Presentiamo qui l’edizione rinnovata ed ampliata del Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. L’originale apparve in Germania nel “lontano” giugno 1999, in forma autoprodotta, e in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Successivamente in Germania sono uscite altre tre edizioni, la seconda già nel settembre 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel gennaio 2019, in occasione del ventennale della prima uscita. In quest’ultimo caso, il Manifesto è stato corredato di una post-fazione scritta da Norbert Trenkle, che includiamo nel presente libro, con il quale in qualche modo proviamo a celebrare, anche in Italia, il ventennale della prima edizione italiana, arricchendola con altri testi.
Da quel primo anno, in cui è stato elaborato e ha preso forma il Manifest, molta acqua è passata sotto i ponti. Si sono succedute – e continuano a succedersi – guerre apocalittiche, movimenti sono nati e morti, emergenze su emergenze si sono avvicendate ed eventi decisivi hanno cadenzato la nostra esistenza. A fare da filo conduttore di tutti questi avvenimenti, solo apparentemente slegati fra loro, un motivo è però rimasto costante: la crisi strutturale del sistema capitalistico, che ha preso forma compiuta in modo inquietante e risoluto – benché già presente in nuce anche prima – almeno dalla fine degli anni ‘70, cioè in coincidenza, non casuale, della fine dei cosiddetti “30 anni gloriosi” e il boom economico che li aveva caratterizzati.
Ma cosa c’entra il “lavoro” con tutto questo? Soprattutto, perché muovergli una “critica” in tempi di crisi, quando molti, anzi, ne lamentano a gran voce la mancanza?
Secondo la teoria della Wertkritik (in italiano: Critica del Valore)1, corrente di pensiero da cui proviene anche il presente libro, questa crisi, letta come “fondamentale”, nel senso anche di definitiva – dalla quale cioè il sistema del capitale non può tornare indietro e dalla quale non può risollevarsi –, è determinata proprio dalla crisi del lavoro, a sua volta provocata dalla “evoluzione” tecnico-scientifica delle modalità attraverso le quali si esplica il lavoro stesso. La “rivoluzione” originata dall’applicazione della micro-elettronica alla produzione, scatenata principalmente dalla competizione fra capitalisti, ha dato vita ad una gigantesca produttività, capace di sfornare quotidianamente, e senza sosta, merci come nemmeno la mitologica cornucopia di Acheloo sarebbe riuscita a fare. Come rovescio della medaglia, la micro-elettronica ha letteralmente espulso dal ciclo produttivo una quantità immensa di forza lavoro umana produttiva (nel senso del capitalismo). Masse intere di persone rese “inutili”, cioè improduttive dal punto di vista della valorizzazione capitalistica, sommate ad una produttività ciclopica, ma sempre più difficile da valorizzare monetariamente, provocano una crisi senza ritorno per la valorizzazione stessa.
Non è pertanto un caso che il capitale si rifugi sempre più nella finanziarizzazione, unico vero appiglio rimasto a questo sistema in crisi, per evitare il crollo finale. La finanziarizzazione, lungi da essere l’astuto escamotage di un pugno di avidi speculatori nullafacenti a danno della produzione sana degli onesti lavoratori, è piuttosto l’àncora di salvataggio di questo sistema alla canna del gas. Non ci sono più “mani invisibili” né nuovi mercati che possano salvarlo. Neanche l’esternalizzazione nelle periferie da parte dei centri capitalistici in cerca di luoghi dove i costi delle materie prime e della forza-lavoro siano ridotti ai minimi termini è più in grado di rappresentare una via d’uscita2.
Si tratta dunque, diciamo così, di prendere atto che il “lavoro” è diventato obsoleto, proprio da un punto di vista capitalistico. Ma se questo può rappresentare una disgrazia in una società del lavoro, potrebbe essere una festa in una società che non si basa più sul lavoro per la propria esistenza.
