Oltrepassare la pigrizia… e il lavoro

Proponiamo questa breve riflessione di Anselm Jappe, ancora una volta sulla questione del lavoro, tema centrale per la Critica del Valore (Wertkritik) – corrente di pensiero a cui anche lo stesso Jappe appartiene.
Può sembrare una perdita di tempo, oggi, a fronte di catastrofi ecologiche ed umanitarie, massacri e guerre, disoccupazione endemica e diffusa miseria crescente, occuparsi una volta di più della tematica del lavoro, soprattutto nell’ottica in cui lo fa la critica del valore, cioè quella – detto con una battuta e in modo insufficiente – del «rifiuto» del lavoro. Un rifiuto certo motivato, non un semplice vezzo da abitanti benestanti del primo mondo, se è vero che, come sostiene questa corrente di pensiero riprendendo soprattutto quello che loro definiscono il «Marx esoterico»,1 una tale questione è decisiva per le sorti del capitalismo, nella misura in cui si tratta di un sistema sociale fondato sul lavoro e sull’estrazione di valore che esso permette. Proprio la crisi di questo meccanismo, dovuta alla esplosiva capacità produttiva propria della terza rivoluzione industriale, quella a traino informatico e microelettronico, è la causa prima, secondo questa lettura, degli immani disastri ecologici e sociali a cui stiamo assistendo ormai da decenni. La conseguente carenza di una valorizzazione adeguata per gli ingenti capitali in circolazione toglie al regime del capitale qualsiasi freno inibitorio (al di là delle messinscene green o quant’altro), e lo conduce a cercare la redditività senza più rendere conto a niente e a nessuno, tantomeno a se stesso, entro un vortice distruttivo e autodistruttivo.
Il legame, dunque, fra crisi capitalistica e lavoro è forte e determinante, e si capisce perché sia così importante, e non fuori luogo, porvici attenzione e rimettere questa problematica al centro di un dibattito che abbia di mira l’uscita dal sistema del capitale, quello appunto che genera catastrofi, miserie, guerre e massacri.
Questa critica al lavoro occhieggia senz’altro ad una società dell’«ozio» un po’ in stile Lafargue – anche se non è costui il riferimento principale di questa corrente di pensiero. Tuttavia, benché l’ozio sia sicuramente gradito e al centro di una proposta, anche politica, di superamento del sistema del capitale, quello a cui la critica del valore guarda con interesse non è la «mera pigrizia» (di fatto l’altra faccia della medaglia dell’ossessione per il lavoro) ma una condizione libera e, diciamo così, «rilassata», all’interno della quale produrre, in modo rispettoso del mondo e non compulsivo, non determinato dall’esigenza di valorizzare il valore, ciò che può servire al sostentamento e sviluppo, materiale e spirituale, dell’umanità. E magari trarre da tutto questo anche soddisfazione e piacere.2
Con questo breve scritto, Jappe analizza proprio questi aspetti, ribadendo quanto la battaglia contro il lavoro non debba avere come esito necessario la «caduta» nella mera pigrizia (che, ripetiamo, sarebbe solo l’altra faccia del produttivismo compulsivo del capitalismo), ma apra spazio per un’altra opzione, che sappia scrollarsi di dosso la (falsa) alternativa fra «lavoro» e «pigrizia».
Un chiarimento, questo, necessario anche per difendersi dalle accuse, sovente mosse a questa corrente di pensiero e in odore di «antisemitismo strutturale»,3 per le quali i sostenitori di questo tipo di posizioni altro non sarebbero, come accennato poc’anzi, che svogliati ed agiati esponenti della civiltà occidentale, che criticano aspramente mentre, al tempo stesso, ne godono in modo parassitario i frutti, per di più senza contribuire al suo arricchimento ma anzi diffondendo il verbo «disfattista» del non-lavoro, ricamandolo teoricamente solo per nascondere la loro scarsa volontà di impegnarsi nel lavorare.
Queste ridicole quanto superficiali critiche non meriterebbero nessuna attenzione, se non fosse che alimentano un orizzonte culturale devastato e annichilito, dove narrazioni completamente fuori bersaglio e spesso in mala fede contribuiscono ad esasperare quella dimensione disperata che è poi il brodo di coltura delle destre.
Uno scritto come questo, di Anselm Jappe, prova dunque a portare un po’ di chiarezza anche in questo campo, uno dei più importanti, a nostro avviso, da elaborare in funzione dell’uscita dal sistema, criminale e omicida, del capitale.

