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La critica radicale del lavoro e la sua incompatibilità strutturale con il principio spettacolare

Presentiamo uno scritto del 2016 di Benoît Bohy-Bunel1(originale francese qui) che ci sembra inquadri la questione del lavoro in modo appropriato, cioè come dispositivo che si caratterizza storicamente, e non come fattore trans-storico e naturale sic et simpliciter – lettura, quest’ultima, che comporta un’irreversibile ontologizzazione della categoria “lavoro”, rendendo dunque ogni idea sulla sua abolizione semplicemente folle2.
Sulla questione del lavoro la corrente internazionale della Critica del Valore, riprendendo il famoso Marx “esoterico”3, afferma chiaramente e – a nostro avviso – giustamente, come si tratti di una problematica che sorge in un determinato momento (e contesto) storico, quello in cui prende forma il sistema sociale conosciuto come “capitalismo”. Soltanto nel modo di produzione capitalistico, infatti, la categoria “lavoro” appiattisce e generalizza a sé le ampie, varie e ben più complesse sfere dell’attività umana. Soltanto nel modo di produzione capitalistico tutta la “sintesi sociale” è uniformata nel “lavoro”. Lavoro e capitalismo, lungi da essere veramente antagonisti, sono due facce di una stessa medaglia, e non potranno che estinguersi insieme. Detto ancora altrimenti, finché ci sarà “lavoro”, ci sarà anche capitalismo. La persistenza del “lavoro” va dunque interpretata come un segnale inequivocabile della “resilienza” (per usare un termine alla moda) del sistema del capitale.
Si tratta di capire, oggi, che fine abbia fatto il lavoro, quello “astratto” e produttivo per il capitalismo di cui parla l’articolo. Se, cioè, oggi questo tipo di lavoro esista ancora in misura sufficiente da soddisfare le brame capitalistiche, oppure – a causa della produttività a traino “microelettronico”, per dirla con Kurz – non sia di fatto stato “superato” dallo stesso sistema a cui appartiene, e ciò che ne resta sia un simulacro, tenuto in vita con inalazioni forzate di ossigeno sempre più rarefatto.
Detto per inciso, questo famoso “lavoro astratto”, che viene interpretato come parte ineliminabile del lavoro stesso (composto, scolasticamente, da una parte “concreta” – il tavolo costruito per mangiare – ed una “astratta” – il tavolo costruito per fare soldi), è possibile e reale solo nel capitalismo. Solo qui, infatti, questa “astrazione” diventa vera, si traduce cioè in una “astrazione concreta” che riduce tutto l’esistente a merce valorizzabile monetariamente, per il feticistico fine in sé dell’accumulo permanente e crescente di denaro, che vorrebbe essere infinito e illimitato. Al di fuori del capitalismo, è il caso di ribadirlo, non c’è lavoro (“astratto”, ma potremmo anche evitare questa aggettivazione). C’è un operare, che crea cose e saperi, ma non un “lavoro”, cioè quell’attività dolorosa che non bada al contenuto materiale del proprio agire ma solo al fine tautologico della “valorizzazione del valore”, un’attività al servizio di mercati anonimi, anch’essa merce (speciale, in quanto genera plusvalore) fra le merci, “sfera di attività eterodiretta, incondizionata, irrelata, meccanica, separata dal resto del tessuto sociale, una sfera che obbedisce a un’astratta razionalità finalistica ‘aziendale’ che non tiene conto dei bisogni” (Manifesto contro il lavoro, Mimesis 2023).
Contro questo “lavoro” è stato scritto questo articolo. Contro questo “lavoro” abbiamo dunque deciso di tradurlo. Contro questo “lavoro”, e il suo gemello, il “capitale”, sarà necessario che si muovano e mobilitino i movimenti del prossimo futuro, per aprire una strada di emancipazione sociale reale. Questa emancipazione dovrà certo guardare a tutte quelle rivendicazioni immediate di miglioramento delle sempre più precarie e insopportabili condizioni lavorative che ci attanagliano nel quotidiano, ma tenendo presente che è al livello del modo di produzione, e non di circolazione/redistribuzione, che si gioca la battaglia principale.
(Massimo Maggini, Afshin Kaveh – maggio 2024)


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La critica radicale del lavoro e la sua incompatibilità strutturale con il principio spettacolare
Benoit Bohy-Bunel

