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Per la critica del cibo in forma di merce

A proposito del pamphlet di Wolf Bukowski
di Afshin Kaveh

Si intitola La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose (Einaudi 2023, pp. 50, 2,99 euro) ed è l’ultimo libricino – purtroppo non disponibile in formato cartaceo ma edito esclusivamente in ebook – di Wolf Bukowski. L’autore ruota attorno al blog Giap della Wu Ming Foundation, è collaboratore della rivista Internazionale e in passato aveva già dedicato alcuni sforzi riflessivi al medesimo argomento, per esempio nei volumi Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) e La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre 2015), oltre ad essersi impegnato nella critica alle narrazioni dell’organizzazione urbanistica del “decoro” nel libro La buona educazione degli oppressi (Edizioni Alegre 2018) di cui conservo un piacevole ricordo personale: la sua presentazione a Sassari nel 2020, immersi, alla sera, nella cornice di Piazza Santa Caterina ai piedi della scalinata della facciata della chiesa monumentale.

Da allora non mi sarei mai aspettato che, a distanza di pochi anni, mi sarebbe capitato tra le mani un testo come La merce che ci mangia, una breve ma intensa riflessione critica che prende avvio da una costruzione teorica profondamente diversa dalle precedenti stesure di Bukowski. L’autore, infatti, fin dalle prime battute si domanda: «il cibo è una merce?». Potrebbe sembrare un quesito di poco conto, di frivola importanza, soprattutto di fronte «alle navi cariche di cereali che attraversano gli oceani, alle grigie fabbriche di conserva che divorano pomodori, ma anche alle colorate corsie d’un ipermercato, tra le quali ci smarriremmo se i marchi, le etichette, non ci prendessero per mano», esempi che condurrebbero chiunque a rispondere affermativamente al quesito. Ma un conto è annuire per intuito, altro conto è afferrare pienamente gli strumenti di lettura categoriale che ci permettono di comprendere non solo se il cibo sia o meno una merce, ma anche e soprattutto che cosa sia di preciso una merce. Bukowski fa così proprio il cominciamento del Marx de Il Capitale, il quale, nella costruzione logico-dialettica della critica dell’economia politica, della sua spietata analisi al “modo di produzione capitalistico”, partiva proprio dalla “merce”, poiché “embrione”, “cellula”, “forma elementare” e più semplice della totalità capitalistica, la quale, presa nel complesso, si presenta appunto come una “immane raccolta di merci” (Marx). A questo proposito Bukowski, già dalle prime righe del testo e più nello specifico nella primissima nota, non nasconde il forte impatto che il libro di Anselm Jappe, Le avventure della merce. Per una critica del valore (Mimesis, 2023), ha avuto nella costruzione teorica delle proprie riflessioni, conducendolo poi alla stesura del pamphlet con l’utilizzo degli strumenti teorici propri della corrente internazionale della “Critica del valore” (Wertkritik) di cui Jappe, assieme a Robert Kurz, Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Ernst Lohoff e in parte anche Moishe Postone, è uno dei più noti teorici.

