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Il canto del cigno dell’economia di mercato

Proponiamo qui una breve quanto densa intervista rilasciata al giornale politico TERZ1 da Robert Kurz nell’aprile 2000, poco dopo l’uscita del suo libro più famoso, lo Schwarzbuch Kapitalismus, cioè Libro nero del capitalismo (Eichborn Verlag, 1999).2 Un titolo, ad onor del vero, che non era quello che l‘autore aveva pensato per quest’opera, come dice anche nell’intervista. Il titolo che aveva prescelto (die Mühlen des Teufels, in italiano I mulini del diavolo) non indica, infatti, una semplice replica ai vari “libri neri” sul comunismo, in voga all’epoca. Piuttosto, richiama una critica feroce e sostanziale al sistema del capitale all’interno del quale Kurz pone anche il modello del socialismo reale, “vittima” soltanto presunta della potenza capitalistica, la quale – secondo la vulgata – avrebbe vinto questa lotta fra titani, solo apparentemente opposti.

In questa intervista Kurz tocca, di passata, alcuni dei temi salienti del suo pensiero, presenti anche nel libro in questione:

1) lo sguardo critico, già accennato, ai regimi dell’est, letti come modernizzazione forzata di recupero; tutt’al più, cioè, come immaturo succedaneo, anche parecchio difettoso, del modello capitalistico, quindi tutt’altro che sua presunta alternativa;

2) la crisi del lavoro astratto come crisi (non recuperabile) del capitalismo, dovuta al contradditorio modo di funzionamento del sistema stesso;

3) la barbarie come esito “naturale” della crisi di questo sistema, già fondamentalmente barbaro. La crisi definitiva del capitalismo, dunque, come una sorta di “ritorno alle origini”, solo senza più spazi reali di crescita;

4) uno sguardo storico sul capitalismo come esito non “automatico” né scontato dell’epoca che lo ha preceduto (quella definita, a posteriori e in senso spregiativo, “età media”, o medioevo);

5) la critica alla “rivolta per la rivolta”;

6) la perdita di alcune coordinate chiave e riferimenti dati per ovvi e definitivi, per esempio per quanto riguarda il “conflitto di classe” e i suoi attori (che è una cosa diversa dal negare che vi sia chi trae profitto dallo status quo).

Ma ciò che, forse, rende particolarmente interessante questa breve intervista, e per converso anche il libro di riferimento, è l’importante quanto raro accenno che fa qui Robert Kurz alla necessità di un’altra “soggettività” e un’altra “cultura” come presupposti essenziali e irrinunciabili per un autentico cambiamento. Non è facile trovare, negli scritti di coloro che si ispirano alla critica del valore, riferimenti espliciti alla necessità di una nuova (contro)cultura, un’attenzione per i movimenti della coscienza o il richiamo al bisogno di “nuove forme di soggettività e di relazione”, come invece è possibile incontrare qui in queste poche righe.

Il fatto che il focus venga puntato per una volta sulla domanda “chi”, cioè quale soggettività possa gestire la transizione nel modo che ci interessa – forse l’unico possibile che non sia barbarie, cioè quel comunismo a cui allude il “Marx esoterico” e che è molto diverso da quello che ha preso forma nelle esperienze che ben conosciamo – non è una cosa da nulla. Significa cominciare a porsi seriamente il problema di “quale cultura”, “quale pensiero” debba e possa accompagnare questa transizione. Significa anche smettere di pensare ingenuamente che questa nuova soggettività possa nascere spontaneamente dall’esito della catastrofe – esito che invece è e non può che essere “barbarie”, come Kurz e tutti coloro che si rifanno alla sua corrente di pensiero hanno sempre sostenuto. Inoltre, significa anche smettere di pensare che l’unica “soggettività” umana sia quella cartesiano-illuministica. Forse la “soggettività” che cerchiamo è un’“anti-soggettività” rispetto a questa, dove ora non sia più l’“uomo” il centro dell’universo, ma ne sia parte e, usando un linguaggio forse un po’ impertinente in questo contesto, suo “custode”.