È bene ricordare che il lavoro che i teorici della Wertkritik contestano non è certo l’operare umano in sé (quello anzi viene “valorizzato”, utilizzando questo termine nel senso migliore possibile e opposto a quello del capitalismo). Il lavoro che viene contestato è quello che Marx definisce “lavoro astratto”, cioè quello il cui scopo non è di produrre beni e servizi per il benessere delle persone, magari in un contesto di rispetto consapevole del mondo, ma quello di generare profitto e aumentare feticisticamente l’accumulazione monetaria in vista di nuovi investimenti che riproducano lo stesso ciclo ad infinitum. Per il “lavoro astratto” produrre bombe atomiche, biciclette o alimenti bio è esattamente la stessa cosa, quello che importa è che il suo risultato riesca a garantire una produzione di plusvalore attraverso la quale rinnovare, e incrementare, ogni volta il ciclo non virtuoso dell’accumulo di capitale3.
Per questo motivo abbiamo ritenuto importante riproporre questo testo, che affronta una tematica che pare quanto mai lontana dal sentire comune e dalle cronache dell’oggi – ma invece quanto mai centrale per le sorti del capitalismo (e quindi anche del nostro quotidiano).
Per finire, un brevissimo accenno ai testi proposti nel libro.
Innanzitutto, abbiamo mantenuto il testo del Manifesto contro il lavoro nella versione originale, cioè quella uscita in Italia con DeriveApprodi nel 2003. I concetti espressi crediamo restino validi sine die, almeno finché domina la società del lavoro. Alcuni riferimenti e nomi invece sono decisamente anacronistici, perché riferiti esplicitamente all’epoca della pubblicazione. Li lasciamo perché, di fatto, rappresentano un modus universale di essere del potere e delle sue “maschere di carattere”.
Il testo di Anselm Jappe Dalla critica del valore alla critica del lavoro, pubblicato con il titolo Il Gruppo Krisis, la critica del lavoro e il “primato civile degli italiani” nell’edizione citata del 2003, dove appariva come post-fazione, diventa qui la pre-fazione, per l’occasione rivista e ampliata dallo stesso Jappe, cui seguono il Manifesto contro il lavoro vero e proprio e gli altri due testi già contenuti nell’edizione del 2003, cioè La dittatura del tempo astratto, di Robert Kurz, e Il superamento del lavoro. Uno sguardo alternativo oltre il capitalismo di Robert Kurz e Norbert Trenkle, che all’epoca ancora collaboravano. A chiudere, il testo di Norbert Trenkle a cui abbiamo già accennato, cioè Il “Manifesto contro il lavoro” vent’anni dopo, dove Trenkle fa il punto sugli esiti del Manifest e ne ribadisce l’attualità, sia pur sottolineandone alcuni aspetti critici.
Infine, come appendice tre brevi ma significativi quanto densi testi, che crediamo possano fungere da degno complemento, ed anche indiretto approfondimento, delle tematiche sollevate nel presente progetto editoriale.
Il primo è una intervista, dal titolo Il canto del cigno dell’economia di mercato, rilasciata al giornale politico TERZ da Robert Kurz nell’aprile 2000, poco dopo l’uscita del suo libro più famoso, lo Schwarzbuch Kapitalismus, cioè “Libro nero del capitalismo”4. Ciò che rende particolarmente interessante questa breve intervista è l’importante quanto raro accenno che fa qui Robert Kurz alla necessità di un’altra “soggettività” e un’altra “cultura” come presupposti essenziali e irrinunciabili per un autentico cambiamento. La “lotta” contro la formattazione capitalistica del nostro essere è altrettanto importante quanto quella contro il valore e la mercificazione del mondo.
Il secondo è un recente scritto di Norbert Trenkle (qui leggermente modificato, in accordo con l’autore), pubblicato inizialmente nel 2022 sul giornale tedesco Jungle World, dal titolo Rottura qualitativa. Sull’attualità della critica del lavoro. Qui Trenkle ribadisce, in modo estremamente sintetico, le motivazioni di fondo per le quali il lavoro è corresponsabile, con il capitale, dei mali cui è sottoposto il nostro vivere sociale, e quanto la necessità di liberarsene sia ancor più stringente e necessaria oggi, in tempi di crisi estrema per la valorizzazione capitalistica.
