La quarantena del geo-capitalismo.
Corpi, virus, natura e valore.
E’ bastata una settimana per smentire Giorgio Agamben e tutti coloro che hanno pensato con lui che questo virus fosse l’invenzione di un capitalismo sempre più aggressivo e autoritario, cosa peraltro vera, volta ad estendere “stati di eccezione” – destinati a trasformarsi in una vera e propria militarizzazione – a crescenti porzioni di popolazione mondiale. L’evolvere della crisi ha dato ragione ad Agamben nella misura in cui lo stato di emergenza è stato esteso a tutto il paese, ma ha completamento smentito l’idea di una epidemia inventata che sarebbe alla base della giustificazione dello stato di eccezione nazionale proclamato dal governo. Ma questo non perché il virus non possa essere stato sintetizzato da qualche parte, in qualche segreto laboratorio dedito alla manipolazione della natura e delle sue profonde architetture genetiche, ma perché le sue conseguenze sono l’esatto contrario di quello che è stato detto fin qui da molti sinceri critici e oppositori del capitalismo. La “logica dell’eccezione”, che quindi eccede e muta radicalmente lo stato di normalità e conservazione della vita sociale, è stata applicata a una situazione di concreta minaccia che sta generando conseguenze molto più profonde del semplice peana di chi ritiene che le nostre libertà di consumatori sovrani appagati dalla logica della merce siano violate. Il dilemma hobbesiano tra libertà e sicurezza che Agamben evoca alla fine del suo breve articolo, forse è un po’ più complicato di quanto possa sembrare.
In realtà quello che sta avvenendo con un virus che si presenta più violento di quanto sembrasse all’inizio, nonostante il suo Ro di 2 (ma alcuni indicano un Ro di 4.1 ossia la potenzialità media di ogni contagiato di infettare altre quattro persone), implica molte interessanti riflessioni.
- I virus sono microscopici aggregati di involucri proteici e acidi nucleici che hanno un impatto sulla vita non solo dal punto di vista patogeno. Dal punto di vista genetico sono portatori di novità, e per questa ragione hanno un ruolo sull’evoluzione degli organismi viventi. Sono quindi portatori di ambivalenza come ormai sappiamo: aiutano l’evoluzione del sistema immunitario ma allo stesso tempo lo minacciano. Senza minaccia non ci sarebbero meccanismi immunitari, un regola che vale anche per le società. Il problema è che a volte i sistemi immunitari si rivoltano contro l’organismo che devono proteggere, diventando a loro volta una minaccia. Anche questo capovolgimento è ben conosciuto dai sistemi sociali. Sul piano biologico, è questo per esempio il caso del virus dell’HIV. Per dare origine a un’epidemia non basta che un virus infetti gli esseri umani: deve anche poter passare da una persona all’altra. L’individuazione delle caratteristiche virali che favoriscono questa trasmissione è lo scopo principale delle ricerche in campo virologico. Dato che la maggior parte delle infezioni emergenti nasce dalla trasmissione di virus dagli animali all’uomo, scoprire quali siano le condizioni che permettono la trasmissione tra esseri umani è quindi fondamentale non solo per predisporre piani di intervento efficaci, che ovviamente sono piani ex-post per quanto si possano pensare efficienti, ma soprattutto per evitare il salto di specie di tali virus. Una riflessione non bio-medica ci induce a pensare che i salti di specie dei virus da mammiferi a umani sia determinata da qualche anomalia nello scambio metabolico di risorse che avviene tra società e natura. L’allevamento degli animali per l’alimentazione umana, per quanto non sia annoverabile tra le principali cause del salto di specie, è in grado di generare mutazioni tra i virus che posso permetter loro di muoversi tra agenti umani. Uno studio della Fao di qualche anno fa notava come l’espansione globale del modello statunitense di produzione di cibo animale avesse impatti e implicazioni negative per il controllo dei rischi di malattie zoonotiche sia per gli animali che per gli umani. Veniva per esempio notato come l’influenza aviaria derivasse dalla scarsa prevenzione presente nel modo industriale-capitalistico di produzione di polli. La mancanza di adeguata gestione dei rifiuti animali e il trasporto di questi e altri connessi prodotti materiali su lunghe distanze può creare ampie possibilità di contagi patogeni.