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OLTREPASSARE LA PIGRIZIA… E IL LAVORO

La pigrizia è una forma di resistenza?

In un racconto dei fratelli Grimm, alcuni braccianti disputano fino al grottesco descrivendo la loro pigrizia: non piegare le gambe se un carretto sta per passarci sopra, non allungare la mani per afferrare il pane nonostante la fame … Ma, soprattutto, non eseguire gli ordini.
In forma parossistica, questo racconto testimonia della resistenza popolare al lavoro imposto dai padroni. In effetti, i concetti di pigrizia e di lavoro acquistano senso solo se li mettiamo in relazione fra loro. Nelle condizioni premoderne, troviamo ritmi di vita in cui momenti di attività intensa, talvolta vissuti come una sfida o una gradevole eccitazione, si alternano con lunghi intervalli in cui gli individui consumano poche energie, fino all’immobilismo. Questo stile di vita si ripresenta con una certa facilità quando le condizioni lo favoriscono, come se facesse parte della natura umana. Ma è stato marchiato con lo stigma infamante della «pigrizia» dai sostenitori di un modo di produzione fondato sul lavoro permanente, che è stato a lungo il destino degli schiavi

Come ci siamo arrivati?

A partire dalla fine del medioevo il lavoro è cresciuto molto su scala sociale: sia in quantità, con picchi nel XIX secolo, che in densità, mentre il suo senso diminuiva a causa della divisione sempre più spinta propria del lavoro industriale – la catena di montaggio ne è stata la forma più estrema. Individui, gruppi sociali e culture che non sottomettevano la vita intera al lavoro venivano stigmatizzati come «pigri», «parassitari», «inutili», inclini al vizio e ai crimini. Era permesso fare di loro ciò che si voleva: «rieducazione», lavori forzati fino allo sterminio – esemplare il caso dei Rom. Esaltato nelle scienze, nelle arti, nell’ideologia e nelle culture del XIX e XX secolo, il culto del lavoro era pressoché unanime, anche fra i lavoratori – il «movimento operaio» – che rimproveravano ai «borghesi» di essere oziosi. L’imposizione universale del lavoro ha prodotto, di converso, in circoli ristretti, un «elogio della pigrizia» di cui il pamphlet di Paul Lafargue è l’espressione più conosciuta. Questo è ancora oggi un testo rigenerante da leggere e rappresenta un’utile provocazione, soprattutto all’interno del marxismo, anche se la sua portata teorica è forse stata un po’ sopravvalutata. I suoi limiti, in ogni caso, non risiedono certo nel predicare che sarebbe «comunque necessario lavorare»…

Qual è, dunque, il problema?

Il problema è che un simile approccio conosce solo la non attività e il riposo assoluto come alternative al lavoro capitalista. Se non accettiamo di vivere come Diogene nella botte, si è portati a credere che saranno le macchine a lavorare al nostro posto. Questa speranza di automatizzazione è nata durante gli anni del boom (i «trenta gloriosi»), con il nome «società del tempo libero», la quale sarebbe dovuta andare verso una riduzione del tempo nominale di lavoro, con l’utopia di potersene un giorno liberare del tutto. Negli ultimi decenni, il progresso dell’informatica e della robotica hanno rinvigorito l’idea per la quale le tecnologie avrebbero ridotto il tempo di lavoro in modo sostanziale … ma in realtà la stretta del lavoro sulla nostra vita si è fatta più forte che mai! All’interno di un regime di precarietà e di flessibilità obbligatoria, tutta la vita porta l’impronta del lavoro: sia che lo si abbia, sia che lo si stia cercando oppure che ci si stia formando per esso. In un recente passato, ci potevamo ancora dimenticare del lavoro una volta usciti dalla fabbrica o dall’ufficio.
Ma la speranza di poter godere del consumo capitalistico senza il lavoro capitalistico, perché sarebbero stati i robot i nostri operai e i nostri domestici, è diventata oramai obsoleta: le tecnologie rappresentano piuttosto sempre più una minaccia, e ci viene chiesto di affidare loro persino le nostre attività intellettuali o la nostra riproduzione biologica. Un mondo totalmente automatizzato sembra un prezzo troppo elevato da pagare per sfuggire al lavoro.

