Introduzione
Il testo che segue, un intervento del 1994 nel corso di un seminario sul tema dei rapporti tra capitale e Stato, in seguito pubblicato su un periodico economico brasiliano, discute in maniera schematica il ruolo dello Stato e della politica nella società moderna, mettendolo in relazione con la sfera dell’economia, del mercato e quindi del denaro. L’antagonismo ideologico tra Stato e mercato che ha finora caratterizzato la modernità, è ingannevole perché riposa su una base comune ad entrambi i poli della contesa. L’idea socialista che vede nello Stato il lato autentico e positivo dell’universalità sociale, addirittura la leva dell’emancipazione sociale, antitetico all’anarchia del mercato, è altrettanto unilaterale dell’idea liberale che lo giudica come un mostro burocratico, oppressivo e parassitario, contrapposto all’efficienza e all’auto-regolazione del mercato. In realtà Stato e mercato sono i due volti della testa di Giano della società capitalistica e il loro rapporto indissolubile, nella crisi della terza rivoluzione industriale, manifesta tratti paradossali in una fase in cui la crisi strutturale del capitalismo mette spietatamente in luce la dipendenza dello Stato dai processi di valorizzazione. L’espansione della spesa pubblica, tanto biasimata da neo-liberali e conservatori, si origina, in realtà, dalle numerose funzioni che lo Stato deve assolvere per garantire i presupposti generali di una società articolata e basata sulle dinamiche di mercato (produzione di norme, riparazione dei costi sociali ed ecologici, realizzazione di infrastrutture, sovvenzioni e politiche protezionistiche etc.), che i singoli capitali privati non sono in grado di realizzare autonomamente. Tutte queste attività però devono essere finanziate e questo smentisce l’opinione che lo Stato possa operare sulla sua economia come un soggetto di comando, poiché esso non è in grado di creare autonomamente valore (valido), ma dipende dal prelievo di grandi quantità di valore e quindi di denaro originato dai processi di mercato. Ma il peso sempre maggiore delle attività pubbliche rappresenta a sua volta, a causa dei suoi oneri monetari, un’ipoteca gravosissima sull’economia stessa. Da una parte, l’impossibilità di finanziare l’attività pubblica solo con le tasse ha come esito un sempre più drammatico indebitamento da parte dello Stato sui mercati finanziari. Dall’altro tutte le proposte neoliberali di ridimensionamento (privatizzazione, liquidazione dello Stato sociale fino ad esiti socialdarwinistici) si rivelano regolarmente un rimedio peggiore del male che pretendono di curare. La dipendenza strutturale dello Stato dall’economia di mercato implica anche la fine di ogni velleità politicistica, soprattutto della sinistra; un fatto particolarmente duro da accettare per chi vive ancora nel miraggio del «primato della politica» e si illude che una classe politica efficace, benintenzionata e «progressista», una volta giunta al potere, sia in grado di ripristinare condizioni di piena occupazione, salari fordisti e giustizia sociale. Il malinconico tramonto del regime chavista in Sudamerica e la tragica resa dei neo-socialisti di Syriza in Grecia lo testimoniano a chiare lettere.
Samuele Cerea, 05/07/16
La non-autonomia dello Stato e i limiti della politica1
Quattro tesi sulla crisi della regolazione politica
Mercato e Stato, economia e politica come poli del medesimo campo storico
Nella storia della modernità due principi si sono scontrati regolarmente tra loro in maniera più o meno ostile: mercato e Stato, economia e politica, capitalismo e socialismo. Sempre si è rinnovata l’opposizione tra «homo oeconomicus» e «homo politicus»; ad ogni avanzata della modernità, in occasione di ogni crisi, sono scesi in campo, l’uno contro l’altro armati, «individualisti» e «collettivisti», liberi imprenditori e fautori dell’economia pianificata, manager d’impresa e burocrati di stato, liberisti ed interventisti, apostoli del libero commercio e sostenitori del protezionismo. Negli ultimi decenni questa costellazione ha anche assunto la forma di un contrasto di natura politico-economica tra monetaristi e keynesiani.
Ad uno sguardo retrospettivo entrambe le parti in causa possono vantare successi e fallimenti. Ma come sarà possibile proseguire? In questo momento davanti a noi non c’è solo la fine di un secolo e di un millennio, ma forse anche la fine delle costellazioni e delle contrapposizioni cui eravamo finora abituati, la fine della modernità e, verosimilmente, la fine della politica economica. Ovunque sembra imporsi la percezione che non si abbia a che fare solo con una ricorrenza molto particolare, la fine di un millennio con le irrazionali paure che può suscitare, ma con un’autentica e profonda rottura epocale e con una crisi secolare della società globale.
Il crollo del modello sovietico, fondato sull’economia di Stato, ha condotto, in un primo momento, analisti e teorici a credere che il vecchio conflitto tra i sistemi si fosse risolto una volta per tutte. Il paradigma occidentale, liberale, individualista, basato sull’impresa ed orientato al mercato, avrebbe conseguito un trionfo storico assoluto. La realtà globale ci racconta però una storia assai diversa. La trasformazione delle vecchie economie di Stato in economie di mercato è da ritenersi, grossomodo, fallita.2 Invece, una grave crisi strutturale ha colpito, nel frattempo, le metropoli occidentali. E la scomparsa dell’eterna alternativa, dell’altro polo ideologico della modernizzazione, non ha affatto condotto ad un’epoca di pace nel segno dell’individualismo modellato sulla forma-merce e sul mercato totale. Il modo di vita capitalistico è troppo unidimensionale, il mercato troppo distruttivo e l’ideologia occidentale troppo fievole perché questo sistema possa esistere senza un polo antagonista. Proprio per questa ragione il paradigma occidentale, basato sull’economia di mercato, non è riuscito a colmare il vuoto lasciato dall’economia e dall’ideologia statalista. Ad occupare lo spazio dell’alternativa defunta ha pensato invece il fondamentalismo pseudo-religioso od etnico: un nemico di gran lunga più pericoloso ed imprevedibile di quanto non fosse mai stato il socialismo di Stato. Il fondamentalismo è la giusta punizione per la hybris dell’economia di mercato così come per il fallimento del socialismo, ovvero del polo statalista, pianificatore, collettivista dell’epoca moderna.
Riesaminando il passato è facilissimo dimostrare come il socialismo e l’economia di Stato non fossero in alcun modo due forze contrapposte esteriormente all’economia di mercato occidentale. Così come i due poli di un campo magnetico o di una pila elettrica non si limitano a escludersi vicendevolmente ma si presuppongono l’un l’altro, risultando perciò complementari, qualcosa del genere vale anche per le posizioni antitetiche della modernità. Mercato e Stato, denaro e potere, economia e politica, capitalismo e socialismo non sono reali alternative ma i due poli di un medesimo ed unico «campo» storico della modernità. Questo è vero anche per il dualismo tra capitale e lavoro. Per quanto questi poli possano essere conflittuali, essi, per loro natura, non possono sussistere per se stessi fino a quando esiste il «campo» storico che li ha costituiti nella loro contrapposizione. Questo «campo» è il sistema produttore di merce della modernità, la forma-merce divenuta totale, l’incessante trasformazione di lavoro astratto in denaro e dunque la processualità della conversione in valore, l’astratta economicizzazione del mondo.