I. La legittimità teorica e pratica della critica radicale del lavoro

Nella filosofia di Hegel (dialettica del signore e del servo), nella filosofia kantiana (Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica) e, più tardi, nella filosofia arendtiana (La crisi della cultura: nella società e nella politica; Vita Activa. La condizione umana), per citare tre contributi importanti nella moderna filosofia del lavoro, il concetto di lavoro è confuso con un puro e semplice metabolismo con la natura, vale a dire con l’atto di trasformare le materie prime presenti in natura in vista della sopravvivenza.
Adesso, questa essenzializzazione della categoria del lavoro, definita come categoria trans-storica, la ritroviamo innanzitutto nei discorsi ideologici degli economisti “borghesi”, che hanno tutti gli interessi a naturalizzare le forme strutturali del sistema capitalista per affermare il pregiudizio secondo cui questo sarebbe insuperabile. In effetti, nel loro contesto teorico, presentare il lavoro come una dimensione arcaica od originaria della vita umana, come un’attività propria dell’essere umano in generale, come una componente originale di tutta la sopravvivenza umana in generale, è un modo insidioso di presentare la moderna società della merce [société marchande], che ha fatto di questo lavoro il proprio principio di sintesi totalizzante, come il compimento logico del “destino” dell’uomo.
Certo, la loro illusione non è senza antecedenti: oltre alle filosofie kantiane e hegeliane essi, sullo sfondo, hanno dalla propria parte l’etica protestante del lavoro, grande impresa teologico-politica di ontologizzazione del lavoro, ma anche e soprattutto, più a monte, il mito biblico del peccato originale che condanna l’uomo a “lavorare”; si può parlare anche del “lavoro” del parto4, dal punto di vista di Eva.
Ciò detto, questa eminente tradizione non deve spaventarci: di fatto il lavoro, o piuttosto, l’idea astratta di lavoro in generale che apporta degli effetti concreti nella realtà della produzione capitalista, è storicamente determinata, dunque non può pretendere lo statuto di struttura universale e astorica. La categoria del lavoro tout court, del lavoro sans phrase, è: contingente, relativa, propria alla modernità della merce [modernité marchande], ed essa deve essere superata e abolita, almeno nella misura in cui induce sistematicamente un’alienazione che reifica e mutila la qualità delle vite e delle coscienze umane.
Ora, brevemente, mostriamo questo fatto.
Attraverso la critica marxiana del valore (prima sezione de Il Capitale, Libro primo), appare che la merce, il bene o il servizio in forma di merce [le bien ou le service marchand], si duplica in due dimensioni che certo si associano ad una stessa realtà (l’accumulazione capitalista) ma che è possibile separare per astrazione: la merce è, da una parte, valore d’uso, concreto; essa possiede, come cosa materiale, un’utilità concreta nella vita di tutti i giorni. Dall’altra parte, è valore, astratto: essa contiene, in modo ideale, non materiale, la sostanza comune delle merci che le rende commensurabili e, di conseguenza, scambiabili tra loro. Una tale dualità nel modo di considerare i prodotti del lavoro implica un’altra dualità, questa volta concernente il lavoro stesso: la merce come valore d’uso è prodotta dal lavoro concreto, dal lavoro particolare e individuale che rinvia ad un’attività qualitativa determinata, con i suoi gesti e i suoi compiti specifici, e il fatto che la merce possieda un “valore”, nel senso economico, dipende dalla facoltà del lavoro di essere reso astratto, di diventare una pura durata quantitativamente determinata, privata di qualsiasi qualità e di qualsiasi specificità; parleremo di “tempo di lavoro socialmente necessario”, o di standard di produttività media, che sarà dunque, come norma ideale, all’origine del “valore” dei beni e dei servizi in forma di merce. Vi è perciò un’opposizione interna allo stesso lavoro produttore di merci, poiché si divide in lavoro concreto e lavoro astratto, un’opposizione che deriva da quest’altra opposizione primordiale: quella tra il valore d’uso e il “valore” (economico) delle merci.