Questa “soggettività” sociale, se ancora si può chiamare così, non può essere pertanto, per esempio, quella determinata dai “media”, l’unica sembra possibile oggi. Quest’ultima è piuttosto “mala soggettività”, soggettività passiva, anzi proprio soggettivazione nel senso del “metter sotto”, sudditanza, il contrario della necessaria capacità di pensiero autonomo e critico indispensabile al sorgere dell’“altra” soggettività. Si tratta, invece, di mettersi attivamente in gioco, a partire da un rifiuto deciso delle procedure di assoggettamento in essere. Un passaggio indispensabile se è vero che, come dice qui Kurz, “controsocietà significa anche controcultura, un concetto che deve essere nuovamente riempito di vita”. Le rivolte “parziali” o comunque legate a rivendicazioni locali o specifiche, per quanto possano essere motivate e ben accette, rischiano perciò di rimanere fini a se stesse se non mettono coscientemente in gioco la forma-soggetto capitalistica. Perché il capitale non è più solo una sorta di “nemico esterno”, fuori dalle nostre vite, ma qualcosa che le compenetra e determina nel profondo, e la lotta contro di esso non può non tenerne conto.

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Il canto del cigno dell’economia di mercato
intervista a Robert Kurz – Testo originale qui: https://www.exit-online.org/link.php?tabelle=autoren&posnr=155 (aprile 2000)

Molti a sinistra hanno pensato: “ecco una risposta al Libro nero del comunismo”

RK: il titolo Libro nero del capitalismo non era quello che avrei desiderato. Alla fine ha prevalso l’editore. Io avrei preferito I mulini del diavolo o I mulini di Satana, un verso di una poesia del romantico inglese William Blake, una definizione ricorrente nel 19° secolo per indicare il nascente sistema della fabbrica.3

Veniamo alla critica: dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le critiche al modo di produzione basato sull’economia di mercato si sono pressoché ridotte al silenzio. Perché tu invece sei rimasto critico di questo tipo di economia?

RK: Certo non sono rimasto critico dell’economia di mercato semplicemente perché voglio restar fedele alla teoria. Ma perché mai dovrei rinunciare a questo pensiero critico solo per il fatto che all’est è crollato un sistema che era comunque molto fortemente basato sui principi dell’economia di mercato? Le ragioni per essere di sinistra non sono solo rimaste, ma sono diventate ancora più stringenti negli ultimi anni.4

Puoi chiarirci qualcosa riguardo alla tua critica a quello che chiami “sistema di produzione di merci”?

RK: Ho scelto deliberatamente il termine “sistema di produzione di merci” perché riconduce diverse forme di sviluppo sotto un unico cappello, sottolineandone il terreno comune. Il sistema è caratterizzato dal fatto che esiste un sistema mondiale di mercati del lavoro che determina la produzione di merci. Questo è il motivo per cui esiste un mercato generale delle merci. Tutti i bisogni e gli oggetti di riproduzione si trasformano in merci e l’accesso alle risorse è possibile solo attraverso i mercati del lavoro. L’umanità è soggetta ai criteri di questi mercati senza poter determinare l’uso sensato delle risorse. Per questo motivo, la critica della produzione di merci è la stessa cosa della critica della riproduzione di una società dei mercati del lavoro. Questo porta ad un assurdo nella misura in cui il sistema non può più utilizzare la forza lavoro su larga scala. Per quanto si parli di strategie per il lavoro – che non funzionano comunque – o si levino grida disperate che supplicano lavoro, il sistema ha comunque raggiunto i suoi limiti, e diventa evidente quanto tutto questo conduca all’assurdo: ci sono gigantesche forze produttive che sono accessibili ai singoli solo se è ancora possibile la proficua messa in rete del lavoro.

Nei tuoi scritti profetizzi da tempo il crollo del sistema di produzione di merci. Da cosa deduci l’imminente fine dell’economia di mercato?

RK: Innanzitutto bisogna distinguere due cose: 1) come avviene la crisi. Si tratta di un processo puramente oggettivo che si svolge sul piano delle relazioni competitive anonime – ciò che il fondatore dell’economia moderna, Adam Smith, chiamava la mano invisibile. 2) Naturalmente, la crisi non è la fine del capitalismo in quanto tale, nel senso che così lo si sarebbe superato. Il capitalismo è ancora ben saldo sul versante della coscienza. Un’economia nazionale, un’intera regione del mondo possono crollare, tuttavia la forma sociale del rapporto non scompare. Ciò che crolla, ciò che raggiunge i suoi limiti, è l’uso redditizio della manodopera, che non può essere incrementato ulteriormente alle condizioni della terza rivoluzione industriale. Sul livello della soggettività umana tutto questo prosegue come competizione con altri mezzi. Alla fine sorge qualcosa di simile a un’economia del saccheggio, come in Jugoslavia o in Russia: soggetti determinati dal denaro ma senza denaro. Non resta che azzuffarsi l’un l’altro. Non esiste un autosuperamento automatico del sistema.