È facile comprendere come, in questo sistema, i poli di capitale e lavoro, mercato e Stato, capitalismo e socialismo debbano sempre esistere entrambi quale che sia il travestimento storico ed il peso relativo di ciascuno dei due poli. L’economia di Stato totale di stampo sovietico e l’altrettanto totale liberalismo economico (che si riflette nel pensiero di un Friedrich August von Hayek o di un Milton Friedman) sono solo gli estremi di un intero spettro di ideologie, politiche economiche e forme di riproduzione economico-politiche che, nel complesso, si richiamano tutte in egual misura al medesimo sistema di riferimento, cioè la forma-merce totale della società. Questo significa che anche la pianificazione statale più drastica può operare solo nelle forme del mercato, cioè secondo le categorie della merce e del denaro, come notoriamente fu sempre il caso dell’economia sovietica. Inversamente, anche il radicalismo di mercato più estremo non può sussistere senza il polo politico-statale. Anzi, in tutte le economie di mercato vale la «legge dell’espansione dello Stato e delle attività pubbliche», formulata per la prima volta già nel 1863 dall’economista Adolph Wagner. Da allora questa legge, nelle sue linee essenziali, è stata confermata dallo sviluppo strutturale reale. Gli ideologi neoliberali giudicano questo fenomeno come una «perversione socialista» in seno al capitalismo. Questa tesi è certamente insensata poiché esso non è affatto un’aberrazione, ma uno sviluppo strutturale sistemicamente condizionato. Comunque sia, è senz’altro corretto affermare che il socialismo è da sempre presente nell’economia di mercato e il mercato nel socialismo, se intendiamo per socialismo un elemento più o meno marcato di statalizzazione dell’economia (in questo senso il concetto di socialismo di Stato si adegua perfettamente all’economia sovietica, la quale, nonostante la sua legittimazione ideologica marxista, sul piano teorico, deve molto più a Lassalle, Rodbertus o a Wagner che a Marx)3 .
Le «teorie della convergenza»4 , già a partire dagli anni Cinquanta, avevano indubbiamente riflettuto su questo problema, traendone la conclusione di un reciproco, graduale avvicinamento dei due blocchi sistemici. E siccome l’euforia neoliberale, dopo il 1989, si è decisamente mitigata, tornano a riecheggiare voci che mettono in guardia circa l’unilateralismo radicale del mercato. Sarebbe molto più opportuna, così affermano, una «giusta miscela» di mercato e di Stato. Assistiamo così ad uno spettacolo bizzarro: mentre i socialisti e i keynesiani stanno diventando, in maniera più o meno convinta, neoliberali e monetaristi, questi ultimi, dal canto loro, si stanno convertendo, in maniera più o meno dichiarata, al keynesismo. Perfino negli USA è nata di recente una nuova corrente, rappresentata dagli economisti Paul Romer e Richard Freeman, che vede nell’eccessiva diseguaglianza dei redditi, come effetto dal neoliberalismo radicale, un pericolo per la crescita economica ed esige una qualche forma di intervento compensatorio da parte dello Stato. La pensano così anche i governi neoliberali del Cile e del Messico, allarmati, tra l’altro, dalla rivolta nel Chiapas e dal pericoloso degrado delle condizioni sociali e costretti a reagire attraverso programmi sociali basati sull’intervento dello Stato. Lo stesso vale anche per i riformatori che vogliono introdurre l’economia di mercato nell’Europa dell’Est e nell’ex-Unione Sovietica. Perfino la Banca Mondiale, sotto la pressione della crisi, ha iniziato ad integrare, perlopiù in modo cosmetico, i suoi programmi radicalmente orientati all’economia di mercato con «misure di sostegno» sociali ed ecologiche, impossibili da realizzare senza l’intervento statale.
È dunque possibile che, dopo l’unilateralismo socialista o keynesiano da un lato e quello neoliberale col suo radicalismo di mercato dall’altro, sia finalmente giunto il momento di una convergenza ecumenica, di una «via di mezzo» nel campo teorico e pratico? La questione concerne la reale possibilità che questo paradigma piuttosto fiacco possa venire a capo della secolare crisi strutturale. Si può legittimamente dubitare che sia possibile realizzare una «giusta miscela» di mercato e Stato che possa determinare uno sviluppo ragionevolmente equilibrato del sistema. È invece possibile che, in realtà, il «campo» storico comune dei poli di Stato e mercato, economia e politica, cioè il quadro di riferimento comune del moderno sistema della merce sia giunto ai suoi limiti assoluti. Ma se così fosse sorgerebbero ben altre e assai più fondamentali questioni, che non possono essere elaborate con gli strumenti analitici tradizionali, né tantomeno con un’emulsione eclettica delle terapie che si sono fin qui escluse reciprocamente.
Le funzioni economiche dello stato moderno
Per quale motivo si è verificata una tale crescita del ruolo dello Stato, nel corso della storia, anche nelle economie di mercato aperte dell’Occidente, nonostante l’opposizione delle ideologie ufficiali? In linea di principio, possiamo individuare cinque livelli o settori in cui lo Stato moderno opera e che risultano tutti dal complesso delle dinamiche inerenti all’economia di mercato. In altri termini: nella stessa misura in cui l’economia di mercato si espandeva strutturalmente, assorbendo la riproduzione sociale nella sua interezza e convertendosi in un modo di vita universale, anche lo Stato doveva a sua volta allargare il suo raggio di azione. Si tratta di un’inevitabile relazione vicendevole.
Il primo livello è quello giuridico, ovvero il processo di «giuridificazione»5 . All’espansione dell’economia di mercato, con la relativa relazione monetaria astratta, corrispose parallelamente l’indebolimento della forza coesiva delle forme di relazione tradizionali e premoderne e, di conseguenza, la traduzione della prassi e dei rapporti sociali nella forma astratta del diritto e la loro codificazione giuridica. Tutti gli uomini senza eccezione alcuna, compresi i produttori immediati, devono agire sempre più come moderni soggetti di diritto, poiché ogni relazione si trasforma in un rapporto contrattuale modellato sullo scambio di merci. Lo Stato si trasforma perciò una macchina legiferatrice in servizio permanente, e quanto più si moltiplicano i rapporti in forma di merce o denaro tanto maggiore è il bisogno di leggi e provvedimenti esecutivi. Questo fa sì che si rafforzino anche gli apparati dell’amministrazione statale, in quanto la regolamentazione giuridica deve essere controllata ed eseguita. Questo processo però non è completamente «extra-economico» perché questo apparato amministrativo in permanente espansione deve comunque essere finanziato. L’intensificazione del processo di regolamentazione giuridica esige di per sé un aumento corrispondente dell’onere finanziario da parte dello Stato. Persino la mera regolazione su base giuridica non è immune da costi.