Nella società della merce [société marchande], la finalità e lo scopo della “produzione” verrà imposta dai capitalisti, mirando innanzitutto alla conservazione del “valore” nella circolazione per il suo accrescimento (D-M-D’): il salariato non sarà quindi il fattore determinante dei fini produttivi, in quanto sarà soltanto un “male necessario”, un “puro mezzo” all’interno di questo processo di valorizzazione, e il consumatore sarà solo l’ultimo anello della catena, totalmente passivo, accontentandosi di ciò che gli viene “messo a disposizione”. Questa finalità astratta e feticizzata, questo spettacolo del valore, “non tramonta mai sull’impero della passività moderna”5, non è la creazione consapevole e controllata di beni d’uso che possiedono una qualità oppure una “virtù” sociale reale, ma piuttosto l’accumulazione di tempo di lavoro quantitativamente determinato, di “lavoro astratto”, la cui manifestazione materiale, tangibile e mondana, è il denaro.
Una tale accumulazione è resa possibile dal fatto che esiste un “fattore di produzione”, una “merce”, “eminente”, che rende possibile l’aumento del “valore” economico nel processo stesso della circolazione: parliamo precisamente della forza-lavoro. In effetti il plusvalore non esiste che nella misura in cui il lavoro vivo, attraverso questa forza-lavoro, viene sfruttato: l’individuo che lavora riceve una quantità di valore (un salario) che gli permette di “riprodurre” la propria forza-lavoro, di sopravvivere per lavorare, ma egli stesso produrrà per il capitalista più valore di quello che riceve. Per profitto si intende quindi il furto, in senso stretto, o gratuità obbligata, di una determinata porzione di tempo di lavoro salariato.
Per riassumere, il sistema capitalista inventa, costruisce, appoggiandosi al di sopra di un’antropologia teologico-politica moderna (protestantesimo), la categoria del lavoro “in generale”, del lavoro tout court, nella misura in cui ha bisogno di una determinazione astratta del lavoro, non soltanto per rendere scambiabili tra loro le merci prodotte (mezzi della valorizzazione), ma anche e soprattutto perché la cosa stessa che accumula, per la quale mira al suo costante aumento, che dà un senso allo sfruttamento in quanto tale, è il lavoro astratto (la finalità ultima della produzione).
Di fatto, senza lavoro “in generale”, senza lavoro “tout court”, non c’è “valore” economico, ed è facile da capire: perché è esso che, in quanto norma ideale che si materializza, rende pensabile e possibile l’accumulazione del valore, del capitale e la determinazione del profitto.
Esaminiamo brevemente i sistemi precapitalisti, schiavistici o feudali, per mostrare, con ancora più precisione, in cosa il lavoro “tout court” sia effettivamente una categoria capitalista, storicamente determinata e che, in quanto tale, non esiste in altri tipi di società. Nelle società precapitaliste, come già mostrato da Marx nel primo capitolo de Il capitale, l’attività produttiva e riproduttiva era sociale, materializzava degli oggetti che venivano scambiati, che possedevano un’utilità sociale, ma nella misura in cui l’attività era concreta e determinata e nella misura in cui esistevano dei rapporti personalizzati, concreti, tra gli agenti che dirigevano la produzione e coloro che la realizzavano, rapporti che non cancellavano la specificità e la qualità particolare dell’attività svolta. Certo, lo scambio non era egualitario: si dirà, naturalmente, che il signore dominava e sottometteva o che “sfruttava” il servo, oppure che il padrone soggiogava lo schiavo, il che significa che, strutturalmente, non c’è nulla di “positivo” in tali sistemi, nulla che oggi dovrebbe essere “riabilitato”. Tuttavia, la finalità delle attività produttive in questi contesti, non escludeva le qualità e il carattere determinato, concreto, di ciò che veniva prodotto. La mediazione monetaria, ancora marginale, non strutturale, funzionava allora come un puro mezzo, un mezzo per scambiare merci e fissarne il prezzo (M-D-M), ma mai come un fine in sé, essendo il denaro come fine in sé una caratteristica propria del solo capitalismo (D-M-D’), denaro teleologico per mezzo del quale il capitalismo dispiega, secondo una specificità impersonale che fondamentalmente gli appartiene, le sue categorie astratte totalizzanti e totalitarie (merce, valore, lavoro astratto).