Il terzo, infine, è un importante testo di Robert Kurz che ha come titolo Il duplice Marx. Questo testo, scritto in occasione dei centocinquanta anni dall’apparizione del Manifesto del Partito Comunista, apparve sul giornale brasiliano Folha de Sao Paulo, con cui Kurz ha collaborato a lungo. Qui Kurz indica acutamente come il Marx del movimento operaio, quello osannato dai molti proseliti che spesso usano proprio il Manifesto del Partito Comunista come “libro sacro” per giustificare la loro adesione incondizionata alla fede operaia, non sia l’unico, ma esista un “altro Marx”, un Marx “esoterico” che traspare dai suoi scritti ma che è rimasto indietro rispetto a quello del “movimento operaio” e del “lavoro”. Questo altro Marx, critico invece spietato del sistema capitalistico nelle sue radici, è quello che interpreta e in un certo senso “disvela” i meccanismi interni di questo sistema, e il loro necessario incamminarsi verso una crisi definitiva che si preannuncia drammatica e duratura. Un Marx “altro” da riprendere oggi, in un momento storico in cui la sua lettura della crisi del capitale, rimasta finora per lo più sottotraccia, si rivela particolarmente attuale.
Una curiosità: quest’ultimo testo (Il duplice Marx) termina richiamando la necessità di un “nuovo” Manifesto, la cui lingua deve essere ancora trovata. Non sappiamo se il presente Manifesto, questo “contro il lavoro”, sia già quello a cui alludeva Kurz con questa frase. Crediamo comunque sia un testo, anche perché volutamente “irriverente” e “provocatorio” rispetto a molte tesi classiche della sinistra, estremamente stimolante, in grado di porre problemi e sollevare questioni di importanza fondamentale in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, che sembra ben lungi dal trovare soluzione.
Per ultimo, un doveroso ringraziamento ad Afshin Kaveh, la cui generosità, disponibilità e competenza nel revisionare i testi ci ha messo in grado di portare a termine in tempi congrui e con il dovuto rigore la presente pubblicazione, e a Sonia Bibbolino, la quale ha reso possibile un’ultima revisione complessiva del libro, emendandolo dai molti refusi.
Buona lettura.
Massimo Maggini per la redazione dell’Anatra di Vaucanson
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Note:
1.Per approfondimenti sulla Wertkritik e la sua storia, può essere utile la consultazione di questi due articoli: Anselm Jappe, Una storia della critica del valore attraverso gli scritti di Robert Kurz e Klaus Kempter, L’importanza della critica del valore e della critica della dissociazione-valore per la scienza della storia
2. A questo proposito, cf. Robert Kurz, Das Weltkapital, Tiamat, 2005 (tr.it.: Il capitale mondo, Meltemi, 2022).
3. Per approfondimenti sul concetto di “lavoro astratto” rimandiamo alla prefazione di Anselm Jappe Dalla critica del valore alla critica del lavoro.
4. Un titolo, ad onor del vero, che non era quello che l‘autore aveva pensato per quest’opera. Il titolo che aveva prescelto (die Mühlen des Teufels, in italiano “I mulini del diavolo”) non indica, infatti, una semplice replica ai vari “libri neri” sul comunismo, in voga all’epoca. Piuttosto, richiama una critica feroce e sostanziale al sistema del capitale all’interno del quale Kurz pone anche il modello del socialismo reale, “vittima” soltanto presunta della potenza capitalistica, la quale – secondo la vulgata – avrebbe vinto questa lotta fra titani, solo apparentemente opposti. L’intervista è rintracciabile, comunque, anche in rete, all’indirizzo https://anatradivaucanson.it/dibattiti/il-canto-del-cigno-delleconomia-di-mercato, corredata di un commento ad hoc, grazie al quale è possibile approfondire l’argomento.