Il secondo livello su cui lo Stato deve incrementare la sua attività riguarda i problemi di natura sociale ed ecologica derivati dal sistema dell’economia di mercato. Nel corso della modernità non si sono dissolti solo i rapporti tradizionali ma anche gli obblighi nei confronti del proprio gruppo sociale e delle generazioni successive. Al posto delle strutture sociali locali, personali, familiari e naturali per l’educazione dei figli, per la cura dei malati e dei bisognosi, per il sostentamento delle persone anziane, sono subentrate progressivamente strutture nazionali, impersonali, pubbliche, compatibili coi rapporti di merce e denaro. Solo lo Stato e non certo il mercato, può assumersi tali oneri, perché come tale il mercato non possiede nessuna sensibilità, nessun organo di senso per tutti quegli stadi dell’esistenza umana che fuoriescono dall’incessante processo di trasformazione del lavoro in denaro o che per loro natura non sono integrabili al suo interno. Questo ambito dell’attività dello Stato, naturalmente, si differenzia in ciascun paese, a seconda del suo grado di sviluppo, della sua storia e della sua posizione sul mercato mondiale, e viene regolamentata in modo più o meno marcato, ma la sua secolare espansione in rapporto all’espansione delle condizioni di mercato è un fatto indiscutibile. Lo stesso vale per i problemi sociali conseguenti ai mutamenti ed ai cicli dell’economia di mercato. La modernizzazione non è affatto una transizione da una fase statica ad una nuova fase statica, ma una transizione da una forma statica ad una forma dinamica di società. La modernizzazione è quindi un processo di mutazione permanente, che mette ogni volta a soqquadro l’intera struttura riproduttiva. Tanto il ciclo congiunturale quanto la «distruzione creatrice» di interi settori – così Joseph Schumpeter definiva, in modo abbastanza eufemistico, i periodici crolli strutturali – rinnovano di continuo il problema della disoccupazione di massa.
In un mondo totalmente monetarizzato e giuridicamente regolato, lo Stato non deve solo occuparsi, integralmente o parzialmente, della riproduzione dell’infanzia, della malattia e della vecchiaia ma anche dello iato tra processi concorrenziali di mercato da una parte e capacità umana di adattamento dall’altra. Processi quali il cambiamento di profilo lavorativo e di abitazione o la creazione di nuovi rami industriali che prendono il posto dei vecchi hanno un’evoluzione più lenta rispetto alla «liberazione» di forza-lavoro in seguito ai processi di razionalizzazione, recessione e paralisi economica. In ultima analisi anche il problema sociale della disoccupazione può essere regolato, almeno parzialmente, solo attraverso l’intervento statale. I processi sociali creati dalla modernità, esattamente come la regolamentazione giuridica, richiedono attività supplementari dello Stato e dunque un incremento delle sue necessità finanziarie.
Negli ultimi decenni ai problemi sociali si sono aggiunti quelli ecologici. Anche nei confronti di questi problemi gli organi di senso del mercato sono del tutto insufficienti. Per sua natura il denaro è astratto e indifferente nei confronti del contenuto sensibile delle cose e la razionalità aziendale, tesa alla minimizzazione astratta dei costi, fa ricadere all’esterno non solo i costi sociali ma anche quelli ecologici. Questo accade perché la natura non è un soggetto giuridico e quindi può essere trattata alla stregua di un deposito di scorie per i costi sistemici. I substrati naturali comuni solo con difficoltà possono trovare posto nella sfera del mercato. L’aria, le acque (falde freatiche, fiumi, oceani) e il clima non si lasciano sottomettere alle relazioni economiche di scarsità, né si lasciano rappresentare in prezzi di mercato così da essere disponibili solo per una domanda con adeguato potere di acquisto. I fondamenti naturali del mondo, in ultima analisi, o sono buoni per tutti o sono intollerabili per tutti. Inoltre i processi di degradazione ecologica sono a lungo termine e si sviluppano nel corso di diverse generazioni, mentre l’orizzonte temporale del mercato è sempre e solo di breve respiro. Infine, l’esternalizzazione aziendale dei costi ecologici può essere internalizzata dallo Stato attraverso tasse o altri provvedimenti solo difficilmente, poiché la concorrenza globale fa sì che la tassazione all’interno dei confini della nazione divenga un’assurdità in termini pratici. Anche i costi ecologici che ne conseguono devono essere sopportati, in ultima analisi, dallo Stato mediante la creazione di istituzioni speciali; di conseguenza il campo d’azione dello Stato e la sua domanda finanziaria si estendono ulteriormente.
Il terzo livello di questa crescente attività dello Stato è rappresentato dagli aggregati infrastrutturali: realizzazione di strade e di una parte del sistema dei trasporti, approvvigionamento energetico e comunicazioni, formazione ed educazione (scuole, università), istituzioni scientifiche, canalizzazione e raccolta dei rifiuti, sistema sanitario etc. Tutti questi settori infrastrutturali si sono sviluppati parallelamente alla sempre maggiore industrializzazione e implementazione scientifica della produzione come fattori necessari ad una produzione totale di merci. Essi però non si identificano con una produzione di merci conforme ai dettami del mercato ma sono piuttosto i presupposti infrastrutturali di una produzione di merci industriale e scientificizzata. Si tratta di input generali, relativi alla società nel suo complesso, che entrano nella produzione economica, senza poter essere a loro volta adeguatamente rappresentati dalla razionalità aziendale (in modo simile ai fondamenti naturali comuni). Non è un caso che gli aggregati infrastrutturali siano realizzati (o sovvenzionati) quasi esclusivamente dallo Stato, in qualsiasi parte del mondo, e per questo motivo si spalanca un ulteriore campo sterminato della riproduzione sociale che ingrandisce le attività dello Stato e le sue necessità finanziarie.
Il quarto livello dell’attività statale o dell’economia statale è l’ingresso in scena, in prima persona, dello Stato in quanto produttore di merci, cioè come agente della produzione per il mercato. Lo Stato come imprenditore o persino, nelle forma più estrema rappresentata dal socialismo di Stato, come «imprenditore complessivo reale» è di per sé certamente un paradosso poiché rappresenta il tentativo da parte del polo politico-statale di annettersi l’intero «campo» della modernità, negando il proprio polo sistemico antagonista, senza però superare il sistema in quanto tale. Si tratta di un paradosso che, pur essendo, in ultima analisi, distruttivo per il sistema, non può essere criticato dal punto di vista «idealtipico» del sistema stesso, poiché si è originato e continua ad originarsi dalle sue contraddizioni reali. Lo Stato-imprenditore si trova innanzitutto nelle società della «modernizzazione di recupero», cioè in quelle società entrate tardivamente nella storia del moderno sistema della merce. Questo non è casuale, poiché in molti paesi solo la macchina statale poteva cimentarsi nel tentativo di raggiungere i paesi più sviluppati attraverso l’accumulazione centralizzata del «lavoro astratto» (Marx). Ma anche nelle nazioni tradizionali della modernità, secondo la specificità della loro storia, sono ancora visibili tracce dello Stato come imprenditore industriale, soprattutto in Francia (si veda il caso di Renault) e in Italia con i suoi enormi complessi industriali ancora statalizzati.
