanza che, data dal “lavoro vivo” umano, dal lato astratto del lavoro, si concretizza socialmente appiattendo ed eguagliando tutte le merci rendendole scambiabili; esempio: se patate e vanghe contengono la stessa quantità di tempo di lavoro astratto socialmente necessario in media, sono capitalisticamente la stessa cosa, rappresentando la stessa “grandezza di valore”). Tale “contraddizione interna”, che si dà dunque tra “contenuto materiale” e “forma sociale”, si dispiega lungo l’intera organizzazione sociale generalizzata alla produzione di merci: se una cosa prodotta, passando poi per lo scambio, non realizza il proprio compito di merce, ovvero quello di convertirsi in più denaro di quello che è stato inizialmente impiegato, ebbene, capitalisticamente parlando, non ha il minimo senso d’esistere. Ha fallito il proprio scopo. Per fare un esempio pratico: produrre uva o munizioni a grappolo, seppur qualitativamente e materialmente differenti e con finalità incompatibili, di fronte al capitale e alla logica della forma-valore, è la stessa cosa. Non conta l’utilità di una o dell’altra. Unica utilità è il fatto d’essere entrambi portatori materiali della capacità di potersi scambiare come merci su mercati anonimi e trasformarsi così in denaro – che lungi dall’essere un mezzo neutro così come presentato dagli economisti borghesi, è in verità il fine in sé. In questo modo il concreto si ribalta nell’astratto: l’irrazionalità più visibile di questo modo di produzione e riproduzione della vita consiste nel fatto che se le bombe realizzano un valore di scambio sul mercato mentre l’uva no, per assurdo le prime risultano capitalisticamente ben più utili e la seconda, avendo fallito il fine della forma-merce in quanto invenduta, troverà dimora nelle discariche. Allo stesso titolo delle merci invendute, gli individui che non partecipano al gioco perché cinicamente esclusi, marginalizzati oppure non integrati nella vendita di quella speciale merce che è la propria forza-lavoro non hanno ugualmente senso d’esistere (esempio: “chi non lavora non mangia!”), gettati a loro volta nelle discariche delle periferie.
Questa logica di funzionamento, all’apparenza presentata come innocua poiché spesso naturalizzata (esempio: “tutte le società umane si sono sempre organizzate in questo modo!”), è in verità socialmente e materialmente autodistruttiva secondo la linea marcata da due ragioni. La “ragione economica”: l’autoreferenziale processo della “valorizzazione del valore”, dell’accumulazione di denaro e più denaro come fine in sé, della produzione per la produzione su mercati anonimi, produzione che, non badando alla concretezza e ai limiti materiali dell’ambiente, racchiude di per sé la gravosità del collasso ecologico. La “ragione politica”: la logica di funzionamento e di gestione delle condizioni generali in cui si svolge e avviluppa questo stesso processo economico, l’istanza sovraordinata e il quadro di riferimento della concorrenza. Questa seconda “ragione”, patteggiata dallo Stato e dai suoi apparati derivati, muove se stessa all’interno dell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico, una crisi strutturale e irreversibile. Spieghiamola brevemente: il modo di produzione capitalistico, pur dipendendo dalla “valorizzazione” come movimento tautologico la cui “sostanza” è il lavoro, nella rincorsa all’automazione per incrementare i propri processi produttivi (esempio: passare dal produrre una camicia in un’ora a farlo in mezz’ora e via così, sempre meno), esclude ed espelle tecnicamente lo stesso lavoro vivo, la cui diminuzione comporta la caduta non solo del “saggio medio di profitto” ma della massa del “plusvalore sociale”, una stagflazione della “valorizzazione del valore”, una “devalorizzazione” generale compensata dalla moltiplicazione autoreferenziale del “credito” e del “capitale fittizio” (ovvero un’anticipazione di plusvalore che non è detto trovi realizzazione), assistendo infine a quelle forme di imbarbarimento dovute all’ammassamento sempre maggiore di schiere di “superflui”. Di fronte a tutto ciò vediamo oggigiorno la “ragione politica” costituirsi sul rafforzamento di istanze identitarie, conservatrici e razziste, sullo schieramento crescente degli apparati repressivi e, non potendo più contare su un’influenza egemonica, sul ritorno a logiche e pratiche di guerra.