L’iniziare dalla merce non è un capriccio, né un esercizio di stile, ma come brillantemente indicato dal giovane Lukács di Storia e coscienza di classe, «il problema della merce non appare soltanto come problema particolare e neppure semplicemente come problema centrale dell’economia intesa come scienza particolare, ma come problema strutturale centrale della società capitalistica in tutte le sue manifestazioni di vita». In questo modo Bukowski riflette su questa «vicenda in effetti piena di paradossi» di cui la merce «non è che il primo». La merce infatti non può essere naturalizzata all’“oggetto” in generale oppure alla “cosa” in generale, non esiste da sempre e per sempre come fatto naturale, non è esistita come dato ontologico in ogni società umana ma, anzi, è quella forma specifica che il prodotto dell’attività umana, quest’ultima appiattita al semplice “lavoro”, assume generalmente in quella fase di “sintesi sociale” storicamente determinata che è il modo di produzione capitalistico. Ma qual è il “problema strutturale”, per dirlo con Lukács, o il “paradosso” della merce, per dirlo con Bukowski? Si tratta della sua duplice esistenza. Essa infatti appare da una parte come valore d’uso, dunque con proprietà utili che la rende qualitativamente distinta da altre merci, e dall’altra come valore, la sostanza che permette alle merci d’essere scambiate rendendole invece tutte uguali e comuni. Il “valore d’uso” si presenta come portatore materiale del “valore”, il quale a sua volta si manifesta fenomenicamente sotto forma di “valore di scambio”. Scrive Bukowski a questo proposito: «In ogni caso, il valore d’uso è inseparabile dal valore di scambio, cioè dal valore che la merce assume nella sua relazione con le altre merci, e in particolare con quella merce specialissima che è il denaro». Ciò, scrive Bukowski, crea una «tensione» ben esposta nell’esempio secondo cui «una mela non soddisfa precisamente lo stesso bisogno di una patata, una patata non può soddisfare il bisogno di un libro». I corpi materiali di queste tre merci fanno sì che il loro utilizzo sia diverso l’uno dall’altro, ma la loro produzione al fine esclusivo della “valorizzazione del valore” (Marx) le rende identiche e indifferenti al contenuto materiale d’ognuna se non come potenziali portatrici della capacità di realizzarsi in più denaro nei mercati anonimi in cui si presentano. Sempre facendo riferimento all’esempio delle mele, scrive Bukowski che «la loro produzione dipende interamente dalla possibilità di convertirle in più denaro di quanto sia stato investito nella coltivazione, e non dipende invece per nulla dall’esigenza sociale di avere mele a tavola». È questa contraddizione che permea ogni singolo angolo o, per ripeterci con Lukács, ogni “manifestazione di vita”, divenendo la contraddizione dell’intera esistenza sotto regime capitalistico e che possiamo sintetizzare così: l’astratto che si ribalta, si appiattisce e domina sul concreto. Non interessa la produzione di mele per la loro capacità corporale di poter nutrire qualcuno, ma bensì per la loro capacità di potersi scambiare e realizzare in denaro, e il primo fattore, l’utilità concreta della mela, altro non è che un incidente di percorso necessario al fine di poter realizzare il secondo. Una realizzazione di profitto che se dovesse fallire porterebbe quelle mele dritte dritte nelle discariche, alla faccia della loro utilità. A questo punto Bukowski porta degli esempi corretti, arrivando però a una conclusione in parte ingenuamente scorretta:

può benissimo quindi accadere che le mele siano prodotte in sovrabbondanza da una parte, e di conseguenza siano vendute sottocosto al supermercato, ma manchino dall’altra; può altrettanto accadere che un produttore sia rovinato dai debiti contratti per incrementare il proprio raccolto di mele, mentre un altro, al contrario, tracolli in conseguenza all’eccesso di mele giunte sul mercato, che ne ha fatto precipitare il prezzo, ma nulla di tutto ciò è di per sé motivo di crisi del capitalismo.

Questa assoluta indifferenza al contenuto materiale della produzione per l’astratto fine in sé della “valorizzazione del valore”, non conduce solo agli effetti più superficialmente visibili di eccedenza e sovrabbondanza di merci invendute o alla loro svalutazione (e già questo è comunque un motivo di “crisi strutturale” dovuto ai limiti intrinseci del contraddittorio funzionamento logico del modo di produzione capitalistico, consapevolezza teorica assente in Bukowski, seppur approfondita e argomentata dalla “Critica del valore”), ma mina irreversibilmente la base ambientale che il modo di produzione capitalistico abita, modifica e depreda, manifestando così la “crisi del capitalismo” in “crisi ecologica”. La produzione industriale di mele (giusto per restare nel medesimo esempio, ma gli si accosti pure qualsiasi altra forma di allevamento o agricoltura intensiva) al solo fine di scambiarle come merci per poterne realizzare il “valore” in più denaro, spesso perde di vista l’interconnessione e la biodiversità dei complessi cicli di vita organici vegetali, animali e geologici, ad esempio in una invasiva modificazione dei paesaggi attraverso irragionevoli e illogiche distese di monocolture (da Bukowski definite «il modo consolidato con cui il territorio diviene merce») la cui conseguenza è un costante e irreversibile impoverimento dei suoli che però, secondo la logica del “valore”, della “merce” e del “denaro”, sono sacrificabili pur di portare avanti senza freni l’autoreferenzialità della produzione per la produzione.