Nelle società precapitalistiche, questa concezione non avrebbe mai potuto far germogliare nello spirito delle persone l’idea di poter pensare socialmente la “sintesi” di due attività così diverse come, ad esempio, il fatto di fare il pane da una parte o di comporre un brano musicale dall’altra, per sussumerle sotto un unico e medesimo concetto, lavoro “in generale” e, di conseguenza, neanche produrre effetti reali nella produzione e nella circolazione dei beni. Per queste società vi erano soltanto attività specifiche, concrete, utili, aprioristicamente incommensurabili tra loro.
Queste società pre-capitaliste essenzialmente presentavano una sintesi della socialità che non dipendeva dall’“economia”, dal “settore produttivo” o dal “lavoro astratto”, ma da forme religiose e patriarcali arcaiche, dando forma ad una complessità che ci sfugge ancora oggi. Retroproiettare le nostre categorie moderne su queste società premoderne rappresenta sempre e comunque un anacronismo illegittimo, prima di tutto dal punto di vista epistemologico. Politicamente, coloro che operano questa retroproiezione tendono a diffondere l’illusione secondo la quale le specifiche strutture moderne di dominio siano insuperabili, in quanto trans-storiche: per una ragione politica, quindi, sarà necessario denunciare un pernicioso pregiudizio epistemologico che prolifera oggigiorno un po’ dovunque (anche e soprattutto tra certi “marxisti” ortodossi che, con un certo Marx “essoterico”, non mettono più in discussione la loro antropologia protestante, né, dunque, la loro sottomissione alle valutazioni trascendentali del capitalismo in quanto tale).
Dopo questi chiarimenti, si potrebbe accettare il fatto che il lavoro “in generale” non è “proprio dell’uomo”. In altre parole, Hegel, Kant, Arendt, il protestantesimo, il mito del peccato originale e persino un certo Marx “essoterico”, “engelsiano” (Manifesto del Partito Comunista), o anche il Giovane hegeliano (Manoscritti del ’44), tutti accomunati dall’essenzializzazione “del” lavoro, in realtà non si riferivano al lavoro propriamente detto, che invece emerge specificamente all’interno della modernità capitalista, ma piuttosto alla creazione umana delle stesse condizioni di vita umana, cosa, quest’ultima, che rimane a priori plurale, specifica, concreta, eterogenea e qualitativa, e che viene ridotta ad unità intelligibile concettuale e astratta solo in modo mutilante, riduttivo, ingannevole e, in definitiva, alienante.
Tuttavia, vediamo già formularsi una certa “obiezione”: si potrebbe dire che il concetto di “lavoro” e la sua stessa realtà fanno comunque parte di una tradizione millenaria. Il “lavoro” è infatti associato, etimologicamente, al latino tripalium, strumento di tortura romano a tre pali. Ma questo modo “originale” di guardare al “lavoro” non assume ancora la nozione di “lavoro in generale”, di “lavoro tout court”, definito come progetto sintetico e totale, materiale e astratto, per la società, cioè la stessa nozione che abbiamo prima indicato come storicamente determinata, propriamente moderna, contingente e quindi, in quanto tale, superabile sia di fatto che di diritto.
In altre parole, il capitalismo porta al tripalium romano la sua consacrazione a posteriori, lo rivela nella sua potenzialità più propria: rappresentare un puro dispendio di energia indifferenziata, la cui unica caratteristica concreta è il dolore, l’umiliazione, la disumanizzazione e la continua sottomissione ai feticci non umani, o ai loro gestori inconsapevoli ed incoerenti.