L’orizzonte dovrebbe ancora essere quello dell’oltrepassamento del lavoro?

Ma l’opposizione è veramente fra «pigrizia» e «lavoro»? O, piuttosto, fra «attività sensata» e «attività insensata»? Persino le attività più faticose possono risultare piacevoli se scelte liberamente e per uno scopo: a chi ama coltivare un orto non piacerebbe certo ottenere dei pomodori con un «click». È la costrizione permanente a lavorare per vivere che suscita il desiderio opposto, quello di non fare niente. La pigrizia non è l’unica alternativa al lavoro. Come ha ben chiarito Alastair Hemmens nel suo libro «Ne travaillez jamais! [2019]»,4 la critica del lavoro negli ultimi due secoli – minoritaria, spesso limitata ai milieux artistici e bohèmien, con il «ne travaillez jamais» [non lavorate mai] di Guy Debord come punto culminante – non ha mai tenuto veramente conto di ciò che Marx chiamava «la doppia natura del lavoro»: astratta e concreta.

Nella società capitalistica ogni lavoro ha un lato concreto, che lo rende diverso da tutti gli altri e che serve a soddisfare un qualche bisogno. Al tempo stesso, tutti i lavori sono uguali a causa del loro lato «astratto»: in questo caso, è il tempo di lavoro ciò che conta – dimensione puramente quantitativa che crea il «valore» delle merci e diventa infine visibile come prezzo. Un medesimo lavoro possiede entrambi i lati. Ma nella produzione capitalistica, è la dimensione astratta ad avere il sopravvento. E questa, indifferente ai contenuti, non considera che la crescita quantitativa. Non è, dunque, l’utilità di un prodotto, né la sua qualità o la soddisfazione del produttore ciò che conta. Gli aspetti più spiacevoli del lavoro come lo sfruttamento, i ritmi sfrenati, l’estrema specializzazione e spesso la perdita di senso – si lavora per un salario, per un reddito, non per ottenere un qualche risultato visibile, così come facevano i contadini o gli artigiani – sono la conseguenza di questo ruolo che il lavoro ha nella società moderna. Ecco perché la grande maggioranza dei mestieri non dà alcuna soddisfazione, e fa piuttosto desiderare la pigrizia.

Si potrebbe obiettare che ci sono lavori comunque poco desiderabili, ma che qualcuno dovrà pur fare. In realtà, la stragrande maggioranza degli impieghi contemporanei non sono, di fatto, necessari e l’umanità non perderebbe niente se venissero aboliti. Al tempo stesso, la società del lavoro spesso rende impossibili determinate attività solo perché non redditizie, condannando gli individui ad una inattività indesiderata, per esempio cacciando i contadini da terre dalle quali non potranno più trarre sostentamento, o impedendo a persone che vorrebbero essere attive di avere accesso a risorse o alloggi, con il pretesto che sono di proprietà privata. Si assiste alla creazione di masse sempre crescenti di «superflui», spesso condannate ad una pigrizia involontaria. Per contro, anche le attività più nocive, come la fabbricazione e la vendita di armi o di pesticidi, vengono considerate un lavoro, mentre la maggior parte delle attività domestiche, generalmente relegate alle donne, come la cura dei bambini e degli anziani, non lo sono, a prescindere dalla loro utilità.

La categoria «lavoro» è ambigua?