Andiamo al cuore del problema: tu dici che il crollo del capitalismo, che è scontato, è il presupposto per la sua critica. Come dovremmo capire questa affermazione?

RK: In un certo senso la consapevolezza dei limiti del sistema è una condizione preliminare per uscire dall’interiorizzazione delle forme sociali di relazione di questo ordine sociale. Ma il crollo del sistema dell’economia di mercato non deve essere inteso in modo tale che di per sé questo evento renda automaticamente libera la coscienza.

Tu parli di concorrenza anonima e di rapporti di potere che determinano il destino dell’umanità – a suo danno. Ma ci sono anche persone in carne ed ossa che hanno interesse affinché lo stato delle cose vigente resti così com’è, perché ne traggono notevoli vantaggi e profitti. Una volta chiamavamo queste persone “capitalisti”.

R.K.: Oggi non esiste più una classe di capitalisti chiaramente definibile. Negli Stati Uniti, ad esempio, ci sono moltissime famiglie di lavoratori salariati che mantengono un certo livello di consumo solo perché hanno investito i risparmi nel boom azionario, mentre il loro reddito reale è stato bombardato fino a tornare al livello degli anni Settanta. Da un lato ci sono i manager, che fin dall’epoca fordista si sono sentiti e comportati come veri operai, come carne viva del sistema, e dall’altro ci sono i moderni lavoratori salariati che oggi, nell’ultima fase dello sviluppo postmoderno, della terza rivoluzione industriale, della svolta neoliberale che li ha toccati nel profondo, si sentono imprenditori del loro lavoro. Come ha chiesto la Commissione per il futuro della Sassonia-Baviera: “Fate voi stessi il capitalismo!”. Ma questo non significa che la negatività del sistema sia finita, al contrario. Piuttosto, rimette in gioco la necessità di una critica del sistema che vada ancora più a fondo. Non possiamo semplicemente dire che dobbiamo ridurre all’impotenza la proprietà privata, socializzare la proprietà stessa e che, se ci appropriamo delle fabbriche, allora tutto andrà meglio, senza mettere in questione le forme di relazione sociale ed economica. Si tratta di ripensare le forme sociali di base dei rapporti sociali ed economici, lo scardinamento della concorrenza, e non attraverso un apparato statale, ma grazie ad un’autogestione che dica addio alla produzione di merci. L’idea che ci siano dei capitalisti alla vecchia maniera, come una classe ben definibile che si tratterebbe solo di sconfiggere, dopo di che tutto può andare avanti come prima, non è più accettabile, semplicemente perché non è più vera.

Siamo d’accordo con te che non si tratta di continuare la produzione basata sul mercato sotto il controllo dello Stato, esperimento questo già fallito in URSS. Si tratta piuttosto di pensare una società che vada oltre la produzione di merci. La questione è: come arrivarci, e come potrà essere? A questo proposito tu una volta hai citato Friedrich Engels, il quale parla di una società in cui “la gente se la cava molto bene senza la mediazione del famoso valore”. Vorrei anche fare una breve osservazione sulla critica del socialismo di Stato in stile DDR. Già trent’anni fa esisteva una critica a sinistra nella DDR, che metteva all’indice la prosecuzione della forma di lavoro salariato in quel paese e proponeva come prospettiva per un paese socialista la produzione diretta di beni di consumo senza la mediazione della produzione di valore. Venticinque anni fa, gli spartachisti vennero criticati per aver detto che la principale contraddizione sotto il capitalismo era il contrasto tra produzione sociale e appropriazione privata – da cui segue, logicamente, che se la produzione fosse sotto il controllo dello Stato, allora tutto andrebbe bene.