Nonostante la generale e preponderante ideologia privatistica il settore delle imprese di Stato non si è granché ridotto su scala mondiale dopo il 1989. Ad onta di tutti i progetti di privatizzazione esistono ancora importantissime concentrazioni industriali di proprietà dello Stato perfino nei paesi riformisti dell’Europa Orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca). Questo vale ancor più per il resto dell’Europa dell’Est, per le regioni dell’ex-Unione Sovietica, per la Repubblica Popolare Cinese e per l’India. Anche in America Latina la privatizzazione delle imprese di stato ha avuto un successo solo parziale, se si esamina la questione in dettaglio. E anche nell’Europa occidentale una completa privatizzazione delle imprese nelle mani dello Stato appare improbabile, perché fonte di problemi e contraddizioni. Quando sono redditizie le imprese statali migliorano certamente la situazione delle finanze dello Stato, anche se una parte dei guadagni viene cannibalizzata dai costi (spesso gonfiati) per l’amministrazione ed il controllo di tali imprese. Tuttavia, in genere, si tratta di imprese in passivo, non redditizie che vengono tenute in vita per ragioni politiche. Di solito vale il principio: «socializzazione (statalizzazione) delle perdite, privatizzazione dei profitti». Ad essere privatizzate sono così, di regola, le poche imprese statali che danno lucro, mentre lo Stato resta con il grosso delle sue parassitarie imprese invenduto, imprese che rappresentano una «botte senza fondo».
Il quinto ed ultimo livello dell’economia di Stato è rappresentato dalle politiche di sostegno e dal protezionismo. Anche quando lo Stato non entra direttamente in scena come imprenditore, può influenzare indirettamente il processo della produzione di merci, anche al di là della pura regolazione giuridica, tenendo in vita imprese formalmente private mediante sovvenzioni e/o difendendo le imprese nazionali dalla concorrenza estera attraverso misure protezionistiche. Anche da questo punto di vista il socialismo di Stato, con la sua politica di sovvenzioni ed il monopolio del commercio estero, rappresentava solo un caso eclatante, estremo, di una tendenza più generale, che anche nei paesi capitalistici occidentali del sistema della merce ha assunto enormi proporzioni.
Dal blocco continentale di Napoleone sino alla famigerata «black list» americana affiorano anche in Occidente tutte le forme immaginabili di questa imprenditorialità statale indiretta, di questa «sofisticazione del mercato». Attualmente tutti i vecchi Stati industriali dell’Occidente sovvenzionano massicciamente l’industria siderurgica e mineraria e la cantieristica navale. E la burocrazia del settore agricolo della Comunità Europea, ipertrofica al limite dell’assurdo, supera persino il defunto socialismo di Stato. Anche se la globalizzazione dei mercati ha reso praticamente impossibile ogni forma di autarchia nazionale o di «blocco» (per esempio a livello della triade formata da USA, Giappone, UE), prosegue con ancor più forza nel contesto del Gatt e del WTO la «guerra economica mondiale» (Edward Luttwak). Quanto più gli Stati divengono ostaggio dell’economia multinazionale e quanto più pressante è la questione della loro potenzialità economica6 , tanto più forte (invece che più debole) diviene la loro tendenza a confidare negli strumenti del protezionismo e della politica delle sovvenzioni, in questa contraddizione sistemica tra economia globalizzata da una parte e riproduzione all’interno del sistema-nazione dall’altra. Il fatto che questa guerra globale tra istanze economiche rappresenti per lo Stato un fattore sempre più avido di risorse è facilmente comprensibile.
In fin dei conti si può concludere che la legge di Adolph Wagner, enunciata più di cento anni fa, ha solide fondamenta, che neppure l’attuale neoliberalismo ì può eliminare. Si tratta infatti di contraddizioni intrinseche al moderno sistema della merce che si riproducono su scala sempre più amplificata: quanto più totale è il mercato, tanto più totale è lo Stato; quanto più si espande l’economia monetaria fondata sulle merci, tanto maggiori sono i costi preliminari, secondari, conseguenti del sistema e tanto maggiore è anche l’attività dello Stato e il bisogno delle sue finanze. In tutti i paesi la quota statale si aggira oggi attorno al 50% del prodotto sociale, e dappertutto più di metà della popolazione dipende, in modo diretto o indiretto, dall’economia di Stato.
La non-autonomia del subsistema politico-statale e l’illusione del primato della politica
La struttura polare, dualistica del moderno sistema sociale suppone pur sempre l’equivalenza gerarchica dei due poli del mercato e dello Stato o dell’economia e della politica. Ma sebbene entrambi i poli del «campo» non possano esistere di per sé, presupponendo ciascuno dei due il suo opposto, il loro rango non è il medesimo. Si evidenzia invece una predominanza strutturale del polo economico, che talvolta sembra dissolversi a vantaggio del polo politico-statale, ma che tuttavia si ristabilisce ogni volta sempre di nuovo. L’idea di una egemonia strutturale fondamentale del mercato o dell’economia nei confronti dello Stato e della politica viene spesso definita in termini negativi come «economicismo». Ma non si tratta in alcun modo di un errore teorico, ma di una supremazia reale del mercato nei confronti del polo politico-statale.
L’evidenza di tale supremazia può essere dimostrata da un fatto fondamentale: lo Stato non possiede nessun medium primario di regolazione, ma dipende dal medium del mercato, cioè dal denaro. Il medium del «potere», che compete allo Stato e che, in teoria, viene spesso uguagliato al denaro, non possiede una valenza primaria ma solo derivata. Questo perché tutti i provvedimenti dello Stato devono essere finanziati, non solo le misure operative in campo giuridico, infrastrutturale etc., ma anche il «potere» nel senso più concreto del termine, cioè i corpi armati. Perciò neppure l’esercito è un «fattore extra-economico» essendo anch’esso subordinato al mercato per via del problema del suo finanziamento. Il denaro è dunque il medium generale e totale (allo stesso tempo l’assurdo quanto astratto fine in sé della modernità), che sussume in sé anche il polo politico-statale. Lo Stato però non è assolutamente in grado di creare denaro e dipende perciò strutturalmente dal fatto che la società borghese guadagni abbastanza denaro «sul mercato», così da potere finanziare gli oneri della sua attività sempre più intensa. Il denaro «nasce» solo nel cieco processo di mercato, mediante il lavoro astratto e la sua «realizzazione», che però può essere sempre più difficilmente confinato all’interno di un area di sovranità politica, nell’«economia nazionale» di un singolo stato (globalizzazione). In questo modo viene assodata non solo la fondamentale dominanza strutturale del mercato ma anche una fondamentale contraddizione sistemica interna. Lo Stato si autocontraddice poiché, da una parte, le sue misure e attività non hanno altro scopo se non la promozione e il mantenimento del sistema di mercato e della produzione della merce sul suo territorio, ma dall’altra esso deve «estrarre» dal processo di mercato il denaro necessario al finanziamento della sua attività, limitando così l’economia di mercato stessa; in questo modo lo Stato persegue il proprio scopo e simultaneamente lo contrasta.
