Come Il Collasso della modernizzazione di Robert Kurz possa ancora insegnarci qualcosa del presente.
Il crollo del socialismo reale segnò davvero la fine di un’epoca? Con questa domanda, dall’aspetto docile come un pranzo in famiglia, si apre Il collasso della modernizzazione di Robert Kurz, un libro così spiazzante che sono stati necessari ventisei anni di difficoltosa digestione (il libro uscì in Germania nel 1991), e una crisi economica mondiale –largamente prevista dall’autore – perché qualcuno si convincesse a concedergli finalmente la pubblicazione anche in Italia.
Ventisei anni in cui, quasi di nascosto, le analisi di Kurz si sono nutrite di conferme, sono diventate ingombranti – impossibile ormai non notarle – giganti paradossali: anacronistiche alla nascita, si sono fatte attuali invecchiando; costruite sui rottami della dissoluzione sovietica, sembrano nuove rispetto agli edifici teorici appena costruiti, già pieni di crepe e infiltrazioni; dedotte da un reperto archeologico, la teoria del valore di Marx, che era stato considerato ferro vecchio persino dai marxisti, hanno l’ambizione di spiegare la contemporaneità; pensate infine come un attacco senza precedenti alla modernità capitalista, propongono una definizione di anticapitalismo così stringente, netta, da ridurre l’insieme degli anticapitalisti contemporanei all’insieme vuoto. “Nessuna rivoluzione, da nessuna parte”, recita il titolo di uno degli articoli di Kurz.
Ma torniamo alla questione: la fine del presunto “conflitto sistemico” tra Est e Ovest segnò la fine di un’era? Sì, risponde Kurz. Ma quale era?
Secondo il “florilegio delle citazioni giornalistiche” che si sono accatastate dal 1989 fino ad oggi, si tratterebbe dell’era dell’“economia di stato” dell’Unione Sovietica e delle regioni subordinate. Un’era consegnata alla Storia dalla malizia dei politici e degli imprenditori occidentali. Ma allora, obietta Kurz, perché fra quei trionfatori non ci fu traccia di autocoscienza? Perché le classi dirigenti occidentali furono “colte alla sprovvista dal crollo del loro acerrimo nemico (…) proprio come le gerontocrazie socialiste stesse”?
La verità “balena”, secondo Kurz, dietro il profilo nero di questa cecità condivisa. Est e Ovest procedevano insieme nel buio, prima che l’Est sbattesse per primo contro il crollo, perché entrambi condividevano lo stesso fondamento e la stessa ontologia, l’ontologia della modernità. Est e Ovest hanno rappresentato soltanto, in una determinata fase, i due poli -stato e mercato- che il capitalismo alterna sempre, in una continua oscillazione, per adattarsi alle diverse situazioni storiche e geopolitiche.
La miopia teorica è dunque fondata, secondo Kurz, sull’ontologia che il pensiero economico e quello politico moderno – di qualsiasi colore – sono disposti ad accettare, un’ontologia basata su un’inversione tra relazioni sociali e fatti di natura che ha lo stesso statuto scientifico della scolastica medievale. Banalmente, una peculiarità storica della società moderna viene presentata “come una qualità sovrastorica dell’uomo”. Così il lavoro salariato moderno, impiego di forza-lavoro, energia e materie prime secondo i criteri dell’economia aziendale, diventa una categoria eterna. La merce moderna, “completamente diversa dalla merce delle società premoderne”, il valore economico, il denaro come “cosa astratta” vengono considerati, anche dalla scienza economica, come fatti di natura da cui partire. Robinsonate, avrebbe detto Marx.
Ebbene, proprio gli oggetti definiti da questa ontologia erano il fondamento comune al capitalismo occidentale e al socialismo: per entrambi, esemplarmente, il “lavoro” era il principio supremo e indiscutibile.
Il mercato pianificato dell’Est – che non soltanto non fu mai anticapitalista, ma fu piuttosto un aspetto del sistema della merce nella fase della sua “travolgente ascesa”- non abolì, né mai avrebbe potuto abolire le categorie del salario, del prezzo, del profitto: si limitò ad abolire il meccanismo regolatore della concorrenza. E questo per solide ragioni storiche.
“L’umanità”, diceva Marx, “non si propone se non quei problemi che può risolvere”, e all’indomani della prima guerra mondiale, soprattutto in Russia, non potevano ancora essere risolti i problemi posti dal superamento del capitalismo. All’ordine del giorno c’era, piuttosto, per Kurz, “l’esigenza di un suo ulteriore avanzamento”. “L’alternativa”, per la Russia, “sarebbe stata solo il regresso a forme sociali di tipo agrario, caratterizzate da povertà di bisogni e rozzezza premoderna”. Un’alternativa che i bolscevichi consideravano – al contrario dei fondamentalisti ecologisti di oggi – giustamente demenziale.