Il quadro generale non è dei migliori. Urge una teoria spietata e che rivesta una volta per tutte le sembianze pratiche del becchino, affossando definitivamente il modello sociale cui siamo prigionieri, sentenziandolo come sacrificabile in quanto causa e concausa del collasso.
Che cosa fare per il suo superamento?
A partire dalla lettura di parte della tesi 16 del Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis (Mimesis, Milano-Udine 2023), intitolata “Il superamento del lavoro”, possiamo darci le prime basi di riflessione per il superamento del modo di produzione capitalistico. Qui si afferma che la negazione di questo modello sociale può passare solamente dalla riappropriazione dei nessi sociali, attraverso la formazione di alleanze fra individui liberamente associati che, attraverso nuove forme di organizzazione sociale, per esempio «libere associazioni, Consigli» (p. 73), mirino a strappare i mezzi di produzione e di esistenza dalle mani della gestione coercitiva di mercato e Stato, per controllarli a livello sociale complessivo. È chiaro come l’opposizione nella costruzione di “nessi sociali”, nelle alleanze fra “individui liberamente associati” e nell’organizzarsi “a livello sociale complessivo” sia una risposta, puntuale e precisa, all’atomizzazione isolante e disgregante della concorrenza capitalistica che partorisce solo individui privatamente associati. Il ruolo catalizzatore e d’unione di tutte le istanze che si innalzano contro il modo di produzione capitalistico (esempio: lotte sociali e lotte climatiche), deve essere svolto, secondo il Manifesto, dall’azione della critica teorica del “lavoro”, attaccando così frontalmente il perno sulla quale ogni meccanismo del modo di produzione capitalistico stesso è oliato. «Soltanto una critica del lavoro espressamente formulata e un dibattito teoretico adeguato possono creare quella nuova contro-opinione pubblica che rappresenta il presupposto irrinunciabile per la costituzione di un concreto movimento sociale», ridefinendo così «i contorni del conflitto sociale» stesso (p. 71).
Seppur il Manifesto delinei il campo di formazione del “movimento sociale” e del “conflitto sociale” nella lotta all’idolo-lavoro, dunque non per il lavoro ma contro il lavoro, questo non si deve svolgere a livello isolante e corporativistico, ma anzi afferrando la sua istanza totale: il lavoro permea tutta la contraddittoria e autodistruttiva vita sociale capitalistica, ed è dunque da questa totalità che si deve partire, ed è da qui che si mette alla prova ogni capacità di radicalizzazione delle prospettive di lotta. La lotta contro il lavoro così come intesa dalla “Critica del valore”, non mira a sostituire un termine con un altro, per esempio immaginando idealisticamente che basti parlare di “attività” anziché di “lavoro” per vederne la scomparsa. Questa lotta deve anzi mirare al superamento reale e materiale dell’“economia svincolata” e “astratta” da qualsiasi “bisogno concreto” ove ad essere inseguito vi è soltanto il fine in sé della “valorizzazione del valore”. Non è una lotta semantica, ma la sfida per la riappropriazione orizzontale e cooperante delle risorse e delle ricchezze materiali usurpate dalla logica della forma-merce: «soltanto nella battaglia contro la monopolizzazione di tutte le risorse sociali e di ogni potenziale di ricchezza da parte dei poteri alienati, cioè mercato e Stato, si potranno conquistare spazi sociali di emancipazione» (p. 72).