Questa struttura paradossale si è manifestata sempre più nettamente mano a mano che il sistema della merce assorbiva l’intera riproduzione sociale. Esiste un solo modo «regolare» per lo Stato di finanziarsi e cioè la tassazione dei redditi generati direttamente dai processi di mercato (si tratti, indifferentemente, di tasse dirette o indirette). Ma se i costi preliminari, gli effetti secondari e i problemi conseguenti alla produzione di merci e con essi, le attività statali necessarie, aumentano più velocemente dei redditi generati dal mercato, allora l’espansione della finanza pubblica attraverso lo strumento consueto della tassazione, non solo minaccia di ostacolare i processi di mercato ma addirittura di soffocarli del tutto. Una volta che lo Stato, per procurare il «foraggio» alla «vacca da latte» monetaria del mercato, è costretto ad abbatterla, i limiti del sistema si profilano immediatamente all’orizzonte.
Il problema emerse per la prima volta su larga scala nel corso della Prima Guerra mondiale, allorché divenne chiaro che la moderna conduzione tecnologica della guerra non poteva essere più finanziata con i tradizionali strumenti tributari. Da allora, ad intervalli periodici, si torna a discutere a proposito della «crisi finanziaria dello Stato delle tasse». Da quando Rudolph Goldscheid e Joseph Schumpeter7 hanno formulato teoricamente questo importantissimo problema strutturale con il suo potenziale di crisi, nel 1917-1918, in connessione con l’economia di guerra del primo conflitto, il relativo dibattito non si è mai spento nel corso del Novecento. Non è affatto un caso che il problema di natura finanziaria del «capitalismo di Stato» ovvero dell’«economia di guerra permanente» sia divenuto, sulla nave ammiraglia dell’economia di mercato occidentale, cioè negli USA, un tema rilevante, una questione politica di primo piano; né è un caso che esso venga sempre discusso pressappoco negli stessi termini in cui lo formularono Goldscheid e Schumpeter (per esempio in James O’Connor 1973)8 .
Se lo strumento della tassazione regolare fallisce, lo Stato non può che ricorrere ad un secondo strumento, il cui carattere fondamentalmente azzardato è gradualmente caduto nell’oblio: l’indebitamento nei confronti dei soggetti che partecipano all’economia nazionale. Detto altrimenti, lo Stato non si finanzia più solo con le tasse che riscuote in virtù delle sue prerogative di sovranità e del monopolio della violenza, ma si fa prestare denaro dai suoi cittadini come qualsiasi altro partecipante al mercato finanziario. Oggi questo meccanismo non viene più considerato, in linea di principio, rischioso; si discute semplicemente fino a che quota del prodotto sociale lo Stato si possa indebitare ed essere comunque considerato solvibile.
Esiste tuttavia una ragione che evidenzia la precarietà e il potenziale di crisi dell’indebitamento statale. Per sua natura il sistema creditizio non ha come sua finalità il finanziamento degli oneri statali. I risparmi della società sono concentrati nel sistema bancario sotto forma di capitale monetario, per essere prestati al capitale produttivo in cambio del pagamento degli interessi. Solo così, nella società capitalistica, si rende disponibile, per i processi di valorizzazione ed accumulazione, una quantità di denaro che i suoi proprietari non avrebbero mai potuto impiegare per quel fine. Ma se il denaro imprestato viene destinato al consumo invece che alla valorizzazione produttiva o se la valorizzazione produttiva fallisce, allora esso non adempie al suo scopo e il credito diviene, presto o tardi, «in sofferenza». Se questo fenomeno si verifica su vasta scala, ci troviamo di fronte ad una crisi commerciale creditizia e, alla fine, ad una crisi del sistema bancario.
Ma la maggior parte del credito statale non viene utilizzata per fini di valorizzazione produttiva, ma per le molteplici destinazioni del consumo statale, che non sono mai un lusso ma piuttosto una necessità sistemica (per quanto improduttivi nel senso della valorizzazione). E poiché il capitale monetario viene utilizzato in questo modo invece che per attività capitalisticamente produttive,, il credito statale sfocia sul piano economico nello stesso disastro che ha prodotto i crediti «in sofferenza» su quello commerciale. Tale sviluppo ha anche il suo rovescio: nella stessa misura in cui il capitale monetario viene prestato allo Stato, anche il risparmio sociale, da capitale monetario reale qual era, si converte semplicemente in un diritto di rimborso nei confronti dello Stato: una quota sempre maggiore del risparmio assume in realtà la forma dei titoli di credito statali. Essi tuttavia sono trattati «come se» si trattasse di introiti derivanti da interesse su capitale impiegato produttivamente, anche se il denaro in questione è ormai scomparso da tempo e per sempre nell’Ade del consumo statale. Per questa ragione Marx aveva correttamente definito questi titoli di Stato come «capitale fittizio». Una percentuale enorme della riproduzione così come della ricchezza sociale, apparentemente accumulata sotto forma di «patrimoni monetari», è costituita oggi, su scala globale, da «capitale fittizio» .
Alla fine, un sistema creditizio così strutturato può avere come esito unicamente la rovina del sistema finanziario, cioè una più o meno fulminea «perdita di valore» del «capitale fittizio». A partire dalla Prima Guerra Mondiale essa si è effettivamente verificata in diverse occasioni in diverse parti del mondo e oggi siamo probabilmente alla vigilia di un nuovo colossale shock da svalorizzazione su scala mondiale. Infatti negli ultimi decenni il «capitale fittizio» del credito statale (così come, del resto, l’altra forma del «capitale fittizio» la speculazione commerciale con le relative forme di un «capitalismo da casinò9 dei derivati») si è espanso in misura sempre più spaventosa e inaudita. Anche se il crollo finanziario del credito statale potrebbe essere un processo di lunga durata, esso sarà comunque l’inevitabile risultato di un processo delimitato nel tempo. E sebbene lo Stato possa far ricorso alle sue prerogative di sovranità per dichiararsi «debitore infallibile», questo significherebbe solo l’espropriazione dei suoi cittadini e il tracollo delle finanze nazionali.
Ma c’è anche un problema diretto e a breve termine legato all’accensione permanente di crediti da parte dello Stato. Partecipando al credito lo Stato entra in concorrenza per la domanda di capitale monetario con i capitali commerciali e produttivi che ne abbisognano. Un’accensione creditizia eccessiva, in grado di svuotare, per così dire, il mercato finanziario, può perciò avere un effetto negativo sulla congiuntura, sulla crescita e anche sull’economia nazionale complessiva pari a quello di una pressione fiscale troppo elevata. Se lo Stato ha già prosciugato i risparmi della società e/o desidera impedire i contraccolpi negativi di una domanda statale eccessiva sul proprio sistema creditizio, allora non può che ricorrere allo strumento dell’«indebitamento con l’estero», presupposta la sua solvibilità, servendosi dei mercati finanziari internazionali. Per questa via il problema di fondo non viene minimamente risolto, ma cambia solo di forma, implicando nuovi e supplementari potenziali di rischio a livello internazionale. È così che numerosi paesi, soprattutto nell’Europa dell’Est, in America Latina e in Africa, sono caduti nella «trappola dell’indebitamento». Ma anche alcuni grandi Stati industriali dell’Occidente sono ormai alla mercé dall’indebitamento, prima di tutto gli USA, costretti oggi da onorare il più colossale debito estero del mondo. In questo momento il sistema finanziario globale versa in una condizione sempre più precaria anche a causa dell’indebitamento internazionale dell’insieme degli Stati.