RK: Per quanto riguarda le critiche, sempre presenti, alla produzione di merci, ad esempio nella nuova Sinistra, devo essermi perso qualche passaggio. Naturalmente c’era una certa tematizzazione del concetto di feticismo marxiano nel movimento studentesco, sempre legata alle condizioni socio-psicologiche – il che naturalmente aveva la sua giustificazione -, ma dal lato più strettamente economico in realtà poco o nulla veniva discusso. I principali teorici della sinistra hanno sempre dribblato con scioltezza il problema. Torniamo ancora una volta ad Engels. Presa per sé, l’affermazione sopra citata può essere sicuramente controfirmata, ma si tratta, di fatto, solo di una dichiarazione astratta. Con Engels, la pietra d’inciampo è che lui, ancor più di Marx, ha adottato un concetto positivo e liberale di lavoro. Ciò significa che, per lui, l’abolizione della forma del valore si può dare solo all’interno dell’utilizzo di quanti di lavoro astratti. Qui emerge il problema del “calcolo delle prestazioni”. Ci sono stati enormi dibattiti su come dovrebbe essere questo “calcolo” senza la produzione di merci, senza la forma-denaro. Il capitalismo, comunque, è già andato oltre. Il problema non è più, ora, il calcolo delle prestazioni individuali. Il problema è come affrontare le potenzialità oggettive in modo sensato. Cosa succede se questo tipo di “contabilità” non ha più alcun senso? Se anche in condizioni capitalistiche, dove si dà una produzione distruttiva e insensata, una grande massa di lavoro è già messa fuori servizio – in modo permanente? Dove allora dovrebbe funzionare il “socialismo del lavoro”? È una contraddizione volersi riprodurre attraverso il lavoro astratto da un lato, ma voler abolire la forma del valore dall’altro. Queste sono le due facce della stessa medaglia. Si dovrebbe riflettere di più su questa cosa. Nel XIX secolo Engels probabilmente poteva solo pensare in quel modo, ma ora siamo nel bel mezzo della rivoluzione microelettronica. Ci sono possibilità completamente diverse di comunicazione e di socializzazione, ma per ora appaiono solo in negativo. Si tratta adesso di ripensare e riformulare tutto questo.

Un’ultima domanda sul rapporto fra la tua analisi e i movimenti sociali esistenti. Sia nella tua conferenza che nel libro hai fatto spesso riferimenti positivi alle rivolte sociali nella fase iniziale del capitalismo. Alla fine del tuo libro, sviluppi il concetto di “controsocietà”, le quali dovrebbero essere dirette contro la valorizzazione capitalistica. C’è una notevole corrispondenza con certi approcci teorici dell’autonomia. Il gruppo Krisis è forse un gruppo di autonomi travestiti?

RK: Non voglio assolutamente dire che tutto quello che questi hanno fatto fosse sbagliato, o che non si possa o non si debba riprendere il filo lasciato da certi momenti. Ma bisogna fare attenzione. Mi piacerebbe piuttosto vedere, ora, le famose sollevazioni, le rivolte o le azioni di resistenza darsi come contrasto determinato al sistema, e non stare a dire che ogni rivolta, per esempio del XVIII secolo o una qualsiasi ribellione per il pane, fosse già di per sé un passo nella giusta direzione. Nel senso che la cosa principale sarebbe la rivolta tout court! Penso certo sia importante ricordare e rendere consapevole l’esistenza di queste rivolte sociali. Ma non si può immediatamente riprendere da dove si è lasciato o trasformarle in una sorta di romantica galleria di antenati. Ci si deve rendere conto che c’è anche un enorme arco di tempo storico nel mezzo. Esse ci insegnano comunque che le condizioni non erano incontestabili, che il capitalismo può anche essere delegittimato a ritroso, che le forze produttive avrebbero potuto svilupparsi in modo diverso. Un compito importante sarebbe quello di esaminare i punti deboli della critica o verificare se sia ancora radicata nelle rappresentazioni della produzione di merci. Anche l’abolizione della stessa produzione di merce non è così facile. Non ce la si può immaginare come un mero atto esterno di abolizione del denaro e della forma-merce. Piuttosto, devono nascere anche nuove forme di soggettività e di relazione. Dopotutto, controsocietà significa anche controcultura, un concetto che deve essere nuovamente riempito di vita.

Questa è la classica richiesta della sinistra autonoma, quella cioè di sviluppare controsocietà rispetto al sistema dominante, fare sabotaggio, riappropriazione attraverso l’occupazione abusiva.

E tutto questo va benissimo, certo. Però resta la questione, se all’interno di tutto questo trovi spazio una ulteriore riflessione che porti a chiedersi come si possa abolire la forma-merce. Dunque, basta jacqueries, che dimentichino di modificare anche la propria forma-soggetto. Il capitale non è più solo fuori di noi.