- I virus sono parte della storia sociale degli animali e degli umani. In ultima analisi, la storia umana appartiene alla storia naturale e questi due mondi si sono combinati storicamente con esiti spesso non prevedibili. Tutte le pandemie conosciute e studiate dagli epidemiologi hanno origine in Sali di specie dei virus. Il virus dell’influenza spagnola – H1N1 (1918–1919) proveniva dai maiali, il virus dell’influenza asiatica – H2N2 (1957-1960) e quello della influenza spaziale o di Hong Kong (1968-69) erano di origine aviaria. Ma il batterio Yersinia pestis, responsabile della peste, iniziò a colpire l’umanità circa 3300 anni a.C., per poi ripresentarsi periodicamente usando le pulci dei ratti come vettori eludendo l’attacco del sistema immunitario dell’ospite, generando pandemie catastrofiche come quella tra il 1347 ed il 1351. Intorno al 1300 un grande cambiamento climatico interessò tutto l’emisfero Nord del pianeta. L’abbassamento delle temperature diede luogo ad un’epoca chiamata “piccola era glaciale”. Il cambiamento climatico attivò il bacillo originario, che aveva il focolaio ai piedi dell’Himalaya. Il bacillo camminò verso Oriente attaccando l’Impero mongolo; la sua popolazione crollò da 125 milioni di persone a 90 milioni. Dalla Cina la peste ritornò indietro verso Occidente e proseguì verso la via della seta. Nel 1346 era arrivata sulle rive del Mar nero e ai confini occidentali dell’impero mongolo. Procedendo verso sud-ovest, la peste si diffuse in Asia minore, poi in Egitto scendendo fino all’Africa centrale. Nel 1347sbarcava a Marsiglia e Messina. Nel 1348 aveva contagiato tutta l’Europa mediterranea e centrale. Nel 1349 la peste arrivò anche in Scandinavia e da lì passò in Islanda e in Groenlandia. Questi cenni servono solo a ricordare che la storia della società umana è sempre stata segnata da epidemie che si incrociavano sovente con repentini cambiamenti climatici e ambientali. Questa regola vale ancora oggi di fronte al Covid-19. I contesti ambientali sono ovviamente cambiati, ma come ricordava qualche anno fa Alfred Crosby, viviamo in un mondo che è diventato in qualche modo un luogo migliore per i virus cattivi e un posto peggiore per noi di quanto non lo fosse il mondo del 1918, al tempo della “spagnola”. Inoltre, il riscaldamento climatico è all’ordine del giorno. Veloci connessioni globali, cambiamento climatico, e addomesticamento di miliardi di animali allevati in modi a dir poco discutibili, ci fanno sedere tutti nella “sala d’aspetto di un’enorme clinica, gomito a gomito con i malati del mondo”. (Crosby)
- Il virus ha rimesso al centro della politica i comportamenti umani immediati, nudi, dei corpi. Il virus non cammina tra dispositivi (anche se si aggrappa agli oggetti) ma tra esseri umani, presentandosi come un agente di socializzazione alla malattia e al disagio. Si tratta nelle intenzioni di chi intende combattere l’agente perturbante di ridisegnare drasticamente le movenze, i ritmi, i gesti, le abitudini del corpo sociale, composto da milioni di agenti bio-sociali. E lo deve fare qui in Europa non con il pugno di ferro ma con suadenti e accettabili ingiunzioni, proprio per evitare resistenze, opposizioni, sottrazioni, magari facendo leva sulla paura della minaccia virale. In questa battaglia aperta dal potere bio-politico contro il virus non vi sono tecniche in grado di mediare, sostituire, sollevare gli umani dalle loro proprie responsabilità sociali nei processi di contagio, perché sono questi ultimi che si ammalano. Per ora la tecnologia non è in grado di inseguire il virus e di disabitarlo, ma è in grado di sorvegliare i movimenti dei corpi provando a contenerli, reprimerli, condizionarli. L’uso del telelavoro o del learning a distanza costituisce una limitata alternativa alla centralità delle relazioni sociali che, seppure immerse in un anonimato senza fondo, si è scoperto – misurando i contagi – che sono numerosissime, continue, ripetitive, quasi meccaniche, che rilasciano una sostanza sociale fondamentalmente reificata e capovolta. Ma sono segnate da ampi e pesanti rilasci biologici. Il virus si muove alla velocità dei corpi e delle loro secrezioni. E come si nota è veloce, perché anche i corpi lo sono. Nel bene o nel male, ci sono di nuovo i corpi al centro delle decisioni politiche e non solamente le loro artificiali protuberanze tecniche dedite alla socializzazione.