Quando non funziona più niente e lo Stato non è più in grado di finanziarsi né con le tasse, né con la raccolta di crediti all’interno o sui mercati esteri, l’ultima ratio potrà essere solo l’emissione di banconote: lo Stato ordinerà alla propria Banca centrale di creare dal nulla, per decreto, «denaro improduttivo». Lo Stato si arroga così la facoltà di creare denaro contro le leggi del sistema di mercato, negando con la forza, in quanto polo politico, la supremazia strutturale del polo economico. La punizione immediatamente conseguente assume, come è noto, le sembianze dell’iperinflazione. Dalla fine della prima guerra mondiale tale fenomeno si è verificato periodicamente in seguito alla creazione statale di denaro improduttivo ed è oggi una condizione strutturale permanente per un numero sempre maggiore di paesi. Contro tutte le illusioni circa il «primato della politica» è ormai da tempo un fatto assodato che lo Stato e la politica, a causa del denaro, sono fondamentalmente dipendenti dal mercato e dall’economia.
Sebbene tutte le forme strutturali e tutti i problemi di questa dipendenza siano ormai noti, ci si aggrappa caparbiamente all’idea che il polo politico-statale sia gerarchicamente pari a quello dell’economia e del denaro o che, «in ultima istanza», possieda una competenza regolativa nei suoi confronti. E sebbene nel corso del XX secolo, i sistemi finanziari nazionali ed internazionali abbiano subito pesanti e ripetuti crolli e che oggi siano ancora più fragili che ieri, in generale la speranza, analoga a quella dei giocatori d’azzardo, è che il sistema globale della merce, con la sua gigantesca sovrastruttura finanziaria, continui a funzionare «in un modo o nell’altro» nonostante le sue contraddizioni logiche interne, semplicemente perché finora «in un modo o nell’altro» è sempre riuscito a sopravvivere. La possibilità di un limite assoluto non viene neppure presa in considerazione. Anche nei paesi in cui il sistema finanziario è ormai allo sfacelo, vengono regolarmente varati nuovi «piani» economici e finanziari, che dovrebbero superare definitivamente il disastro. Ma nessuna politica economica potrà mai modificare la non-autonomia dello Stato nei confronti del denaro.
La crisi secolare della regolazione politico-statale
La barriera strutturale sistemica del «campo» complessivo della modernità, che si eclissa, per così dire, nella prassi politica quotidiana e nello business as usual scientifico dell’impresa accademica, affiora con chiarezza ad una analisi storica del processo di modernizzazione considerato nella sua totalità. In totale contrasto con l’ideologia neoliberale è possibile dimostrare come, alla fine del XX secolo, i costi sistemici dell’economia di mercato stiano iniziando a superare i suoi rendimenti in modo assoluto e irreversibile. Il problema, un tempo virtuale e periodico, per cui i costi di mantenimento del sistema, che si traducono nelle attività dello Stato, finiscono col divorarne la sostanza diviene adesso reale e duraturo. Questo significa che un limite storico, assoluto del sistema è ormai stato definitivamente raggiunto ed assume le forme fenomeniche di una lenta e progressiva crisi di finanziabilità di tutti i settori funzionali indispensabili al sistema stesso.
Servono a poco le lamentele da «austero padre di famiglia» ottocentesco circa l’«ossessione dello Stato per l’indebitamento», cui sono più che mai inclini i politici conservatori e populisti. La critica rivolta ai «costi eccessivi dello Stato» prende in considerazione ottusamente solo il lato monetario e trascura completamente il fatto che i costi dell’attività dello Stato non sono il risultato della sua cattiva conduzione finanziaria, ma rispecchiano il livello di civilizzazione della modernità. La corruzione politica, un fenomeno che affligge oggi tutti i paesi, non è la causa della crisi ma una sua conseguenza. Alcuni falchi dell’economia di mercato sarebbero sicuramente pronti a liquidare il livello di civiltà delle masse umane non più redditizie a causa della scarsa finanziabilità, abbandonandole alla barbarie. La speranza viene probabilmente riposta nella sopravvivenza di una riproduzione capitalistica limitata ad una minoranza globale in poche «isole di normalità». Ma si tratta di una duplice illusione. Per prima cosa la barbarie provocherebbe un effetto-boomerang che convertirebbe il risparmio dei costi per i programmi sociali, le infrastrutture etc. in costi per la «sicurezza», innalzandoli per giunta a livelli astronomici. Inoltre il livello civilizzatore delle infrastrutture, dell’istruzione e della scienza, della sanità e dei mezzi di trasporto pubblici, dell’eliminazione dei rifiuti etc. non rappresenta un lusso superfluo ma è un fattore necessario per la funzionalità dell’accumulazione capitalistica stessa. Una produzione basata sull’applicazione generale della scienza, con strutture di interconnessione estremamente sensibili, non può galleggiare a lungo su di un oceano di analfabetismo, miseria, violenza, spazzatura, malattia e disperazione. Se l’attuale grado di civiltà non risulta più finanziabile, questo è solo un sintomo del fatto che la contraddizione interna del sistema è ormai giunta alla sua piena maturazione. L’economia di mercato occidentale ha prodotto potenzialità che la travolgono e che non si lasciano più imprigionare nelle forme del moderno sistema della merce.
Il paradosso per cui i costi necessari al sistema, dato l’attuale livello di produttività e scientificizzazione, sovrastano i limiti di carico del processo di valorizzazione non può essere risolto nemmeno ricorrendo all’idea di «privatizzazione» tanto cara all’ideologia neoliberale. Se le infrastrutture del sistema costano più di quanto il sistema possa rendere, allora non è in alcun modo possibile ovviare a tale miseria semplicemente mediante un cambiamento di forma giuridica, poiché il problema, dal punto di vista sostanziale, non muta affatto. Questo vale anche per tutte quelle sfere in cui lo Stato, contro la logica del sistema, intraprende direttamente la produzione di merci per il mercato. Se perfino in questo settore le privatizzazioni procedono ovunque in modo stentato, lo si deve a solide ragioni economiche, che non possono essere ricondotte in nessun caso a una «falsa ideologia socialista». La produzione potrebbe essere senz’altro resa «più efficiente», cioè maggiormente redditizia, da parte di un management privato orientato al mercato. Ma «efficienza» significa anche razionalizzazione, chiusura di interi settori produttivi, dismissioni di massa. Paesi come la Russia, l’India o la Cina dovrebbero in tempi brevi, condannare all’impoverimento più di metà della loro popolazione. la conseguenza non potrebbe che essere la guerra civile. Se le imprese di Stato non possono più essere sovvenzionate e la privatizzazione, simultaneamente, accelera ancor più il collasso del sistema allora ci troviamo di fronte ad una classica situazione di paralisi.