II. Il carattere impercettibile della critica radicale del lavoro all’interno dello spettacolo

A priori, la critica radicale del lavoro non è formulata da “terroristi” assetati di sangue, né da utopisti del tutto inconsistenti. Si tratta di una critica fondata teoricamente (prima sezione de Il capitale) ed eticamente (critica della miseria, dell’alienazione e dello sfruttamento, a livello globale, che coinvolge forme di resistenza che non prevedono violenza contro le persone, come il sabotaggio, l’occupazione, il blocco, lo sciopero generale a oltranza, oppure il disimpegno dal lavoro).
Ma il suo complesso sviluppo richiede forse troppo tempo e ascolto attivo, troppa riflessione e messa in discussione di una doxa politicamente accettata, per essere inserita negli organi massivi di diffusione mediatica.
Alcuni cosiddetti “marxisti”, o critici del “neoliberismo”, di sinistra o di estrema sinistra, del Nouveau Parti Anticapitaliste, di Lutte Ouvrière, del PCF, o del Front de Gauche6, di Podemos o di SY.RIZ.A., keynesiani, trotskisti, maoisti, leninisti o stalinisti, se hanno accesso alla diffusione mediatica (e questo non è mai troppo difficile per loro) non metteranno mai in discussione l’idea che il “lavoro” in quanto tale sia un dato insormontabile: al massimo vogliono riformare radicalmente le condizioni del lavoro, o collettivizzare gli strumenti del lavoro (chiamando tutto ciò “rivoluzione” o “Grand soir”), ma non metteranno mai in discussione il loro debito impensato nei confronti dell’ontologia protestante o borghese (“laborismo”, “biologismo” o “produttivismo”). Il Marx della Critica del programma di Gotha confuterebbe radicalmente la loro concezione formale-borghese della “retribuzione egualitaria”, ma non se ne preoccupano affatto: il nome di Marx è per loro nient’altro che un “baluardo”, un “significante” ridotto a semplicità faticosa, e non una fedeltà a un testo complesso, che sarà, peraltro, ai margini della storia, più di quella singola specifica opera. “Gli oziosi troveranno alloggio altrove”, possono affermare, magari adulando paternalisticamente la “Francia che si alza presto” (un populismo che Sarkozy, per inciso, non rinnega).
Questo laburismo, ovvero questa idea del lavoro “da difendere” (e soprattutto da non abolire), è ovviamente l’ideologia dominante anche in ambito neoliberale, o social-liberale, “repubblicano” o fascista, dal Parti Socialiste al Front National7, passando per i “repubblicani”.
Un consenso non problematizzato che attraversa tutto il campo politico dall’estrema sinistra all’estrema destra, si afferma in questo spettacolo della politica politichese8, che detiene il monopolio della “critica” e dell’analisi “economica” e “sociale”. Questo consenso è dunque “lavorismo”, nel senso categoriale del termine, cioè l’idea che il capitalismo in quanto tale, fondamentalmente inteso, non dovrà mai essere messo in discussione nel suo essere, poiché sarebbe eterno, e quindi insuperabile.
Chiunque critichi radicalmente il lavoro “tout court” oggi è spesso visto anche come un puro e semplice idiota, che non tiene conto delle necessità elementari legate alla sopravvivenza umana o alla condizione umana. Produrrebbe dunque un discorso a dir poco assurdo. Ma non è lui ad essere in torto, anche se dovrebbe essere il più chiaro possibile. È piuttosto il successo di un progetto sociale totale, che ha saputo ridurre tutte le attività “sociali” in generale ad un’unica determinazione astratta (“lavoro”), che si afferma nel modo in cui il critico “anti-lavoro” viene a priori screditato, e non solo dai suoi avversari “liberali” ma anche da certi “anticapitalisti” che dovrebbero essere suoi “alleati” (“marxisti”, “collettivisti”, “anarchici” che invocano l’autogestione delle “merci” per i “lavoratori”, e così via).

Contro gli eccessi di queste semplificazioni sarà necessario ricordare alcuni fatti fondamentali:

1) La critica del lavoro non sostiene, come in Lafargue, in modo semplicistico e ingenuo, un generalizzato “diritto alla pigrizia”. Al contrario, ritiene che la vera pigrizia, subita e riduttiva, sia da ricercarsi nella sempre maggiore specializzazione indotta dalla categoria del lavoro “tout court”, poiché l’individuo qui “al lavoro”, frammentato e dislocato, oggettivamente e soggettivamente, svilupperà ossessivamente solo una delle sue potenzialità soggettive, a discapito di tutte le altre (creativa, teorica, pragmatica, ecc.). Una società che non sia più governata dall’astrazione del “lavoro tout court” consentirà ad ogni individuo una piena realizzazione nella sua attività che sarà socialmente virtuosa, un’attività che non creerà più una “rottura” qualitativa rispetto al resto del tempo della vita (studi, creazioni, amicizie, ecc.), e che non escluderà più uno sviluppo di molteplici virtualità, una completa realizzazione di se stessi.
2) La critica del lavoro non guarda ad un mondo post-capitalista “governato” da tecnologie che fanno “tutto al nostro posto”. La puntuale abolizione del diritto formale il quale, garantendo la proprietà privata, rende possibile lo sfruttamento e che, quindi, presuppone la determinazione del lavoro astratto come “valore” economico, induce un rapporto radicalmente modificato con gli strumenti tecnici, che non è più passivo o contemplativo, ma attivamente coinvolto. Questa implicazione condiziona una nuova cura per quanto riguarda la creazione materiale, e anche tecnica, delle condizioni di vita, che non abolisce il fare-operare in quanto tale, ma ne abolisce il carattere costrittivo e reificante, spossessante in quanto tale.
3) La critica del lavoro non abolisce gli sforzi umani qualitativamente determinati, ma abolisce lo “sforzo in sé”, come “valore” negativo e astratto, come zona di non-vita, di miseria e di soppressione della vita nella vita.
4) La critica del lavoro auspica un mondo in cui non sia più la dimensione indifferenziata, astratta, non specifica delle attività umane ad essere valorizzata socialmente, ma in cui sia la loro dimensione qualitativa e concreta che conta, che importa. Per un capitalista che guarda soltanto ad una quantità astratta di “tempo di lavoro”, la distinzione, per esempio, tra una bomba e un libro come merci ha senso solo da questo punto di vista quantitativo e disincarnato; questo capitalista non considera nemmeno per un secondo il fatto che la prima, come valore d’uso, distrugge concretamente il mondo e i suoi viventi, mentre il secondo, potenzialmente, arricchisce realmente le soggettività. Criticare il lavoro come astrazione significa, in senso stretto, criticare la cecità radicale delle nostre società delle merci nei confronti della dimensione concreta e reale della ricchezza sociale.
5) La critica del lavoro mira ad una reale uguaglianza e ad una reale emancipazione. Gli strumenti tecnici, anche se trasformati, non permetteranno mai agli individui di liberarsi dalla miseria, e non permetteranno mai l’abolizione delle disuguaglianze reali nell’accesso alle risorse di base, finché il valore “economico”, che regola e rende possibile la produzione in senso capitalistico, avrà come sostanza il lavoro astratto. Poiché è attraverso questa sostanza, o norma ideale materializzata, che lo sfruttamento diventa assolutamente necessario, sviluppandosi nella precarietà che lo accompagna. L’abolizione del lavoro astratto, che significa anche l’abolizione di un principio giuridico-formale totalitario, potrebbe consentire agli umani di beneficiare di una trasmutazione radicale degli strumenti tecnici, in modo che non dominino più gli individui per dislocarli e dividerli, ma per emanciparli ulteriormente dal lavoro massacrante, qualunque esso sia.

Questi argomenti, di per sé, non sono astrusi, o “eccessivi”: non è “eccessivo” voler fermare, ad esempio, l’equiparazione degli strumenti di distruzione e degli strumenti di emancipazione potenziale, per poter abolire i primi. Ma sviluppare questi argomenti in un sistema spettacolare, in cui la politica politichese rende vana ogni critica alle radici del “progetto” che sostiene, è davvero impensabile.
Legittimità teorica e pratica di una critica radicale del capitalismo, natura impercettibile di questa critica nello spettacolo, in cui ogni “messaggio” che voglia essere diffuso in modo “efficace” sembra “doversi” manifestare: la tensione incombe.
Ma questa tensione è solo apparente. Perché, a dire il vero, non sarà mai auspicabile inscrivere questi approcci radicali nello spettacolare integrato e integrante, che li volge a proprio vantaggio. Questo isolamento potrebbe anche essere un modo strategico di avanzare “mascherati”. Ai margini, nelle pieghe dello spettacolo (media di lotta su Internet, Assemblee generali popolari, squat, ecc.), forse si annunciano altre forze critiche. Per non diventare forme d’avanguardia, queste pratiche di resistenza possono già essere in grado di dispiegare azioni sociali abbastanza differenziate, per poi insinuarsi gradualmente (accoglienza dei migranti, femminismo materialista, sindacalismo rivoluzionario, consiliarismo, situazionismo, sabotaggio puntuale e discreto, ecc.).
In un contesto in cui la categoria del “lavoro” come progetto materiale produce dei suicidi ogni giorno sempre più frequenti, burnout, disuguaglianze sempre più fragranti, legislazioni sempre più scandalose (legge El Khomri in Francia, piano Hartz in Germania, Jobs Act in Italia, legge Peeters in Belgio, ecc.), disoccupazione di massa, miseria sempre più evidente, forme di esclusione e razzismo, discriminazioni patriarcali sempre più abiette, disastri ecologici irreversibili, non dovrebbe essere così difficile radicalizzare l’orizzonte della critica. Ma questa radicalizzazione, ahimè, rimane difficile nella pratica perché i discorsi conservatori e ideologici, le cortine fumogene, sono ciò che rimane più massicciamente “visibile”.
Saper veicolare un messaggio di questo tipo rimane quindi una questione etica e strategica elementare, nel contesto di una lotta anticapitalista che si confronta sistematicamente con la realtà dello spettacolare in quanto tale.