- Occorre notare come le draconiane misure varate per affrontare la “crisi virale” non stiano suscitando le proteste che a molti sembravano probabili. Gli atteggiamenti di quiescenza, quasi di inerte adattamento, alle misure prese del governo, suggeriscono alcune riflessioni. Possiamo notare che l’emergenza sanitaria che stiamo affrontando sta portando in superficie paure del contagio tipiche dell’individuo che si sente minacciato nel suo spazio corporale. Il timore del contagio e della contaminazione è in grado di razionalizzare, come aveva notato Goffman, sia i rituali sociali di separazione e di presa di distanza, sia l’ordine dei corpi nello spazio pubblico, o meglio la loro sottrazione o assenza. In termini generali, si può dire che il virus dell’attuale pandemia rappresenta una potenziale violazione del nostro intimo spazio corporeo in grado di generare un esteso “panico dei corpi”. Queste ansie diffuse relative alla protezione dei confini del corpo da invasioni e dissipazioni sono stati intelligentemente definiti come “maccartismo del corpo”, un modo molto statunitense per sottolineare l’utopia dell’assoluta purezza degli scambi del corpo con l’ambiente, quasi si trattasse di una nuova “politica immunologica”. In questa nuova politica, gli standard igienici da seguire indicano non solo l’aderenza alle regole collettive codificate dai decreti governativi, ma anche un modo per differenziare, dove possibile, sé stessi dall’altro. Il pericolo che l’“altro” generico diventi la vivente minaccia di contaminazione e degradazione della purezza del sé individuale, è sempre dietro la porta. Si tratta di capire se tale disponibilità a seguire le disposizioni burocratiche allo scopo di garantire la propria incolumità e sicurezza a scapito della propria libertà, sia una caratteristica tipica della società individualizzata della merce o se essa sia propria di altre epoche. A dire il vero, la storia delle epidemie e delle endemie catastrofiche che hanno segnato la storia umana, come visto prima, mostrano una costante ma mutevole interazione tra misure sovrane e comportamenti collettivi a protezione della propria incolumità personale. In sostanza, il capitalismo cambia fino a un certo punto le reazioni sociali alle minacce improvvise ed estese. In questo caso, ci sembra di capire che la distanza fisica tra i corpi stia generando un’accidentale identità collettiva, che nel peggiore dei casi potrebbe trovare sintesi in una rinnovata entità etno-nazionale.