Questo è ancor più vero nel settore delle infrastrutture. Il fatto che lo Stato amministri in prima persona (costretto in questo dalla necessità) imprese per la produzione di merci è sicuramente disfunzionale per il sistema ma lo è ancor più l’assunzione simmetrica degli oneri statali nel campo delle infrastrutture da parte di imprese private, come se si trattasse di un’ordinaria produzione di merce. Per sua natura l’infrastruttura è un input per la società nel suo complesso, che per ottemperare alla sua funzione deve servire l’intero territorio. Ma una volta che gli aggregati infrastrutturali vengono assoggettati alla relazione economica fondata sulla scarsità e funzionano solo in rapporto ad una domanda di mercato diretta, con potere di acquisto, essi abdicano al loro ruolo di condizioni generali della produzione di merce. È impossibile privatizzare gli input della società tutta intera, senza al contempo danneggiare gravemente il processo di valorizzazione del capitale. Questo perché, in primo luogo, tali input sarebbero troppo costosi e, secondariamente, non sarebbero mai disponibili, nella misura sufficiente, nel luogo e al tempo giusto, neppure per i richiedenti dotati di potere d’acquisto.
In ogni parte del mondo, le privatizzazioni di alcuni settori delle infrastrutture finora attuate hanno confermato questo problema. In Argentina le imprese dei centri urbani non trovano più abbastanza manodopera perché il trasporto pubblico è stato liquidato o è troppo caro, cosicché i lavoratori delle periferie non possono più permettersi il viaggio per raggiungere il posto di lavoro. Negli USA gli investitori giapponesi lamentano il fatto di non poter assorbire la manodopera locale (local content) perché i lavoratori del posto non hanno la competenza necessaria per utilizzare macchinari troppo sofisticati. In Inghilterra l’industria paga l’inefficienza della rete telefonica pubblica dopo la privatizzazione che doveva renderla redditizia, al punto che i funzionari in missione esterna devono essere equipaggiati con radio-telefoni a costi molto elevati. In Ungheria gli investitori tedeschi hanno constatato con sgomento che i vantaggi dovuti ai bassi salari vengono vanificati dalle continue interruzioni dell’erogazione di corrente, che esigerebbero, in pratica, la costruzione di una centrale elettrica in proprio. Per tutti gli aggregati infrastrutturali vale la seguente regola: quanto più sono privatizzati tanto più diventano scarsi e costosi. Nessuna economia nazionale può tollerare questo fatto troppo a lungo. Ovunque lo Stato si liberi dell’infrastruttura, vendendola ai privati, arriva ben presto il momento di pentirsene.
Ma la scure della crisi sistemica si abbatte anche sul processo di valorizzazione. Non solo l’attività indispensabile dello Stato diviene troppo onerosa, ma anche la valorizzazione del capitale in quanto tale si affievolisce in tutto il mondo, un ciclo dopo l’altro. La riproduzione secondo le leggi dell’economia di mercato sembra minare il suo stesso fondamento. Uno sviluppo finora ignorato, anche dalle teorie della sinistra. Regna generalmente la convinzione secondo cui, presto o tardi, l’accumulazione del capitale tornerà a mettere le ali mediante un incremento della produttività. Questa argomentazione si fonda, tuttavia, su di un colossale abbaglio. Il nocciolo del problema consiste nel fatto che, a causa dell’incremento della produttività e della razionalizzazione, viene generato sempre meno valore per ogni singolo prodotto e per unità di capitale, poiché il «valore» è un concetto relativo, misurato sulla base di un certo livello di produttività (storicamente sempre crescente) all’interno di un dato sistema di riferimento capitalistico. Il processo capitalistico mette a repentaglio la sua stessa esistenza, riducendo al minimo la sua reale sostanza (il lavoro astratto).
Se nel passato si poté superare la crisi sistemica implicita in questa contraddizione, lo si dovette solo al meccanismo di compensazione che consiste nell’espansione del modo di produzione stesso. La razionalizzazione operata da Henry Ford aveva già drasticamente diminuito la quantità di lavoro per unità di prodotto. Allo stesso tempo però, ad esempio, il prodotto automobile divenne più economico, entrando nel consumo di massa, e il mercato automobilistico conobbe così un repentino ampliamento. Anche se era necessario meno lavoro per ogni singola automobile, se ne impiegava molto più di prima a causa del sovraproporzionale incremento della produzione di automobili. La razionalizzazione fordista visse pertanto di un’espansione continua dei mercati, del lavoro di massa, dei salari di massa e del consumo di massa. Si trattò fondamentalmente di un processo di assorbimento di tutte le produzioni di merce locali, non capitalistiche e dell’economia domestica di sussistenza da parte della logica della razionalità aziendale.
Ma oggi questa riserva storica si è ormai esaurita, come ha dimostrato la ricerca del sociologo tedesco Burkart Lutz10 . Adesso la razionalizzazione postfordista, basata sulla microelettronica, e la globalizzazione dei mercati dei beni, del denaro e del lavoro, hanno reso un’immane quantità di lavoro non più redditizia, al punto che il vecchio meccanismo storico di compensazione inizia a sgretolarsi. In altre parole: per la prima volta nella storia del capitalismo la rapidità con cui la razionalizzazione elimina posti di lavoro supera la velocità di espansione dei mercati. La produttività accelera sempre più, mentre l’espansione del modo di produzione è, come tale, praticamente cessata. Perciò la speranza in una nuova avanzata dell’accumulazione è a dir poco ingenua. L’autocontraddizione fondamentale di una società che si basa sull’incessante trasformazione di quanta di lavoro astratto in denaro ma che non è più in grado adesso di mobilitare in modo redditizio un numero sufficiente di tali quanta sul livello di produttività da essa generato, non è più un fenomeno ciclico bensì strutturale. Ma quanto più debole diviene l’accumulazione reale tanto meno finanziabile risulta il credito statale, ma quanto meno lo stato riesce a finanziarsi tanto maggiori divengono i suoi compiti a causa della crisi strutturale dell’accumulazione. È questo il circolo vizioso in cui si trova intrappolata la modernità fondata sulla produzione di merci.
Sotto questo aspetto è necessario anche criticare la «teoria della regolazione»11 che si fonda su modelli di accumulazione regolati politicamente e plasmati culturalmente. Essa presuppone un’infinita «capacità di adattamento» da parte del capitalismo che si limiterebbe a transitare da un modello di accumulazione al successivo. Questo modello teorico sembra alludere al mito dell’eterno ritorno e, nella misura in cui si ispira alle dottrine marxiste, potrebbe essere definito come un «marxismo buddhista». Se esaminiamo la storia della modernità nel suo complesso si tratta di un modello quanto meno singolare. Certo, la regolazione politica gioca un ruolo sempre più importante nel sistema dell’economia di mercato, in quanto cresce la necessità sistemica delle funzioni statali, come già Adolph Wagner aveva constatato. Ma alle nostre spalle non c’è una storia interminabile di crisi, prosperità e «modelli di accumulazione».
Di fatto, a rigore, esiste un unico modello compiuto di accumulazione e di regolazione, che è simultaneamente il primo e l’ultimo: quello fordistico. Precedentemente, nel XIX secolo, la produzione capitalistica non poteva ancora funzionare pienamente sulla base dei propri presupposti, le crisi stesse potevano essere ancora influenzate dalle crisi agrarie pre-industriali e la stragrande maggioranza della popolazione, anche nei paesi più sviluppati, non era stata assorbita o lo era stata solo in parte, nel processo di razionalità economico-aziendale. E come vi può essere un «dopo» se con sempre meno lavoro si possono produrre sempre più cose è sempre meno potere di acquisto? Una prosperità globale del mercato si realizzerà nel futuro solo se, alla stregua di un gioco di prestigio, il capitale si accumulasse senza lavoro. La «Jobless growth» è un illusione che può essere mantenuta solo faticosamente (fino al crollo finanziario) grazie alla creazione su scala globale di «capitale fittizio», che non proviene da reali processi produttivi.