(traduzione di Afshin Kaveh)
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Note:

1. Saggista e membro del comitato redazionale della rivista Jaggernaut, nonché collaboratore del gruppo Crise&Critique. Dal 2016 ad oggi Bohy-Bunel ha continuato a dedicarsi a queste tematiche, che riteniamo di un certo interesse per l’approfondimento delle questioni che già questo articolo attraversa – per esempio un’accurata critica all’economista Frédéric Lordon e, in corso di revisione e di prossima uscita per le edizioni Crise&Critique, Le Regard de la méduse, un saggio sulla teoria della reificazione. I “riferimenti legislativi” (Jobs act, etc) o a sigle politiche presenti nell’articolo risentono dell’epoca in cui è stato scritto.

2. Il presente articolo era già stato tradotto e diffuso da Franco Senia, ma ci è sembrato necessario riprenderlo da capo, proponendone una nuova traduzione secondo gli insegnamenti di Walter Benjamin sul ruolo del traduttore come storico e diveniente, mai fermo.

3. Una definizione che riprendiamo da Robert Kurz, a sua volta ispirato dal breve articolo di Roman Rosdolsky, Der esoterische und der exoterische Marx del 1957. Il Marx “esoterico” sarebbe quello non ancora pienamente compreso, quello che, con la sua interpretazione della struttura categoriale del sistema capitalistico, anticipa i tempi e mette in grado di operare una critica profonda dei fondamenti di questo stesso sistema, rilevandone i punti deboli. Questo “secondo Marx” va nella direzione di un radicale superamento del capitalismo, non vuole semplicemente riformarlo o migliorarlo come invece predica il “primo” Marx, quello “essoterico”, che si concentra più sulla redistribuzione e sulla lotta di classe in funzione di una più equa giustizia sociale. Ovviamente non ripudiamo questo “primo” e più conosciuto Marx, tuttavia – nell’epoca della crisi fondamentale del capitalismo – crediamo che sia giunto il momento di “valorizzare” il Marx esoterico, quello “nascosto” e rimasto finora sotto traccia, allo scopo dichiarato di aprire un orizzonte teorico e anche pratico che guardi oltre il capitalismo. Per approfondimenti, cf. Robert Kurz: Il duplice Marx, ora presente anche in Manifesto contro il lavoro, Mimesis 2023.

4. (NdT) Qui Benoit Bohy-Bunel, con un gioco di parole che funziona meglio nell’originale francese, sta alludendo al “travaglio” (in francese suona così: “…le mythe biblique du péché originel condamnant l’homme à «travailler» ; on parlera aussi du «travail» de l’enfantement, du point de vue d’Eve.”)

5. (NdT) L’autore sta qui citando Guy Debord: Id, La società dello spettacolo, tr. it. P. Salvadori, Baldini&Castoldi, Milano 2015, §13, p. 56.

6. (NdT) Trattasi di un’alleanza e federazione di partiti della sinistra francese, coalizzati dalla fine del 2008 (in vista delle elezioni europee del 2009) al 2018, anno in cui ne verrà riconosciuto lo scioglimento (già dichiarato da Mélenchon nel 2016) al trentottesimo congresso del Partito Comunista Francese.

7. (NdT) Dal 2018 ha cambiato nome in Rassemblement National.

8. (NdT) Ci si conceda un briciolo di licenza poetica di fronte alla difficoltà di dover rendere in italiano il gioco di parole di Bohy-Bunel, “politique politicienne”. “Politicienne” dovrebbe indicare colui che fa politica. Franco Senia traduceva questo passaggio in “politica che fa politica”, ma ci pare non renda al meglio lo scherno nelle parole di Bohy-Bunel.

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Benoît Bohy-Bunel

Saggista e membro del comitato redazionale della rivista Jaggernaut, nonché collaboratore del gruppo Crise&Critique. Opera all'interno della corrente di pensiero internazionale della Wertkritik (Critica del Valore)

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