È importante ricordare che la categoria «lavoro» è una invenzione moderna: nelle società precedenti, le attività produttive, la riproduzione domestica, i giochi, i rituali, la vita sociale formavano piuttosto un continuum. Ad attribuire una particolare nobiltà alle attività che noi chiamiamo «lavoro» è stata la borghesia capitalistica, soprattutto a partire dal XVIII secolo. La parola «lavoro» non indicava, originariamente, un’attività utile. Essa proviene dal latino «tripalium», il quale era uno strumento di tortura che serviva a punire i servi recalcitranti. Il «labor» latino richiama il peso sotto il quale si barcolla, dunque la pena fisica. Il tedesco «Arbeit» indica il dolore e la fatica. In quasi tutte le culture, il lavoro è considerato come una sofferenza, da limitare allo stretto necessario per soddisfare bisogni e desideri. È solo con la modernità capitalistica, all’interno della quale è la quantità di lavoro (proprio o degli altri, di cui ci si appropria) a decidere il ruolo sociale dell’individuo, che il lavoro è stato eretto a pilastro della vita economica e sociale. Con questa valorizzazione morale della fatica, è venuta meno la domanda sullo scopo del lavoro.

Che aspetto avrebbe una società liberata dal dogma del lavoro?

Una società liberata dal lavoro non sarebbe necessariamente condannata a restare senza far niente. Qui però, prima di distribuire le attività indispensabili alla sua realizzazione, si definirebbe ciò che serve veramente per una «buona vita». La quantità di lavoro necessario si ridurrebbe in modo consistente, cosa che rappresenta un problema solo là dove lavorare è la condizione per poter vivere. In una società solo un po’ ragionevole, che non identifichi la felicità sociale con la «creazione di posti di lavoro», questo comporterebbe l’oltrepassamento dell’alternativa fra pigrizia e vana fatica.

Il reddito universale potrebbe favorire l’avvento di una tale società?

Il reddito universale garantito è problematico per molte ragioni. Tuttavia, aprendo esso la possibilità di sottrarsi al ricatto del lavoro a tutti i costi, potrebbe contribuire a rompere con l’ideologia per la quale «se non lavori, non mangi», e così aiutare a rovesciare, dopo secoli, la glorificazione del lavoro. Non in nome della mera prigrizia, ma in nome di attività sensate e scelte consapevolmente.

Anselm Jappe

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traduzione e cura di Massimo Maggini
testo originale qui: https://www.philomag.com/articles/anselm-jappe-depasser-la-paresse-et-le-travail

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Note:

1. Cfr. R. Kurz, Il duplice Marx, e anche il bell’articolo di Afshin Kaveh La critica del lavoro nel duplice Marx.

2. In questo più simile al concetto di otium latino (vedi a questo proposito il bell’articolo di Paolo Lago Otium e negotium, e comunque al modo in cui veniva esperito nel mondo antico. Cfr, ad esempio, questi brani di Robert Kurz tratti dall’articolo Die Enteignung der Zeit, tr.it. a cura di Franco Senia L’espropriazione del tempo: «Nell’antichità e nel Medio Evo, malgrado un inferiore livello tecnico, il tempo di produzione quotidiana, settimanale o annuo, era inferiore a quello del capitalismo. Dal momento che la religione primeggiava sull’economia, il tempo delle feste e dei riti religiosi era più importante del tempo di produzione; c’erano molti giorni festivi, i quali vennero aboliti in gran parte nel corso del cammino verso la modernizzazione. Inoltre, le società agrarie della vecchia Europa si caratterizzavano per loro enormi disparità stagionali, nel volume di attività. I periodi più caldi dell’anno assorbivano la maggior parte dei compiti, lasciando alla popolazione contadina un inverno relativamente tranquillo, spesso usato per celebrare festività private, di cui siamo a conoscenza grazie alle canzoni popolari … Questo concetto antico e medievale dell’ozio, non deve essere confuso col concetto moderno di tempo libero, e questo perché l’ozio non era una parte della vita separata dal processo di attività remunerata, ma era presente, per così dire, nei pori e negli interstizi dell’attività produttiva stessa. Se pensiamo che l’astrazione dello spazio-tempo capitalista non aveva ancora scisso il tempo della vita umana, il ritmo di sforzo e riposo, allora possiamo sapere che produzione ed ozio scorrevano dentro un largo processo vitale. In un sistema di identità fra produzione, vita personale e cultura, quello che a noi oggi può sembrare formalmente una giornata lavorativa di 12 ore, non significava affatto 12 ore di attività sotto il controllo di un potere economico oggettivo. Questo tempo di produzione, era attraversato da momenti di ozio; c’erano, per esempio, delle lunghe pause, soprattutto per pranzare, che si estendevano anche ai pasti comunitari, un’abitudine che si è preservata per più tempo nei paesi mediterranei, rispetto al nord, fino a quando non si è stati obbligati a cedere tale spazio al ritmo del lavoro. L’attività produttiva pre-capitalista, oltre ad essere impregnata di ozio, si caratterizzava anche per essere meno concentrata, cioè a dire che era più lenta e meno intensiva di quanto lo sia oggi. In un’attività autodeterminata, senza la pressione della concorrenza, un ritmo moderato dell’attività produttiva rivela chiaramente il modo “naturale” della condotta umana. Oggi non conosciamo più questo modo di agire; sotto l’imposizione silenziosa della concorrenza del mercato anonimo, la giornata lavorativa moderna, funzionalmente degradata, è diventata sempre più condensata; prima per la cadenza meccanica e, dopo, per il modo perfezionato di consumare l’energia vitale, facendo ricorso alla cosiddetta razionalizzazione … La sproporzione grottesca fra un aumento permanente delle forze produttive ed un aumento, ugualmente costante, della mancanza di tempo, produce anche negli spiriti acritici un certo malessere … questa stessa logica paranoica della “economia (padronale) del tempo” trasforma il guadagno di produttività della terza rivoluzione industriale in un nuovo rapporto sproporzionato. Il risultato non è quello che ci si aspettava, più tempo libero per tutti, ma una accelerazione ancora più grande nello spazio-tempo capitalista, per gli uni, e una disoccupazione strutturale e di massa, per gli altri. Però, la disoccupazione nel capitalismo non è tempo libero, ma tempo di penuria. Gli esclusi dell’accelerazione vuota non guadagnano in ozio, ma piuttosto vengono definiti come non-umani in potenza. Così, dopo l’utopia del lavoro, anche l’utopia del tempo libero ha fatto fallimento. Non è attraverso la scorciatoia di un’espansione del tempo libero orientato al consumo di merci che può essere contenuto il terrore dell’economia senza freni, ma solo grazie all’assorbimento del lavoro e del tempo libero scissi, in una cultura che li abbracci entrambi, senza la ferocia della concorrenza. La strada verso l’ozio passa attraverso la liberazione dalla forma temporale capitalista.»