Ma un «modello di accumulazione» meramente «politico» è ancor meno possibile. La «teoria della regolazione» sembra fomentare illusioni politiciste a partire da argomentazioni basate sulla teoria dell’accumulazione. Ma prima dovrebbe verificarsi un nuovo ciclo di accumulazione, che solo in un secondo tempo potrebbe essere regolato politicamente, non certo il contrario. Tuttavia nessuna politica ha mai estratto magicamente dal cilindro una nuova spinta accumulativa come si trattasse di un coniglietto. Non sono certo le leggi fondamentali e cieche della produzione capitalistica di merci ad essere passibili di regolazione politica ma solo le forme in cui essa si manifesta. Il modello fordista poteva contare su di un’accumulazione fondata su un processo sistemico desoggettivato, mentre il modello di regolazione politica può operare solo su un livello derivato. Se oggi la riproduzione sociale è schiacciata tra il mercato e lo Stato, è necessario escogitare un’alternativa che non si riduca al mero «aspettare Godot», cioè il prossimo «miracolo economico» del sistema produttore di merci; miracolo che non si avvererà mai più.
Traduzione dal tedesco di Samuele Cerea
Tutte le note sono a cura del traduttore
Note:
1. R. Kurz, Die Unselbständigkeit des Staates und die Grenzen der Politik. Vier Thesen zur Krise der politischen Regulation (1994). In una precedente versione avevo reso Unselbständigkeit come «perdita di autonomia», ma la dipendenza della sfera politico-statale da quella economica è strutturale, non solo contingente, magari determinata dall’egemonia neoliberale, cui sarebbe possibile rimediare mediante un’inversione di rotta ideologica. In realtà lo Stato moderno, anche nelle sue versioni più «interventiste» (economie di guerra, fascismi, stalinismo e altre dittature dello sviluppo etc.) non fu mai veramente autonomo e «padrone» della sua economia nazionale. Lo era forse lo Stato protomoderno che, su basi sociali molto differenti, promosse lo sviluppo di una proto-economia monetaria a scopi strumentali, cioè come fonte di entrate tributarie, nel contesto di una riproduzione sociale ancora largamente sganciata dagli scambi mercantili.
2. Nonostante i presunti «miracoli economici» dei paesi dell’Europa Orientale, legati, in buona parte, a situazioni contingenti e alla massiccia concessione di crediti da parte delle banche occidentali, la situazione dell’Europa Orientale è effettivamente critica. Va detto inoltre che in questi paesi ampi settori della popolazione vivono ancora al di sotto (talvolta molto al di sotto) del livello del socialismo reale. Questo contribuisce a spiegare la proliferazione di organizzazioni, gruppi e partiti ultraconservatori, antieuropeisti, xenofobi quando non apertamente fascisti, razzisti e antisemiti in queste regioni apparentemente benedette dalla mano del mercato.
3. A questi nomi si potrebbe benissimo aggiungere quello di Fichte, il cui Stato commerciale chiuso andrebbe considerato come un manifesto teorico dello statalismo moderno (si veda a questo proposito R. Kurz, Der Kollaps der Modernisierung, 1991)
4. La teoria della convergenza (Kerr et al., 1960) nella sua forma originaria ipotizzava per le società industrializzate, indipendentemente dalla loro natura socio-economica, un’omogeneizzazione delle strutture in seguito a pressioni di sviluppo comuni (analogamente alla convergenza evolutiva delle specie biologiche). Venne usata talvolta come sponda teorica dai sostenitori della cosiddetta «terza via», nella forma di un modello socio-economico ibrido tra il capitalismo concorrenziale e lo statalismo economico, la cui realizzazione pratica avrebbe potuto essere di volta in volta il corporativismo scandinavo, il capitalismo renano o, addirittura, l’«autogestione operaia» jugoslava.
5. Verrechtlichung nel testo originale. Il significato corrente è quello di sistemazione giuridica di una materia o di un ambito. Kurz però allude anche al processo storico che ha imposto l’universalismo astratto delle norme giuridiche moderne laddove esse non esistevano affatto.
6. In tedesco Standortfrage. L’espressione Standort fa riferimento a una serie di parametri che possono rendere uno Stato (ma anche a una regione, a una municipalità etc.) capace di competere nella concorrenza economica (ad esempio la capacità di attrarre investimenti grazie a un mercato del lavoro flessibile o agevolazioni fiscali etc.).
7. R. Goldscheid, J. Schumpeter Die Finanzkrise des Steuerstaats. Beiträge zur politischen Őkonomie der Staatsfinanzen. Rudolf Goldscheid (1870-1931), seguace delle teorie di Haeckel, eugenista, pacifista, viene come uno dei fondatori della sociologia economica.
8. J. O’Connor, The Fiscal Crisis of the State (1973).
9. L’espressione «capitalismo da casinò» venne ideata da Susan Strange (1986) in riferimento all’egemonia dei mercati finanziari rispetto alla cosiddetta economia reale. Già a suo tempo J.M. Keynes aveva paragonato la speculazione borsistica alle attività di una casa da gioco.
10. Nel saggio del 1989 Der kurze Traum der immerwährenden Prosperität (Il sogno effimero della prosperità infinita).
11. La teoria della regolazione (Aglietta et al.) nacque in Francia nei primi anni Settanta, come reazione alla fine traumatica dell’epoca fordista (fine della stabilità dei cambi monetari, stagflazione etc.). Il cosiddetto «modello di accumulazione» dei regolazionisti prevede tre componenti: un regime di accumulazione, un livello «istituzionale» e un modo di regolazione (livello giuridico-normativo). In Das Weltkapital Robert Kurz conduce un’ampia critica della teoria della regolazione, dimostrandone il legame con altri filoni teorici, ad esempio con il pensiero di Gramsci.
Grazie di cuore, Samuele, di questa nuova traduzione. E un augurio di poter presto vedere pubblicato in Italia un altro libro di Kurz ancora non disponibile nella nostra lingua.
Finalmente dei discorsi che dicono qualcosa in fatto di politica e di economia!!
Vista l’importanza capitale degli argomenti trattati nel vostro sito, consigliatomi da Norbert Trenkle – del quale sono un sostenitore, anche del gruppo tedesco Krisis -, vi ho collegato con link al mio sito personale, il quale in realtà tratta di architettura e urbanistica. Ma a parte le varie connessioni dell’architettura con l’economia, quella più importante è che a capo di tutto c’è appunto l’anarchia del mercato, la quale decide tutto, ma proprio tutto, al posto nostro e di chi ci dovrebbe rappresentare.
Spero che parlandone diffusamente, un giorno si riusciranno a smascherare tutte le menzogne del neoliberismo economico e gli effetti nefasti sulla società e l’individuo, dovuti allo smantellamento delle strutture dello Stato sociale.
Michele Leonardi