- L’analisi delle tipologie di paura esperite dagli attori ci permette di avanzare una breve riflessione sulla dialettica fra pericoli globali e rischi quotidiani che, come diremo dopo, potrebbe aprire qualche interessante spiraglio di azione collettiva non solo per far fronte ad altre potenziali minacce ma per costruire possibili alternative al sistema del capitale. Alla fin fine le paure sono anche motori di uno strano e cangiante mix di azione e inazione. Pericoli e rischi globali e locali sono difficilmente separabili nella realtà empirica. Le paure che ci cadono addosso a valanga a partire dall’aumento di incertezza del mondo globale influenzano profondamente la nostra pretesa immunità quotidiana. Le certezze di tutti i giorni e la salda sicurezza ontologica che ancora possediamo sono scosse, come nel caso del Covid-19, dall’ esperienza pratica che le cose non vadano per la loro strada, che minacce insondabili si manifestano improvvisamente, pronte a colpirci in qualunque momento. Per quanto sia solida, la sicurezza ontologica è turbata da eventi imprevedibili, da repentine manifestazioni di disagio, da gravi e impreviste epidemie, da incidenti tanto inattesi quanto dolorosi, da improvvisi ridimensionamenti dei nostri progetti di vita. Tali fenomeni, non possono essere confinati nella nostra sfera personale, e potrebbero costituire una “sana” pedagogia della paura, una bandiera che viene issata per dire “ho paura di…”, come nel caso dei “Friday for future”. Queste paure sono inevitabili, sebbene vengano messi in atto dei comportamenti di elusione e auto-isolamento capaci di erigere barriere sempre più robuste fra sé e gli altri, con la conseguenza che aumenta inevitabilmente la distanza sociale. In una società dove vige il principio della “libertà da…” il desiderio degli attori è di proteggere il loro spazio vitale, che normalmente viene pensato come permanentemente posseduto, una dimensione ontologica ed egocentrica data per scontata e la cui violazione provoca ansie e frustrazioni. E tuttavia queste difese sono inutili e infruttuose, poiché tale spazio è contingente, temporaneo, destinato a mutare sotto i colpi di eventi esterni in grado di rompere le difese erette individualmente. L’azione collettiva, anche nel caso di epidemie come la presente, è l’antidoto all’individualismo della paura, che delega esclusivamente ad apparati e dispositivi tecnici e burocratici la propria sicurezza. L’instabilità del mondo moderno può trovare in un mix di azione/inazione collettiva una concreta alternativa. L’accento sul collettivo, che si forma nell’esperienza della crisi, può costituire il rimedio possibile a una società prona alla paura individualizzata. Qui la potenziale “comunità della paura” si trasforma in azione collettiva di ricostruzione e transizione.
- Lo scenario che si presenta anticipa quelli che si esibiranno in futuro, ossia di concrete minacce e pericoli materiali per la vita collettiva. Si tratta quindi di un’anticipazione di quello che potrà succedere, e per certi versi anche di un’esercitazione collettiva in vista di più drammatiche emergenze dovute ai cambiamenti climatici. Qui abbiamo due prospettive: da un lato vi è un potere statale nazionale che prova per la prima volta ad affrontare crisi così ampie cercando di conseguenza di distillare procedure, conoscenze, tattiche, strategie, capacità pratiche per mobilitare e potenziare (dopo averle accuratamente depotenziate) organizzazioni come quella sanitaria o contenere milioni di persone in preda al panico. Dall’altro vi sono i corpi dei membri socializzati che devono imparare, al di là delle imposizioni, a vivere in modi in grado di sfuggire al contagio e contemporaneamente ai diktat normalizzanti del potere della merce. Gli agenti sociali dovrebbero in questo frangente imparare ad organizzarsi per far fronte a continue e veloci epidemie, pandemie, endemie, ecc…, ma la reazione a tali minacce, per come si sta manifestando in queste settimane, non sembra così efficace e scevra da isterismi collettivi e panico. Il modo in cui si reagisce a minacce bio-fisiche – che non sono semplicemente esterne al mondo socializzato ma l’esito imprevisto di drammatiche accelerazioni come l’urbanizzazione e la messa al lavoro industriale di centinaia di milioni di corpi – è significativo per capire se vi è un potenziale per operare un salto verso una diversa organizzazione sociale, o se il sociale delle nostre vite è completamente subordinato alla tirannide della merce. Possiamo capire i potenziali di liberazione dalla fantasmagoria magica del capitale e del feticismo della merce, fatta di normalità, ripetizione, imitazione, aspettative