Bukowski non ignora di certo la questione, e lo dimostra soprattutto grazie all’esempio della Nutella anticipato nella terza sezione del libricino e poi ripreso nella quarta. La lista di Bukowski è evocativa, «nocciole da Turchia, Italia, Cile e Stati Uniti; olio di palma da Malesia e Indonesia; cacao da Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria; zucchero di canna da Brasile, Messico, India, Australia», invece «latte, zucchero di barbabietola e confezioni sono» prossimi «agli stabilimenti produttivi, che a loro volta sono sparsi per il mondo: cinque nell’Unione europea, uno in Russia, tre nelle Americhe, uno in Australia». La cosa problematicizzata allora nel dibattito pubblico non erano gli «effetti ambientali e sociali delle monocolture», ma che queste fossero distanti dall’Italia, presentando dunque come idea quella di intensificare e ampliare di decine di migliaia di ettari le piantagioni di noccioleto nel Bel Paese, senza badare alle conseguenze. Ancora una volta ecco il contenuto materiale che viene completamente sacrificato alla forma sociale della merce. In presenza di una simile idea, abbracciata sia da “destra” che da “sinistra”, Bukowski fa suoi gli insegnamenti di Kurz secondo cui la “ragione economica”, il dispiegarsi della “valorizzazione del valore”, e la “ragione politica”, le condizioni d’organizzazione generali in cui questo dispiegamento si avviluppa, non si oppongono gerarchicamente ma sono in relazione dialettica. Così, sulla scia degli insegnamenti di Kurz, Bukowski scrive – in modo limpido e lodevole – che «la politica definisce il contesto, la cornice, entro la quale la merce afferma sulla società le proprie inderogabili ragioni; e allo stesso tempo preleva dalla società ogni tipo di aspettativa, la rielabora e infine la risputa dopo averle dato forma di merce». Ed è sempre con Kurz, in particolare quello della teoria del Marx “esoterico” ed “essoterico” contenuta nel breve articolo Il duplice Marx (ora in “Appendice” alla seconda edizione italiana del Manifesto contro il lavoro e altri scritti, Mimesis 2023), che Bukowski, costretto a confrontarsi con l’esempio dei braccianti, dei «lavoratori migranti stagionalmente occupati nell’olivicoltura del Belice» si è reso conto che, dopo aver provato a «venirne a capo con gli strumenti dell’analisi di classe […] questi non facevano che piegarsi nello scontro con la realtà. […] Quegli strumenti non mi bastavano più, perché il problema si trova ben alle spalle della classe, ed è nell’implacabile sistema della merce: è la merce che fa della classe ciò che vuole; è la merce a plasmare il mondo che la classe abita, e non viceversa».

Di fronte ad un tale modello di sintesi sociale che fa della “merce” il proprio “feticcio”, Bukowski recupera quella sottosezione del primo capitolo de Il Capitale che Marx consacra proprio al “carattere di feticcio della merce”. Pur introducendo inizialmente il “feticcio” in termini psicoanalitici che nulla hanno a che vedere con la metodologia logico-dialettica che Marx eredita da Hegel, nella sesta sezione de La merce che ci mangia Bukowski in un primo momento fa autocritica rispetto alle «interpretazioni generiche e aneddotiche» cedute in passato alla teoria marxiana del “feticismo”, per poi darne un’interpretazione più che condivisibile al momento di chiedersi se questo “feticismo”, che ribalta “astratto/concreto”, sia «parvenza e inganno» o se veramente si traduca nella realtà; ci si scuserà allora per la lunghezza della citazione, ma ci sembra giusto e utile riportarla per intero, come plauso sincero all’autore:

Nel capitalismo non si producono mele perché altri mangino mele ma per il loro valore di mercato, cioè per la spirale tra mele e denaro. Lo stesso lavoro nel pometo, il lavoro umano di potatura, raccolta eccetera, è merce perché ha nel denaro la forma riconosciuta del proprio valore. Nella produzione capitalistica di mele, quindi, il “rapporto sociale tra oggetti”, e cioè il rapporto spersonalizzato tra merce e merce e tra denaro e merce, sostituisce veramente e non solo in apparenza il rapporto sociale tra persone. Si potrebbe anzi dire che a quest’ultimo è concesso di vivere una sua esistenza derivata solo nella misura in cui anche il primo si regge: se le mele non si vendono, cioè se il “rapporto tra cose” si guasta, i rapporti tra persone che si sono annodati attorno all’azienda Buone Mele Snc si dissolvono come la neve al sole della val di Non.