In vista della costruzione di tali spazi vi si deve instaurare innanzitutto la necessità di «attaccare la proprietà privata in maniera nuova e diversa». Per fare ciò si dovrebbe sottolineare la differenza esistente tra “rotture categoriali”, che mettono in discussione il modo di produzione nella sua totalità, e “rivendicazioni immanenti” al sistema, che ne mettono in discussione solo la circolazione chiedendo, per esempio, un’equità ridistributiva di merci, redditi, lavoro. È sulla sottile lastra di questo doppio livello che ci si ritrova costretti a muoversi: “critica categoriale” e “critica fenomenologica”. La prima storicizza la categoria-lavoro mettendola radicalmente in discussione come sintesi sociale non-eterna e auspicandone un superamento. La seconda, certamente più immediata di fronte al mondo empirico, vede semplicemente il fenomeno-lavoro, ovvero com’esso appare e si manifesta quotidianamente lamentandolo al massimo come alienato, ingiusto o mal retribuito, rischiando di decadere in critiche monche e decapitate del capitalismo. Le lotte certo necessarie per la diminuzione dell’orario lavorativo o per il salario minimo, da sole soltanto hanno il limite di riaffermare positivisticamente il carattere ontologico del lavoro. Queste andrebbero certo rivendicate nell’immediato, per ammorbidire la precarietà invivibile e pressante dell’attuale vita lavorativa, ma accompagnate da una nuova consapevolezza della critica al lavoro tout court. Si deve essere consci che non si può «superare la proprietà privata sul terreno della produzione di merci». Allora come abolirla? Come attaccarla? Che forma dare al movimento sociale che si prepara alla carica? Ebbene, all’irrazionalità della produzione astratta di merci al fine della “valorizzazione del valore” il Manifesto sostituisce la razionalità della «discussione diretta, l’intesa e la decisione comune dei membri della società sull’uso sensato delle risorse» concrete. «Le istituzioni alienate, come Stato e mercato, verranno sostituite con un sistema, a diversi livelli, di Consigli nei quali, dal quartiere fino a scala planetaria, le libere associazioni decidono dell’allocazione delle risorse secondo una ragione sensibile, sociale ed ecologica». All’interno di un’organizzazione della produzione e riproduzione materiale della vita che, al contrario del modo di produzione capitalistico, si ribalterà dall’astratto verso il concreto, il lavoro non determinerà più l’esistenza, ma lo farà «l’organizzazione dell’uso sensato delle possibilità comuni». Possibilità non più dirette dalla “mano invisibile” di mercati anonimi o dal “soggetto automatico” della forma-valore e della forma-merce, ma dall’agire sociale cosciente e autoriflessivo (pp. 72-73). Quale principio animerà questo rinnovato agire? Qualcuno direbbe: da ognuno secondo le proprie possibilità a ognuno secondo i propri bisogni. Ma che forma assumerebbe il contenuto di questa frase se si immaginasse praticata?
Che forma dare alla pratica?
Questa specifica lettura della “Critica del valore” potrebbe dialogare col “municipalismo libertario” teorizzato dall’anarchico statunitense Murray Bookchin? Quest’ultimo, nell’introduzione al suo Democrazia diretta (Elèuthera, Milano 2001), descrive la prospettiva municipalista come apertamente contrapposta allo Stato, ambendo ad un nuovo corpo politico, diretto e partecipativo, assolutamente incompatibile con qualsiasi forma-Stato (p. 16). Ci ritroviamo subito davanti ad una palese comunanza con le istanze anti-statuali del Manifesto. Bookchin definisce il municipalismo libertario non una “strategia” o una “tattica” momentanea, magari da accostare ad altre pratiche politiche più tradizionali e istituzionali ma, bensì, la nuova forma che una società razionale ed ecologica deve assumere. La forma assembleare della “Comune delle comuni” in cui villaggi, paesi, quartieri e città si vedono attivamente trasformati, coordinando le proprie decisioni in modo partecipativo, cooperativo e confederato. Secondo Bookchin il municipalismo libertario non è l’ambizione di una società futura, ma la pratica, il contenuto e il percorso in sé verso il conseguimento di questa stessa società (p. 17).