confortanti, conservazione, dal modo in cui siamo in grado collettivamente di fronteggiare tali minacce, creando alternative alla delega burocratica. Qui non abbiamo a che fare solo con rischi socialmente costruiti, ma con pericoli conclamati che toccano migliaia di persone contemporaneamente. Si tratta di minacce che non rimangono allo stato di potenza – manipolate nelle loro rappresentazioni dai processi di costruzione sociale e di comunicazione – ma di eventi che proclamano la propria potenza catastrofica non solo biologica ma soprattutto sociale. Lo scenario presente sancisce che il non-umano entra in modo sconcertante nel sociale ritenuto immune. Non vi è nessuna armonica fusione o ibridazione dell’umano sociale e del non-umano socializzato, ma solo un perverso e imprevedibile amalgama dei due mondi. Come è stato notato, città come Wuhan forniscono il terreno perfetto per l’emergere di nuovi agenti patogeni. Lì vi sono i tradizionali mercati all’aperto che si accompagnano ad enormi fattorie per l’allevamento industriale di animali a carattere capitalista e a concentrazioni di milioni di lavoratori, molti di questi poveri e con legami e abitudini ancora legate all’ambiente rurale. Le cause della generazione di questi nuovi virus non devono quindi essere ricercate solo in una prospettiva biomedica ma soprattutto nelle relazioni eco-sociali tra umani e non-umani. Ciò implica una rivoluzione in come si produce e si consuma, una rivoluzione nel modo in cui la società del capitale si relazione al pianeta, che va oltre le scelte e le potenzialità di trasformazione dei consumatori finali.
- Il capitalismo è preoccupato da questo virus, anche se alcune sezioni del capitale globale lo minimizzano, lo ignorano, o pensano di piegarlo nella direzione di un darwinismo socio-biologico che sembrava scomparso. In ogni caso, questo virus è qualcosa che gli sfugge, che non aveva previsto, così come il cambiamento climatico. Alcuni settori del capitale globale provano a fare profitti con le probabilità di catastrofe generate dall’attuale società del rischio. I catastrophic e pandemic bonds scommettono proprio sulle probabilità che una catastrofe, un’emergenza, una crisi, una pandemia, un terremoto, un ciclone, si possa verificare o non verificare producendo gravi conseguenze. Nondimeno, si profila all’orizzonte la fase cruciale di una crisi che ci accompagna in forma più o meno evidente da quindici anni. L’economia globale si contrae, la produzione rallenta, le esportazioni frenano, i consumi precipitano, il lavoro e i redditi spariscono, il denaro si svaluta. Si genera un capitalismo slow, che è quanto di più inverosimile ci si potesse aspettare, visto la centralità della velocità, della rapidità, del dinamismo di informazione, innovazione, circolazione, realizzazione, apprendimento, e così via. La civiltà dell’accelerazione trova qui un suo limite concreto, non astratto e non disegnato dai numeri o dalle previsioni. Qui il denaro si affloscia, il valore rimane cristallizzato nell’invenduto, in un valore d’uso ancora non estratto, ingabbiando così il valore monetario che lo segna. A parte alcuni beni di consumo non durevoli come il cibo, l’infinità varietà dei valori d’uso s’infrange contro le norme della desocializzazione. Si consuma per stare insieme, anche se non ci si conosce e si è indifferenti all’altro, ma la merce mette di fronte, crea contatti, lo scambio di merci disegna la società. Ha ragione Zizek, “l’epidemia di coronavirus è una sorta di attacco con la tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita al sistema capitalistico globale – un segnale che ci dice che non possiamo andare avanti come abbiamo fatto finora, è necessario un cambiamento radicale”. Il cambiamento climatico avrà conseguenze ancor più radicali, al punto da mettere a rischio l’esistenza sociale, se non addirittura quella biologica. La “crisi virale” è già sufficiente per capire che occorre costruirla fin d’ora l’alternativa al capitale, e che forse proprio in questo rallentamento globale delle attività sociali si annida una parte di tale alternativa, considerando per esempio la perentoria riduzione delle emissioni di CO2 e di inquinanti a livello globale. E per fare questo occorre aprire il capitolo della cosiddetta “transizione”. Una società comunista o post-capitalista non potrà non porsi il problema delle crisi virali e climatiche, della perdita di biodiversità, delle anomalie nel ciclo del carbonio, dell’azoto, del fosforo, della deforestazione e della perdita di habitat, in una parola della fertilità della relazione metabolica tra società e natura, degli ibridi che emergono dalle violente mescolanze genetiche tra umani e non-umani.