Presentazione impeccabile: chiara, cristallina. Per altro a suo tempo, intorno al 2012, ho coperto dell’esistenza del Manifesto e del Gruppo Krisis proprio grazie all’Anatra di Vaucanson. Non ricordo più come ci sono arrivato a l’Anatra, allora stavo ancora cercando di capire il perché della crisi economica del 2008, documentandomi su tanti saggi di economisti, sociologi, ecc., e non trovando una vera risposta, plausibile, sensata, chiara, evidente. Però so che a far data da allora, momento in cui arrivo a scoprire e leggere il “Manifesto contro il lavoro”, finalmente ho capito perché non funziona più un. Aggiungo una mia opinione personale a quanto sopra… “Il Manifesto contro il lavoro” non è solo di sinistra, ma di tutti i viventi, le persone, gli esseri umani che costituiscono questa società e tutte le società del mondo. E’ patrimonio mondiale culturale dell’umanità. Vale immensamente di più di tutto l’oro del mondo, è uno strumento di analisi e di sintesi più potente di tutte le bombe nucleari di . messe insieme. Però escludiamo dal novero degli esseri umani quel numero limitato di persone che se ne possono infischiare dei problemi del prossimo e che di fatto se ne fregano del prossimo. Ma quel tipo di persone nemmeno vanno considerati come esseri umani, né come alieni: quelli sono degli alienati e incurabili.
beh, che dire, grazie 🙂
Senza eccedere negli elogi, anche secondo me il “Manifesto” è un gran bel testo, e così molti altri provenienti dalla corrente della Critica del Valore. Speriamo (e non lo spero certo in funzione editoriale 🙂 ) che pian piano abbiano il successo che meritano, e il loro messaggio circoli come – credo – sarebbe necessario. Questo messaggio, infatti, ha un grande potenziale di rottura rispetto al sistema del capitale, e se in qualche modo riuscisse a diventare “sangue e carne” di un qualche movimento globale (o comunque contribuire alla sua crescita) potrebbe dire la sua per un – oramai direi veramente necessario ed urgente – oltrepassamento del capitalismo.
Un saluto e – ultima cosa – noi non abbiamo mai avuto a che fare con soggetti come Civati, nemmeno per scherzo, e non condividiamo nulla del suo pensiero e del suo “modus agendi”. Giusto per evitare equivoci. 😉
Premesso che chiedo scusa se sto monopolizzaando lo spazio commenti, ma non ci posso fare niente se le masse sono amorfe… Io sono ancora vivo, “Cari “Tutto solo per i soldi”!… Premesso questo: ora ricordo come sono arrivato all’Anatra di Vaucanson e poi al Manifesto controil lavoro. Ho fatto una ricerca su internet con le parole sante che avevo sentito pronunciare in ti-vù, durante una breve intervista, all’allora On. Civati: “lavorare tutti, lavorare meno”. Era il tempo del subito dopo il crack finanziario mondiale del 2008. Mi colpì soprattutto il concettone di lavorare tutti. Perché è da quanto sono nato che sento parlare di crisi economica e di disoccupazione. Mi sarei rotto i. Tuttavia grazie al “Manifesto contro il lavoro” almeno ora so il perché di tutta questa . che ciirconda da tutte le parti e che rende vani tutti i nostri sforzi per una vita migliore per noi stessi e per il nostro prossimo.
apprendo con gioia della pubblicazione di questa nuova edizione e copio/incollo a seguire la recensione che feci di quella del 1999, apparsa su un bollettino semiclandestino.
Il moderno capitalismo globalizzato, mentre da un lato decanta il lavoro come componente essenziale nella costruzione dell’identità personale, dall’altro cinicamente dimostra di avere sempre meno bisogno di esso. A ragione alcuni sottolineano che le ideologie a fondo materialista, sia la variante liberista che in passato quella collettivista, considerano l’economia come una scienza autonoma, con proprie leggi alle quali ci si può soltanto uniformare. A questo punto si è arrivati attraverso un lungo cammino nella storia, durante il quale l’uomo si è alienato, tappa dopo tappa, la libertà di disporre del proprio tempo e delle proprie energie, che in misura sempre maggiore ha dovuto riversare sul mercato al fine di trarne sostentamento.
In sintesi questa è l’argomentazione principale del tedesco Gruppo Krisis contenuta nel “Manifesto contro il lavoro”, pubblicato da Derive Approdi.