In cosa consiste il municipalismo libertario? «L’acquisizione dei mezzi di sussistenza da parte delle comunità, il controllo della vita economica da parte dell’assemblea cittadina e l’integrazione di aziende, negozi, terre, ecc. controllati dalle comunità secondo criteri confederali» (Ibidem). Potrebbe essere quell’appropriazione dei mezzi di produzione per il loro controllo a livello sociale complessivo, così come descritto dal Manifesto? Proseguendo, cosa si intende per confederazione? L’unione, la comunicazione, la cooperazione, il mutuo appoggio e soccorso tra le varie comunità, le quali organizzano la produzione della propria vita quotidiana materiale in assemblee territoriali, di via in via, quartiere, villaggio, paese, città. Il confederalismo è allora «una struttura amministrativa retta dalle politiche espresse dalle assemblee cittadine delle comunità che le costituiscono», una comunità di più comunità basata su imperativi mutualisticamente definiti. Sembrerebbe di leggere qui quell’alleanza fra individui liberamente associati in nuove forme di organizzazione sociale così come citato dal Manifesto, il quale, come abbiamo già visto, parla esplicitamente di “Consigli”.
Il municipalismo libertario è il proliferarsi di strutture di base che si danno la forma assembleare, a cui resta il potere decisionale. Questo potere, che assume «caratteri di gestione amministrativa più che di decisionalità politica» (p. 18) è decentrato, transitando dal basso dell’assemblea particolare verso l’alto della confederazione delle molteplici assemblee. Per dirlo con Bookchin: «il potere in questo modo fluisce dal basso verso l’alto, invece che dall’alto verso il basso [nda: così come invece succede nell’organizzazione statale], e va progressivamente diminuendo con l’ampliarsi degli ambiti di competenza, passando dalla dimensione locale a quella regionale e ad altre ancora più vaste. Non è più, come ora, il “centro” (lo Stato) che decentra una parte non essenziale del potere ad organi periferici, ma sono le assemblee che delegano una quota decrescente di potere alle istanze confederali. La politica rimane così locale, ma la sua amministrazione viene conferita alla rete confederale nel suo insieme» (p. 91).
Sintetizziamo ora quest’insieme: ogni comunità, tramite assemblee locali, formula le proprie politiche in stretto rapporto qualitativo con la propria e specifica realtà territoriale. Le decisioni vengono riportate, attraverso delegati temporanei, alle altre assemblee territoriali incontrandosi insieme presso un Consiglio confederale generale. Questo, in sintesi, rappresenta l’assemblea delle assemblee, rivestendo dunque il ruolo di collegamento tra città, paesi, villaggi, quartieri, avendo la funzione di coordinare le decisioni delle tante e singole assemblee. I delegati d’ogni assemblea sono soggetti a rotazione e revocabili con mandato trasparente e istruiti a sostenere, rigettare o ridiscutere i vari temi avendo «funzione puramente pratica e amministrativa» e assolutamente «non politica come quella assegnata ad assessori e deputati» (Ibidem), rappresentanti invece forme politiche e amministrative statali tradizionali. Per agevolare l’amministrazione di determinate decisioni e le diverse opzioni di riflessione e applicazione delle varie istanze, può farsi strada la formazione di Comitati di consulenza, altrettanto revocabili e, di per sé, non aventi potere decisionale. L’esito conclusivo, in caso di adesioni non unanimi, si darebbe allora attraverso la pratica della democrazia diretta, tramite la forma referendaria del voto di maggioranza svoltosi “faccia a faccia”, oppure tramite commissioni transitorie che ricerchino una soluzione il più comune possibile secondo il principio «l’unità nella diversità» (pp. 56-57). Sembra di leggere, seppur maggiormente dettagliato, quel sistema a più livelli di Consigli così come citato nel Manifesto, dal quartiere a scala planetaria.