- Il coronavirus può contribuire a riscrivere gli scenari geo-politici, ma non si sa in quale direzione. Possono esserci rimaneggiamenti o metamorfosi dei rapporti di potere globali così come si sono scolpiti nelle fasi convulse della globalizzazione. Ma una trasfigurazione di tali relazioni era già presente prima del Covid-19, costituita da una veloce compressione dei movimenti della globalizzazione, da una riduzione dei suoi traffici commerciali che stava già provocando spasmodiche reazioni in tutti i continenti testimoniati da insurrezioni, crisi politiche, guerre civili. La crisi da virus può accelerare il caos sistemico, mettendo in crisi la quasi totalità delle economie avanzate ed emergenti che dipendono da complesse dinamiche di esportazione e importazione di energia, materie prime, manufatti. Forse si consoliderà l’egemonia sovranista, portando nel breve periodo a una riduzione drastica dei flussi di materia, energia, denaro e umanità tra continenti e paesi. Tale contrazione farà tuttavia i conti con l’impossibile autosufficienza dal lato delle risorse dei paesi sviluppati. In breve, se verranno meno le esportazioni di prosecco veneto verso la Cina, ciò potrà avere gravi conseguenze dal lato dell’approvvigionamento di energia e materie prime per la produzione, i consumi e i servizi. Le auto non si muovono a prosecco ma a benzina. Già oggi i consumi dell’Italia costituiscono il doppio della sua bio-capacità, ossia della disponibilità di materie prime. Le infrastrutture come strade, ferrovie, alberghi, impianti, centri commerciali, ristoranti, devono essere usati e popolati per ripagarsi le spese di mantenimento e manutenzione.
- Il coronavirus pone il problema della conoscenza scientifica. Questo forse è il problema più sottile. Le nostre società si confrontano spesso con esperti, se non con una espertocrazia. Ora questi scienziati/esperti esercitano una certa influenza quando si tratta di prendere decisioni in situazioni impreviste ed incerte, e lo esercitano su più piani e su più orizzonti, dal politico, al sociale, all’economico, al biologico. Il caso coronavirus è un prodotto della scienza, come il cambiamento climatico. Senza climatologi, o senza virologi, non avremmo mai saputo che il clima stava cambiando e un virus ci stava infettando. Credo che tutti sappiano che i politici, ma anche i movimenti che si oppongono giustamente a molte scelte della cosiddetta politica, prendono decisioni tra diverse opzioni che sono spesso fornite da esperti e scienziati i quali si muovono con una certa disinvoltura tra simulazioni e scenari – in questo caso del coronavirus – e pressione politica. Nel caso in questione la politica al governo si è fatta trascinare in maniera riluttante verso drastiche scelte securitarie, che ora appaiono ai più come fondamentalmente legittime. Di sicuro il fatto di voler mettere in sicurezza la popolazione italiana dipende da una retorica della sicurezza e della paura che si è fatta largo negli ultimi anni. Ma finora essa aveva funzionato come ideologia di un sociale compattato da definizioni nazionaliste e razziali, come fuga da dilemmi reali, come quello di accogliere o lasciare morire nelle acque del Mediterraneo migliaia di esseri umani. Il virus cambia la prospettiva e pone all’ideologia securitaria un problema materiale: la riduzione delle libertà non solo individuali ma anche quelle più cruciali del mercato. Mai come in questa situazione la decisione bio-politica di assicurare le vite dei membri della popolazione biologica si scontra con la restrizione radicale delle libertà di movimento e riproduzione (mentre la produzione di merci deve continuare, ma non i servizi, il che indica come la produzione conti ancora più del terziario, per