[cura e traduzione di Massimo Maggini]

—–
Note:

1. https://terz.org/2000/04/robert-kurz.html

2. Il libro ebbe all’epoca in Germania una ricezione se non entusiasta, comunque molto attenta, anche da parte di giornali che potremmo definire “borghesi”. Per esempio die Zeit, che uscì con una recensione molto appropriata (cf. https://www.zeit.de/1999/51/199951.p-kurz_.xml). Per una panoramica è possibile, in ogni caso, consultare wikipedia: https://de.wikipedia.org/wiki/Schwarzbuch_Kapitalismus#Rezeption_2. I temi di questo libro sono del tutto attuali, forse anche più ora di allora, visto che molte delle “predizioni” proprie del pensiero che cerca di esplicitare si sono di fatto avverate con la crisi epocale (e sembra senza ritorno) del 2008 – a fronte della quale uscì in Germania nel 2009 una ristampa con una introduzione aggiornata (reperibile qui: https://www.exit-online.org/textanz1.php?tabelle=buecher&index=4&posnr=6&backtext1=text1.php). Sarebbe dunque auspicabile la pubblicazione anche nel bel paese di questo notevole testo, intriso di futuro. La traduzione, a cura di Samuele Cerea, è in cantiere, anche se non si sa, purtroppo, quando vedrà la luce. Per ora è possibile avere un piccolo assaggio di alcune sue parti, più precisamente di alcuni capitoli della VIII sezione, dedicata alla storia della III rivoluzione industriale, visitando il nostro sito https://anatradivaucanson.it/, nello specifico qui:
Visioni dell’automazione (cap.1)
La razionalizzazione elimina l’uomo (cap.2)
L’abdicazione dello Stato (cap.3)
L’ultima crociata del liberalismo (cap.4)
La nuova povertà di massa (cap.5)
L’illusione della società dei servizi (cap.6)
Per chi avesse rudimenti della lingua tedesca, e volesse cimentarsi nella lettura di questo libro, comunque impegnativo, è possibile scaricarlo in pdf a questo indirizzo: https://www.exit-online.org/pdf/schwarzbuch.pdf

3. Il riferimento è alle dark satanic Mills menzionate in un verso tratto dall’inno Jerusalem, scritto nel 1804 come prefazione al poema epico Milton. Cf. https://www.poetryfoundation.org/poems/54684/jerusalem-and-did-those-feet-in-ancient-time

4. È sicuramente il caso di specificare qui che l’“essere di sinistra” a cui accenna Kurz non corrisponde certo al sentirsi vicini o comunque avere anche solo qualcosa da spartire con posizioni liberali o socialdemocratiche in stile PD italiano o SPD tedesco. E non è vicino neanche ad approcci che leggano nel welfare statuale un traguardo di “liberazione” ed emancipazione, o comunque guardino (in fondo hobbesianamente) in modo strumentale allo Stato come ad un elemento chiave per il “riscatto” dell’umanità – naturalmente solo se gestito in modo “socialista” e tutte queste belle cose. Piuttosto, il riferimento è al pensiero del cosiddetto “Marx esoterico”, di cui lo stesso Kurz traccia le linee, con grande passione ed efficacia, in molti suoi scritti. Al Marx, cioè, meno legato alla “lotta di classe” e al primato del lavoro (e del lavoratore) ma invece critico radicale delle fondamenta del sistema e lettore acuto della sua crisi. Alla luce di quanto sopra, quindi, è persino possibile affermare che la sinistra, anche presunta “radicale”, che di fatto crede illusoriamente nella possibilità di gestire positivamente il capitalismo, “sanandolo” e rendendolo più umano, semplicemente cambiando di segno ai suoi fondamenti senza sottoporli alla necessaria critica destrutturante, è uno dei bersagli polemici preferiti del pensiero di Kurz. Non è un caso, infatti, che questa sinistra finisca poi sempre , invariabilmente e non casualmente, per collaborare col – ed essere funzionale al – sistema.

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Massimo Maggini

Vive a Livorno e si occupa da molti anni dei temi del lavoro e della trasformazione sociale. Collabora coi movimenti per l’ambiente e per le lotte sociali.


Robert Kurz

Robert Kurz (1943-2012). Ha sviluppato una critica radicale della modernità e una nuova teoria della crisi mondiale attraverso l’analisi del sistema globale del capitalismo. Le sue teorie sono state pubblicate sulle riviste teoriche “Krisis” e “Exit!” e in numerosi libri. Di Kurz sono apparsi in Italia "La fine della politica e l’apoteosi del denaro", "L’onore perduto del lavoro", il "Manifesto contro il lavoro", "Ragione sanguinaria", "Il collasso della modernizzazione" e "Il capitale mondo".

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