Le riflessioni di Bukowski procedono ulteriormente toccando un’ampia varietà di argomenti, per esempio guardando genealogicamente all’origine storica del cibo come merce, una specie di accumulazione primitiva che Bukowski crede di individuare nello «scambio colombiano, quel traffico di generi alimentari, senza precedenti per varietà e dimensioni, che occorre tra le sponde dell’Atlantico nel XVI secolo». Questa storia giunge poi ai giorni nostri e Bukowski si confronta criticamente col rapporto del cibo mediato dall’informazione, dai social e dai mezzi digitali. Quest’ultimo argomento è portato avanti dall’autore in modo estremamente stimolante nel confronto col mondo che ci circonda e in cui siamo immessi ma Bukowski, purtroppo, ne affronta una breve parte col rassegnato linguaggio postmodernista di un autore heideggeriano come Byung-Chul Han (che in passato, ahimè, ha sedotto anche me), parlando non a caso di «non-cose» (ci si perdoni il gioco di parole), categoria che fa riferimento alle merci prodotte da quel capitalismo digitale – informazione, dati e comunicazione – che, nel linguaggio di Han, derealizza la realtà materiale delle cose. Così, rimanendo al discorso di Bukowski, ci si perde quotidianamente nell’invasione delle immagini del cibo. Il problema di Han è che la critica alle non-cose per un ritorno nostalgico e moralistico alle cose non tiene conto del “capitale” quale “rapporto sociale” in cui sia non-cose che cose sono prodotte, fermandosi così ad una critica superficialmente condivisibile, ma contenutisticamente monca.

Altri passi del pamphlet conducono Bukowski ad un ulteriore confronto con le manipolazioni della materia alimentare, dagli Ogm transgenici alle nuove tecniche genomiche, per poi passare ad una riflessione sulla «lavorazione o modellazione meccanica» del cibo sin dalla sua produzione:

le distanze tra file di alberi o viti sono stabilite in funzione del passaggio della macchina; le varietà da mettere in campo sono selezionate già in funzione della raccolta meccanica; la maturazione, si pensi ai pomodori, deve essere sincrona per lo stesso motivo, e quando già non basta la selezione varietale a farla raggiungere, la si comanda con una spruzzatina di etilene, affermando così il dominio della macchina industriale (del suo prodotto chimico di sintesi) non solo sul frutto ma anche sul tempo.

Eppure, mancando completamente la teoria marxiana della duplice esistenza del “lavoro” nei suoi lati “concreto” e “astratto”, trovandosi di fronte più e più volte al quesito se possa esistere o meno un cibo che non sia merce, Bukowski non trova una risposta realmente convincente. «L’imperativo delle merci è nella loro circolazione, che consiste in cicli infinitamente ripetuti di acquisto e vendita (o di produzione e vendita, che è lo stesso)». Qui Bukowski non solo appiattisce acquisto e produzione come se fosse lo stesso, ma dando una lettura circolazionista abbraccia (forse involontariamente) quelle tesi che leggono tutte le categorie capitalistiche come esistenti, appunto, solamente nella “circolazione”, nello “scambio”, dunque come a posteriori, dimenticando così che “merce”, “valore” e “denaro” sono già presupposti, dunque a priori, in una “produzione” basata sul “lavoro astratto”. Constatato che quest’ultimo è la “sostanza del capitale” (Kurz), poiché si tratta del lato del lavoro che fa astrazione dal carattere materiale, determinato, utile e “concreto” contenuto in uno specifico e particolare lavoro, il lato astratto del lavoro come dispendio di tempo ed energia umana indistinta che non bada al contenuto materiale della sua produzione se non al fine della “valorizzazione del valore”, allora si hanno gli strumenti per poter finalmente rispondere alla domanda sull’esistenza o meno di un cibo che non sia forma-merce: questo non è merce laddove è soppresso il lato astratto del lavoro per la sua produzione. È dunque alla “produzione” stessa e alle sue “categorie” costitutive che gli sguardi più radicali devono volgersi. Bukowski, partendo da una lettura assolutamente non scontata e anzi illuminante della “merce” ma, purtroppo, tralasciando il “lavoro”, compie un’operazione a metà ma, a essere sinceri, è comunque una metà totalmente mancante nel panorama del dibattito nostrano, dunque ben venga e avanti tutta. La merce che ci mangia di Bukowski diviene allora, assieme al Cemento (elèuthera, 2022) di Jappe, un punto di partenza ricco, stimolante e imprescindibile per iniziare a comprendere l’irrazionalità di un mondo che sotto l’egida capitalistica, proprio come Saturno, divora i suoi figli. Che ci divori anche attraverso ciò che noi stessi divoriamo per poter vivere, ovvero il cibo, è sintomo del cinismo di un “modo di produzione” il cui superamento e la cui abolizione diviene una priorità sempre più necessaria.

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Afshin Kaveh

Sopravvive nella costa nord-ovest della Sardegna. Traduttore dal francese dei contributi della "critica del valore".

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