quanto esso sia avanzato) della popolazione sociale. Nella protezione della popolazione biologica contano i numeri, e qui l’astrazione riduce ogni vittima del contagio a numero astratto e a denaro sottratto al circuito dell’autovalorizzazione del capitale; i costi della cura e della sicurezza sono costi direttamente improduttivi. Qui la bio-politica dovrebbe riafferrare il suo originario significato foucaultiano: la bio-politica e il bio-potere si occupano della protezione o miglioramento delle condizioni biologiche della popolazione. Vi è chi vorrebbe reinserire in questa messa in sicurezza del corpo biologico della popolazione fratture razziali, quindi decidendo a priori “chi far vivere e chi lasciar morire”, come nel caso delle migliaia di morti delle traversate del Mediterraneo. Ma non è chiaro se tali spaccature razziali della popolazione potranno manifestarsi, giuridicamente e costituzionalmente non sarebbe possibile. Ma è possibile che si manifestino strategie di abbandono differenti da quella razziale ma sempre di natura biologica. Per esempio è possibile che alcune strategie di affrontamento dell’epidemia decidano di privilegiare cinicamente l’abbandono della popolazione anziana e già indebolita al suo destino, risolvendo in questo modo diversi problemi di natura sia organizzativa (sistema sanitario) sia economica.
- Ogni infettato costa molto. Il conto finora per l’Italia si aggira attorno ai 25 miliardi di euro per quasi ventimila contagiati. Un milione di euro per ogni vittima. Il conto si fa salato, e sebbene crolli il prezzo del petrolio, riducendo così la spesa energetica dei paesi consumatori, i costi di ogni società saranno molto alti, anche perché si tratta di spese improduttive dal punto di vista del capitale. Nemmeno il capitale finanziario resta immune dal coronavirus, sebbene mischiato con altre condizioni di instabilità come la fluttuazione violenta dei prezzi del petrolio: i 700 miliardi di capitalizzazione persi lunedì 9 marzo 2020, sono un indicatore di ulteriori possibili tracolli. Forse i futuri vaccini faranno guadagnare un bel po’ di profitti all’industria farmaceutica e di conseguenza al capitale globale ma rispetto alle perdite il conto è in rosso. E’ possibile che anche in questo caso ci si trovi di fronte a una shock economy, ossia alla possibilità che vari capitali guadagnino sulle conseguenze di tale emergenza, come già capita con i cat bond, o che si approfitti della crisi virale per trasformazioni radicali dell’organizzazione sociale, come è successo in altri numerosi casi. Ma questa epidemia è più democratica di ogni altra catastrofe. Come ogni epidemia, essa tocca marginalmente chi ha meno contatti sociali. Tuttavia, in situazioni marginali estreme come le carceri, la popolazione di tale istituzione totale potrebbe difficilmente sopportare un contagio (e l’indulto rimane l’unica misura di buon senso ora applicabile). La densità sociale delle relazioni è proporzionale al rischio di essere infettati, e queste relazioni si mantengono là dove vi sono risorse economiche personali. Il virus discrimina per lo più dal punto di vista delle diversità biologiche: età, difese immunitarie, patologie, genere. Ovviamente, le condizioni biologiche che amplificano l’impatto del virus hanno anch’esse una componente socio-ecologica. Vivere in salute, con poche patologie, mangiando cibo buono dipende da condizioni sociali che influenzano le debolezze biologiche del corpo umano. Nondimeno, i vincoli sociali di riproduzioni sono soggetti a una metamorfosi biologica che segnano in modo diverso i corpi individuali. Di conseguenza, è difficile poter speculare in modo efficace sulle differenze socio-biologiche come nel caso delle catastrofi