Che cosa fu dunque il socialismo reale? Un “fossile”, un regime di transizione brutale, tipico di un paese arcaico, verso la modernità. Un processo non dissimile dall’accumulazione originaria verificatasi in Inghilterra nel periodo precedente alla sua industrializzazione. Una maschera di carattere arrivata in ritardo sulla scena. E nessuna rivoluzione proletaria in occidente, come credeva ingenuamente Trotskji, avrebbe potuto cambiare le cose: la rivoluzione non scoppiò mai in occidente perché i metodi della modernizzazione in ritardo sono inutili, e vengono abbandonati, dove lo sviluppo è già avanzato.
Nel “catalogo sterminato delle opere di Lenin – rileva Kurz – non si trova traccia della critica del valore economico, né della critica del feticismo di Marx”. Ecco perché l’intuizione dei menscevichi, secondo la quale la rivoluzione russa aveva un carattere “oggettivamente borghese”, era corretta “al di là delle loro intenzioni”.
La dissoluzione del socialismo sovietico non fu causata, allora, dai nemici capitalisti, ma “dal drammatico fallimento”, accelerato dal ritardo mai colmato, “dei suoi stessi meccanismi interni”. Gli stessi che minacciano oggi larga parte dell’occidente: gli stessi che impongono alla società, da un lato, un enorme aumento della produttività che porta all’espulsione dei lavoratori dal processo di produzione e, dall’altro, alla dipendenza assoluta del sistema proprio da quel lavoro che la sua stessa logica rende ogni giorno più superfluo. Questo fallimento ha messo oggi, secondo Kurz, l’umanità in grado di “risolvere” il problema del capitalismo. Risolvere non è sempre un vantaggio.
Kurz prevede nel libro un’apocalisse fatta di “umanità superflua” e di barbarie che si è in parte già verificata: “la spartizione della sempre più esigua massa di valore”, scrive, causerà tensioni e operazioni di polizia internazionale, “il fondamentalismo islamico conquisterà il potere” in molti paesi, “e non è affatto da escludere che possa entrare in possesso di ordigni atomici”. “Ben presto non vi sarà più una sola regione della Terra che non sia allo stesso tempo una regione di profughi”.
Ma di una cosa, secondo Kurz, si può essere certi, prima del crollo “la crisi causerà una nuova oscillazione storica dal polo monetarista a quello statalista, anche in occidente”, dove i due poli hanno assunto tradizionalmente la forma dello stato sociale keynesiano e del monetarismo. Si può dare, anche su questo punto, ragione a Kurz?
Le tendenze teoriche più in voga, anche fra i sedicenti “anticapitalisti”, sono incentrate sul ritorno del “primato del politico sull’economia”, questo evergreen della coscienza borghese, come lo definisce Kurz.
La “politica” moderna, che è solo un’anonima gestione statale del denaro creato nel processo di produzione, si dà oggi arie da Soggetto, si imbuca alle feste della storia dove dà del “tu” a tradizioni politiche che non sanno proprio chi sia e fanno finta di non vederla.
«Tutto ciò che fa lo Stato tramite la politica – spiegava già Kurz in un altro suo testo, La fine della politica –, lo deve fare con il mezzo del mercato (…) la sfera politica e statale non può creare autonomamente denaro (…) tutte le sue decisioni, risoluzioni e leggi (…) rimangono completamente inefficaci, se il loro funzionamento non è stato “guadagnato” regolarmente nel processo di mercato». L’autonomia della politica dall’economia è un ossimoro.
Se nei paesi dell’Est, la pianificazione “razionale” imposta da una struttura statalista di comando riuscì soltanto, prima di crollare, a sostituire la concorrenza di mercato con una ridicola “concorrenza verso la dissipazione”, testimoniata dai resoconti dell’epoca: “vengono sperperati il 20% del cemento, un quarto dei prodotti agricoli e metà del legname”, “siccome la produzione di lampadari viene valutata dal loro peso, esso aumenta in maniera non necessaria (…) siccome la stoffa viene misurata secondo la lunghezza, risulta sempre troppo stretta”.
Se il grande “stato razionale”, tutto nelle mani della “politica”, il sogno di Fichte realizzato, si rivelò, dal punto di vista economico, “un fordismo-bonsai (…) il cui simbolo erano (…) le maleodoranti automobili nane dell’industria tedesco-orientale”; da quello antropologico, una squallida caserma da cui orde di deprivati fuggirono, una volta aperte le frontiere verso occidente, soltanto per prendere “d’assalto le edicole delle città di frontiera per saccheggiare riviste pornografiche e scandalistiche”.
Allora i sostenitori del primato del politico sull’economia non sono anticapitalisti, ci dice Kurz, sono solo “idioti storici”.
Ma, allora, chi può definirsi anticapitalista? Soltanto chi rifiuti le basi della struttura sociale: la produzione di merci, il lavoro salariato, il denaro, lo stato, la politica moderna, liberale o populista che sia, il mercato. È una posizione che ha un solo nome: rivoluzione. Ma chi, oggi, tra chi si ritiene anticapitalista, sostiene davvero una posizione del genere?
Questo articolo è uscito per la prima volta sulla rivista Alfabeta2 con il titolo “L’anticapitalismo degli idioti storici”:
https://www.alfabeta2.it/2018/02/11/lanticapitalismo-degli-idioti-storici/
Un commento