A questo punto ci si starà chiedendo: in cosa differisce l’idea del voto democratico rappresentativo, tradizionale, liberale e borghese, da quello assembleare teorizzato da Bookchin? Può qui essere utile riportare per intero uno spietato passaggio dell’anarchico statunitense: «Il referendum, espresso nel privato della propria cabina elettorale oppure, come vorrebbero i sostenitori entusiasti dell’informatica, nella solitudine elettronica della propria casa, privatizza la democrazia e quindi la sconvolge. Il voto, al pari del sondaggio sulle proprie preferenze in fatto di saponi e detersivi, è la completa quantificazione della cittadinanza, della politica, dell’individualità. Il mero voto riflette una “percentuale” preformulata delle nostre percezioni e dei nostri valori, non la loro piena espressione. Si tratta della riduzione tecnica di opinioni in mere preferenze, di ideali in meri gusti, di comprensione universale in mera quantificazione, allo stesso modo in cui si possono ridurre aspirazioni e convinzioni a unità numeriche» (p. 72). Queste forme rappresentative indicate come il migliore dei mondi possibili, imprigionano qualsiasi direzione tra le braccia di un mondo privato e concorrenziale, decapitando infine qualsiasi aspirazione mutualistica e partecipativa. Un’aspirazione che, se liberata, dovrà guardare ad «una vita pubblica ricca di senso» e ad «una vita privata ben più creativa» (p. 46). Quale senso potrà avere questa nuova creatività? E quali creazioni riempiranno materialmente di senso questa vita? «La massima “da ognuno secondo le proprie capacità e a ciascuno secondo i propri bisogni” può essere una guida sicura per una società economicamente razionale», che guardi alla qualità contro la quantità e in cui «i bisogni si ispirino a norme razionali ed ecologiche» sostituendo ogni «imperativo borghese di un mercato come luogo di “crescita o morte”» con le «nozioni di limite ed equilibrio» (pp. 82-83). Ciò coincide con la ragione sensibile, sociale ed ecologica richiamata dal Manifesto e con la sua critica all’irrazionalità accumulativa della produzione di merci. Seppur Bookchin non sviluppi mai una critica categoriale né della merce né del lavoro, la sua messa in discussione della “crescita a tutti i costi” rende il dialogo con la “Critica del valore” ugualmente fecondo. Allora, una ulteriore integrazione della “critica categoriale” alla forma assembleare non dovrebbe apparire così assurda o, peggio, forzata. Dovrebbe essere necessaria.
Conclusioni
Diamoci adesso una conclusione. Bookchin non è ingenuo e ammette che «qualunque prospettiva radicale fondata sulle forme libertarie e sulle loro potenzialità è priva di significato senza [che vi sia] una forte consapevolezza che dia a queste forme contenuto e traiettoria». Sarebbe idealistico credere che siano sufficienti assemblee popolari per costruire una vita pubblica libertaria senza avere in serbo «un movimento libertario estremamente cosciente, ben organizzato e con un chiaro programma» (pp. 49-50). Per quale motivo questo movimento libertario non potrebbe coincidere col movimento sociale contro il lavoro ambito dal Manifesto? Perché non credere che la guerra che il Manifesto dichiara contro la monopolizzazione – sotto il giogo della forma-valore e della forma-merce – di tutte le risorse sociali e di ogni potenziale di ricchezza, non possa assumere la forma assembleare teorizzata da Bookchin? E perché non dare la medesima forma alla conquista di nuovi spazi sociali di emancipazione che il Manifesto rivendica attraverso una rinnovata pratica contro la proprietà privata? Il Manifesto ci parla dell’organizzazione dell’uso sensato delle possibilità comuni e dell’agire sociale cosciente e autoriflessivo. Perché questa organizzazione non può darsi all’interno delle assemblee e nella prospettiva municipalista e confederale? E perché questo agire non può formarsi e impratichirsi presso queste stesse forme? Non possono essere queste forme a negare una volta per tutte il modello sociale atomizzato della produzione di merci? Può essere questo modo d’organizzarsi a poter creare quei nessi sociali complessivi e razionali che guardano al superamento e all’abolizione delle logiche della merce, del valore, del denaro, del lavoro e dello Stato? La “Critica del valore” ha formato il contenuto. Si tratta ora di applicarlo. Il municipalismo libertario, al contrario, contiene la forma. La risposta anche in questo caso è la stessa: si tratta ora di applicarla.