ambientali. Rimane il fatto che chi non ha accesso ai servizi sanitari rimane in una condizione di estrema vulnerabilità, ed è qui che si aggiunge l’ulteriore discriminazione e selezione di coloro i quali, infettati dal virus, possono avere o meno accesso a posti in rianimazione, vista la loro scarsità. Qui si apre un ulteriore dilemma: da un lato vi sono coloro che, visto lo squilibrio tra necessità e risorse disponibili del sistema sanitario inorridiscono di fronte al fatto che alcuni saranno esclusi dalle cure e quindi sacrificati, normalmente i più anziani e quelli già segnati da patologie. Dall’altro vi sono coloro che per esempio ritengono che vi sia un eccesso di cura: come dice Esposito siamo “costretti a curarci”. Il virus non discrimina in modo razionale ma solo funzionale:
- La risoluzione della “crisi virale” comporterà alti costi sociali. Un alto e spropositato onere è quello che stanno già affrontando i lavoratori del sanitario e di quei comparti della produzione e distribuzione che non possono essere interrotti. Qui si manifesta la profonda centralità della produzione e circolazione di merci per i processi di riproduzione sociale, così come del settore sanitario. Là dove alcuni settori del terziario ad alto valore aggiunto – come lo spettacolo, i servizi aziendali e in generale il comparto della cosiddetta economia della conoscenza – possono pure essere sospesi, il settore sanitario e quello della produzione di merci rimangono al centro delle operazioni del capitale, costringendo i dipendenti a sacrifici e rischi che il resto della popolazione può evitare. Il sanitario sta all’incrocio tra la riproduzione e conservazione della vita dei corpi e della loro capacità di lavoro, e l’accompagnamento e prolungamento del fine vita biologico della popolazione, come accade nella presente occasione. La produzione di merci deve proseguire, ma questo sta generando numerose proteste tra i lavoratori. Gli alti costi della “crisi virale” graveranno su un sostanziale aumento del debito pubblico, che si scaricherà probabilmente nel tempo breve su nuovi tagli ai servizi di protezione della popolazione biologica, per la quale si dovrà spendere sempre di più ad ogni epidemia e ad ogni catastrofe naturale. La popolazione dei consumatori – che non corrisponde alla popolazione biologica – invece non ha bisogno in linea di massima di protezione: i consumatori si proteggono da soli pagandosi i servizi di protezione come previsto dalle più semplici disposizioni neo-liberali, ovviamente chi se lo può permettere. In ogni caso questo debito accumulato peserà ancora sulle spalle degli oppressi in termini di licenziamenti, peggioramento dei servizi, riduzione della protezione biologica, privatizzazione. E’ possibile evitare questi costi? Sì, facendo finta che il virus non esista, come nel caso del cambiamento climatico. Ma era possibile ignorarlo, come capita nel caso del cambiamento climatico? Sembra di no. Una differenza fra i due tipi di crisi riguarda la temporalità: nel caso del Covid-19 si è convinti che la crisi sia di breve durata e che le misure prese per farvi fronte saranno temporanee e contingenti. Nel caso del cambiamento climatico le misure devono essere permanenti e perciò destinate a influenzare in modo perentorio e definitivo i modi di vita collettivi. In ogni caso, le analogie tra gli scenari sollevati dall’uno e dall’altro orizzonte degli eventi catastrofici sono molte e da non sottovalutare. Questa epidemia anticipa altre possibili pandemie ed endemie provenienti da mutazioni genetiche influenzate anche dal cambiamento climatico, come sostengono diversi studiosi di bio-climatologia.
Grazie, davvero notevole articolo soprattutto per le sue informazioni storiche e sociali.