Crisi finanziaria, crisi economica o crisi del capitalismo?
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Incontro con Anselm Jappe
Introduce Riccardo Frola
Moderano: Dario Padovan ed Elisabetta Forni
L’incontro, organizzato da Elisabetta Forni e Emanuele Negro, si è tenuto al Polo del ‘900 di Torino. Il video è stato realizzato da ISMEL – Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro.
Agli occhi di molti la crisi attuale non è altro che una crisi finanziaria causata dall’avidità di un gruppo di speculatori, da risolversi con il rafforzamento dello Stato o con politiche rivolte alla crescita e alla ridistribuzione. Anselm Jappe, uno dei maggiori teorici della corrente internazionale chiamata “critica del valore”, è invece convinto che questa crisi sia una tappa decisiva verso l’esaurimento storico del capitalismo. Le tecnologie, sostituendosi alla forza lavoro, hanno progressivamente sgretolato la sostanza stessa del valore rendendo obsoleti il lavoro e la società che vi si basa. Ma la società del lavoro non è sparita, e trasforma ogni giorno masse sempre più grandi di uomini in “materiale superfluo”, destinato alla barbarie. Siamo allora davanti a un bivio: continuare a proporre soluzioni parziali e irrealizzabili, o cominciare a mettere radicalmente in discussione il denaro, la merce, il valore e il lavoro e chiederci se proprio il loro abbandono non sia l’unica vera uscita dalla crisi. Anselm Jappe, (Bonn, 1962) ha studiato a Roma, dove si è laureato con Mario Perniola, e a Parigi. È attualmente professore di Estetica in Italia e Francia. Si è occupato dell’opera di Guy Debord scrivendone una importante monografia e ha partecipato, fin dalla metà degli anni novanta, alla rielaborazione originale delle tesi di Marx portata avanti negli ultimi decenni dalla “critica del valore”. In italiano ha pubblicato per Mimesis “Contro il denaro” (2013) e “Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore” (2014). Ha collaborato con le riviste tedesche “Krisis” e “Exit” (fondate da Robert Kurz).
Ci sarebbe molto dire…
Nel
capitalismo le imprese devono produrre sempre più merci e a
costi
sempre inferiori per battere la concorrenza. Questa necessità
di
crescere senza mai fermarsi è al tempo stesso la forza e la
condanna
del Capitale. Crescendo esso genera la condizione per il
potenziale
benessere di tutta l’umanità: una forza produttiva del lavoro
che
in epoca precapitalista, solo 150 anni fa, sarebbe stata considerata
una utopia. Ma compiendo questo processo il capitalismo genera
anche
le cause del suo declino. Aumentando l’uso delle macchine, per
accrescere produzione e produttività, restringe l’impiego del
lavoro salariato, che è la fonte del plusvalore, e
diminuisce di
conseguenza il saggio del profitto: investire diviene sempre
meno
redditizio. Inoltre, il volume crescente della produzione va incontro
a una sempre più grave sovrapproduzione: le merci
restano
invendute.
La crescita capitalistica genera la crisi capitalistica.
Con
l’inesorabile avanzamento della crisi i lavoratori di tutti i paesi
sono ridotti alla povertà non per scarsità di mezzi
adeguati a
soddisfare i loro bisogni, come sempre è stato prima del
capitalismo, bensì nel mezzo di una potenziale ricchezza mai
storicamente realizzatasi: impianti industriali dalla enorme
capacità
produttiva fermi, magazzini colmi di merci invendute, stomaci
proletari vuoti. Basterebbe far funzionare quelle fabbriche per
soddisfare i bisogni dell’umanità. Ma ciò non è
possibile perché
non serve a realizzare profitto. Il capitalismo, da sempre inumano
ma
un tempo progressivo, si dimostra così anche reazionario.