3. Il concetto di antisemitismo strutturale meriterebbe senz’altro una trattazione a parte. In buona sintesi, Robert Kurz e comunque la scuola di pensiero della Wertkritik intendono bollare, con questa definizione, tutte le interpretazioni “decurtate” (sempre per usare il loro linguaggio) della crisi capitalistica, quelle cioè che non ne individuano le cause nella struttura autodistruttiva del sistema stesso, ma in qualche agente esterno, generalmente pensato come cinico, avido ed egoista, che opererebbe più o meno nell’ombra per generare e favorire le crisi capitalistiche allo scopo di trarne vantaggio. Questo tipo di lettura, oltre a prestarsi alle peggiori elucubrazioni, finisce spesso per favorire quel sistema che pretenderebbe di attaccare, fornendogli giustificazioni e punti di appoggio che distraggono da quello che è il vero problema, cioè il sistema capitalistico stesso. Se per esempio si dà la colpa della crisi economica all’Europa e alle sue leggi, presupponendo che la vecchia sovranità nazionale e monetaria sarebbe la soluzione di tutti i mali, o alla finanza che soffocherebbe, coi suoi giochi speculativi, l’altrimenti buona e produttiva economia reale, o della disoccupazione ai pigri e agli indolenti, delle politiche di austerity al fatto che “avremmo vissuto al di sopra delle nostra possibilità” e via discorrendo, non facciamo altro che fornire al sistema armi di distrazione di massa e facili via d’uscita, senza mai arrivare al nocciolo della questione, che è la necessaria messa in discussione del sistema stesso. In un certo senso, è come guardare il dito invece della Luna. Ma specialmente di questi tempi, sarebbe molto importante mettere a fuoco il problema principale, e non lasciarsi ingannare da letture “monche” e, appunto, spesso pure utili al sistema. A questo proposito, cfr l’articolo di Robert Kurz L’economia politica dell’antisemitismo e questi passaggi sempre di Robert Kurz, tratti dal libro das Welkapital, tr.it. Il capitale mondo, Meltemi 2022, libro all’interno del quale dedica un intero paragrafo alla questione dell’antisemitismo strutturale: «In un certo qual modo il concetto di antisemitismo strutturale andrebbe interpretato in maniera analoga a quello di violenza strutturale. Definiamo antisemiti coloro che si esprimono in termini antisemiti. Ma non possiamo apostrofare nessuno come “antisemita strutturale”. Né si può intendere con questo termine un antisemitismo mascherato o represso, troppo pavido per dichiararsi apertamente dopo Auschwitz, magari perché sarebbe deleterio per la propria carriera politica (anche se nel frattempo la soglia di inibizione si è abbassata sempre di più), né tantomeno il famigerato (palese o latente) antisemitismo non nonostante Auschwitz, ma a causa di Auschwitz etc. Si tratta pur sempre di differenti posizionamenti all’interno dell’antisemitismo generico. L’antisemitismo strutturale è invece qualcosa di diverso: consiste di strutture discorsive ideologiche che si pongono a fondamento dell’antisemitismo. Non è un concetto denunciatorio, bensì analitico» (p.390); «…nel caso del concetto di antisemitismo strutturale, non abbiamo a che fare con strutture riproduttive sociali oggettive, oppure con le loro conseguenze e con i loro effetti collaterali, ma con strutture ideologiche discorsive» (p.397); «Sostanzialmente i critici riducono il capitalismo al capitale finanziario e alle macchinazioni figlie della malvagia volontà soggettiva dei “pescecani finanziari” e dei “drogati di profitto”, invocando come alternativa l’onesta (meglio ancora se piccola) produzione di merci, basata sull’onesto lavoro, creando in questo modo un “antisemitismo strutturale” neo-piccoloborghese, in grado di fare breccia fin nel discorso del marxismo tradizionale e che si arricchisce dei più diversi classici stereotipi antisemiti, fino al risentimento anti-intellettuale e all’intolleranza nei confronti della teoria.» (p.412)

4. Alastair Hemmens, The Critique of Work in Modern French Thought. From Charles Fourier to Guy Debord, Palgrave Macmillan, Cham, London 2019; tr.fr. Ne travaillez jamais. La critique du travail en France de Charles Fourier à Guy Debord, Éditions Crise & Critique, Paris 2019. La traduzione italiana non esiste ancora. Per avere un’idea dei contenuti del libro, può essere utile questa bella recensione: https://operavivamagazine.org/ne-travaillez-jamais/.

Anselm Jappe

Anselm Jappe (1962) filosofo di origine tedesca, ha studiato a Roma, dove si è laureato con Mario Perniola, e a Parigi. Insegna Estetica all’Accademia delle Belle Arti di Roma. Ha tenuto conferenze in molte Università europee e latinoamericane. Ha pubblicato nel 1993 la prima monografia su Guy Debord e ha continuato ad occuparsi dei situazionisti. È uno dei maggiori interpreti della «critica del valore».


Massimo Maggini

Vive a Livorno e si occupa da molti anni dei temi del lavoro e della trasformazione sociale. Collabora coi movimenti per l’ambiente e per le lotte sociali.

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