Il Gruppo Krisis sostiene che “fino a qualche secolo fa, gli uomini erano del tutto consapevoli del rapporto fra lavoro e costrizione sociale”, come dimostra l’etimologia della parola lavoro nelle varie lingue. “Il lavoro rinvia a un destino sociale infelice. E’ l’attività di chi ha perso la propria libertà. L’estensione del lavoro a tutti i componenti della società non è perciò nient’altro che la generalizzazione di una dipendenza servile, e il moderno culto del lavoro non è altro che la trasposizione di questo stato a un livello quasi religioso”.
Interpretando la storia della modernità come storia dell’imposizione del lavoro, portatrice di una lunga scia di desolazione ed orrori sul pianeta, il Gruppo Krisis verifica come tale imposizione non è mai stata interiorizzata quanto oggi. “La maggior parte degli uomini non è passata spontaneamente alla produzione per mercati anonimi, e dunque all’economia monetaria generalizzata, ma perché l’avidità degli Stati assolutistici monetarizzò le tasse e contemporaneamente le aumento in maniera esorbitante. La maggior parte degli uomini dovette “guadagnare soldi” non per sé, ma per lo Stato proto-moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia. Così è venuto al mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale, e quindi del lavoro”. Tutto questo contribuì a distruggere irreparabilmente il modus vivendi delle comunità tradizionali, che nessun movimento sociale è riuscito mai a ripristinare perché tutti hanno affermato la sacralità e il dovere del lavoro, ivi compresa la “gloriosa” Rivoluzione Francese e tutte le teorie sociali e correnti politiche da essa ispirate.
Il Gruppo Krisis sostiene che gli standard di civiltà possono oggi essere difesi soltanto contro la politica delle oligarchie capitaliste, altrimenti detta l’affare globale di una minoranza. Senza mezzi termini, la democrazia del lavoro è definita il contrario della libertà, anzi il più perfido sistema di dominio della storia perché incentrato sull’autorepressione. Ma ciò che è più assurdo è il nuovo fanatismo del lavoro con cui questa società reagisce alla morte del suo idolo, la superfluità del lavoro diretta conseguenza della terza rivoluzione industriale, quella della microelettronica. Collateralmente, la rivoluzione microelettronica ha enormemente abbassato la redditività degli investimenti effettuati nell’economia reale, favorendo il decollo speculativo che costituisce precisamente un sintomo di questa situazione e non una causa.
Secondo Krisis, una rinascita della critica radicale al capitalismo presuppone la rottura con la categoria del lavoro, al fine di stabilire nuovi fini di civiltà. Tuttavia, è doveroso constatare che per affrontare questa sfida mancano attualmente sia un’adeguata coscienza critica diffusa, sia degli obiettivi chiari.
Viene naturale chiedersi quale potrà mai essere, almeno a grandi linee, la morfologia dell’auspicata società del post-lavoro. Quando scompariranno gli obblighi del lavoro, secondo Krisis non cesserà certamente ogni attività umana, che però avrà un carattere diverso potendo in primo luogo seguire la propria misura del tempo, ed allora, anche in grandi forme organizzative della produzione, i soggetti stessi potranno determinarne il corso. Emergerebbe un immenso spazio teorico e tecnico da indagare con strumenti adeguati, avendo sempre riguardo che le differenti attività, per quanto resesi autonome fuori dal mercato, conserveranno ciononostante le proprie caratteristiche piacevoli, creative o necessarie, come è nella natura della cose.
Proprio nel momento in cui il capitalismo esaurisce la sua dinamica secolare, non riuscendo ad offrire né il pieno impiego né abbondanza di merce senza lavoro come taluni desidererebbero (i fautori del cosiddetto reddito minimo di cittadinanza, ad esempio), risulta fuori luogo rammaricarsene e provare nostalgia per gli anni del boom economico. Al contrario, si tratta di cogliere questa chance storica, coscienti del fatto che l’uscita dal capitalismo e dalla società del lavoro, provocata dallo stesso sistema che pretenderebbe di perpetuarsi all’infinito, non sarà – se e quando sarà – una pacifica e gioiosa trasformazione.
quella precedente è la recensione della prima edizione, che scrissi per un bollettino semiclandestino. mi rallegro per questa nuova edizione che leggerò al più presto.
cordiali saluti
Grazie Federico, bella recensione 🙂