In ogni
azienda come in ogni paese la borghesia chiama i “propri”
lavoratori a sacrificarsi per vincere la sua battaglia,
rendendo
più
competitiva l’economia aziendale e nazionale, e cerca di
convincerli che padroni e lavoratori “sono tutti sulla stessa
barca”. Al contrario in questa guerra lo sconfitto è sempre
il
proletariato. I lavoratori, quando accettano di legare le proprie
sorti a quelle dell’azienda o della patria, sono spinti in guerra
fra di loro, oggi a colpi di salari più bassi e ritmi di lavoro
più
alti, domani a colpi di fucile e di cannone.
Il
capitalismo è una lotta permanente fra Stati, gruppi industriali
e
finanziari, ciascuno in difesa dei propri profitti. La guerra
è
la
prosecuzione di questa lotta coi mezzi idonei dettati dalla crisi.
E della
crisi è la sola soluzione che conservi il capitalismo: distrugge
le
merci in eccesso, fra cui la forza lavoro; azzera i debiti dei paesi
vincitori; sottomette la classe lavoratrice al massimo sfruttamento;
conducendo i lavoratori al massacro fratricida sui fronti impedisce
che la lotta sindacale per il soddisfacimento dei loro bisogni
divenga lotta politica, ossia rivoluzione.
In tal modo
la guerra consente l’avvio di un nuovo ciclo di accumulazione del
capitale. Questo è il prezzo da pagare per il “ritorno alla
crescita”, obiettivo che accomuna tutti i partiti votati alla
conservazione di questo modo di produzione antistorico, che si dicono
riformisti e sono invece tutti reazionari.
L’organizzazione
dell’enorme capacità produttiva creata dal capitalismo al fine
del
soddisfacimento dei bisogni e non del profitto è presentata da
questi partiti come una utopia. Essa invece, come spiegato su
basi
scientifiche dal marxismo rivoluzionario, è una
possibilità
materiale all’ordine del giorno della storia, come lo fu un secolo
e mezzo fa lo sviluppo del capitalismo. I regimi nazionali
capitalisti, pur di impedire questo progresso storico e conservare
alla borghesia il potere politico e i suoi privilegi, hanno già
dimostrato di essere pronti a condurre l’umanità intera nella
più
grande barbarie della storia.
Con queste
cause e con questi effetti si sono combattute due guerre mondiali e
si va preparando la terza. Il ciclo di forte espansione degli anni
’50 e ’60, figlio dei 70 milioni di morti – quasi tutti
proletari e contadini – della seconda guerra mondiale, si è
esaurito nel 1973-’74, con la prima manifestazione della crisi
attuale, da allora frenata col ricorso al debito, l’allargamento
del mercato mondiale e l’aumento dello sfruttamento della classe
lavoratrice, ma che, inesorabilmente, segue ad aggravarsi.
Per la
preparazione della guerra, oltre alla produzione di materiale
bellico, è indispensabile per la borghesia predisporre una
propaganda ideologica per convincere gli sfruttati al fratricidio. La
Prima guerra mondiale fu spiegata, da una parte come necessaria
contro il militarismo tedesco, dall’altra contro un feroce Zar
feudale. La Seconda sarebbe stata della democrazia e del socialismo
contro il fascismo e il nazismo. Oggi si fa leva sullo “scontro di
civiltà” e sul “terrorismo islamico”, ben pilotato
dall’esterno, per dar fuoco alle polveri in Libia e Medio Oriente.
Ma il comune
bersaglio dei passati e futuri fronti contrapposti è, in ultima
istanza, il proletariato perché esso è la sola
forza che
può dare
alla crisi una soluzione progressiva e non reazionaria, abbattendo
con la rivoluzione il capitalismo e i suoi regimi politici. Solo la
rivoluzione può impedire la guerra ed eliminare la sua causa
materiale – il capitalismo – aprendo la via a una società in cui
il lavoro sia finalmente emancipato dalle leggi del profitto, col
superamento dell’ultima forma di schiavitù, quella del lavoro
salariato.