introduzione
Ciò che Mao-Tse-Tung affermò con un certo gusto del paradosso a proposito della Rivoluzione francese può valere, e a maggior ragione, per le vicende del ’68: a quasi mezzo secolo da quel periodo la distanza storica non è ancora sufficiente per formulare un giudizio definitivo. Malgrado tutto però è innegabile che la grande contestazione sociale degli anni Sessanta – un fenomeno pressoché inaspettato, che non lasciò indenne nessun paese industrializzato dell’Occidente (USA, Messico, Giappone, Francia, Germania Occidentale, Italia, Inghilterra, etc. perfino la Spagna franchista) nonostante la diversità dei contesti politici e sociali, il cui riflesso nel blocco socialista fu l’impulso per la liberalizzazione politica in Cecoslovacchia e, più in generale, una nuova stagione della dissidenza intellettuale – rappresentò una cesura epocale. Ma quale ne fu il significato? E, in particolare, che rapporto c’è tra la dimensione soggettiva e la funzione oggettiva di quel movimento? Astraendo dall’interpretazione manichea di chi vede nelle vicende del 1968 il vaso di Pandora che ha scatenato tutti i mali della post-modernità, l’assassinio della civiltà e del decoro borghese e di chi invece, all’opposto, liquida la contestazione di quegli anni come l’ennesima occasione rivoluzionaria mancata, da addebitare a una «coscienza di classe» deficitaria o all’«opportunismo» dei suoi dirigenti, possiamo distinguere essenzialmente due posizioni divergenti: la prima identifica la contestazione studentesca con un impulso modernizzatore, ammantato di una «falsa coscienza» ribellistica, che mirava fin dal principio, non tanto «alla socializzazione dei mezzi di produzione, quanto piuttosto alla liberalizzazione dei costumi» (C. Preve), allo sviluppo della società dei consumi e dell’individualismo edonistico. Per la seconda invece fu proprio l’attenuazione dell’elemento estremistico (che finì col concentrarsi nella violenza ideologica del terrorismo) a permettere la realizzazione, almeno parziale, di un ampio programma di «riforme democratiche»: l’estensione dei diritti individuali, una rivoluzione della vita quotidiana (soprattutto nella sfera sessuale), una nuova concezione della marginalità sociale, la critica del sessismo e dell’oppressione della donna, la lotta alla repressione poliziesca e istituzionale nelle sue forme più drastiche e “anticostituzionali”, più in generale, l’esaltazione di un individualismo positivo all’insegna della diade solitaire/solidaire di Camus.
Proprio questa relazione ambigua e controversa tra soggettività ribelle e oggettività sociale sullo sfondo della nuova avanzata della modernizzazione fordista è al centro dell’analisi che Robert Kurz, nel 1988, in una fase di pesante riflusso della contestazione sociale, dedicò al movimento studentesco, alla sua ideologia e alla storia posteriore delle sue “diramazioni” in un articolo, Glanz und Elend des Antiautoritarismus (Splendore e miseria dell’antiautoritarismo) apparso sulla rivista Marxistische Kritik 5. Logicamente il saggio di Kurz si concentra sulle vicende della Nuova Sinistra tedesca, che l’autore visse in prima persona, ma le tesi che vi sono sostenute sono da considerare generalmente valide, indipendentemente dal contesto storico empirico. Il movimento del 1968 – così Kurz – racchiudeva effettivamente al suo interno un nocciolo autenticamente sovversivo e insofferente nei confronti degli abusi della società capitalistica. La questione è dunque: perché questo elemento critico non sfociò in una trasformazione sociale realmente anticapitalistica ma si incurvò rapidamente verso i due esiti (per Kurz due facce della stessa medaglia) dell’individualizzazione, alias monadizzazione sociale, da una parte, e della «democratizzazione» intesa come generalizzazione della logica della merce dall’altra? La risposta sta nella comprensione peculiare sviluppata dal movimento circa il rapporto tra individuo e società, che si tradusse nella sua ideologia antiautoritaria. Non a caso Kurz fa risalire i primordi di questa ideologia nell’anarchismo filosofico di Stirner, strettamente legato allo sviluppo ottocentesco della società della merce. Il problema consiste nel fatto che il conflitto tra l’individuo (moderno, capitalistico) e la società (moderna, capitalistica) non è un conflitto meramente esteriore tra due realtà autonome e prive di presupposti ma un’opposizione dialettica tra due poli generati nel corso della modernità. Fu precisamente l’avanzata della moderna forma capitalistica che, distruggendo le vecchie forme di produzione e di vita, assieme alle relative forme di pensiero e mentalità, finì col generare l’individuo come soggettività giuridica e politica astrattamente libera, svincolata dai rapporti tradizionali delle società premoderne, modellata sulla circolazione della merce e del denaro, cui si contrappongono le istituzioni di una società corrispondentemente astratta, che è il presupposto necessario della medesima individualità. La modernizzazione fordista del secondo dopoguerra fu una tappa ulteriore della formazione di questo soggetto monadico; di conseguenza il legame tra il processo della trasformazione sociale e la contestazione sessantottesca non fu certo contingente. Tuttavia i movimenti di ribellione sociale, incapaci di decifrare le condizioni della loro genesi storica, finirono presto o tardi con l’addomesticare il rapporto di tensione con la società che li aveva generati; nell’antagonismo individuo-società essi non seppero riconoscere il problema fondamentale della soggettività capitalistica ma lo interpretarono come il confronto tra l’assolutezza delle pretese individuali, in ultima analisi compatibili con il capitalismo, e la repressione delle istituzioni sociali, giudicate non secondo la loro logica funzionale, ma in un’ottica quasi precapitalistica, come apparati al servizio di gerarchie e particolarismi.
A condizionare gli sviluppi del movimento pensò anche la difficoltà oggettiva di fondare un’autocoscienza rivoluzionaria su basi teoriche adeguate. L’impulso rinnovatore del ’68 avrebbe potuto certo giovarsi della critica radicale che Marx aveva formulato nei confronti delle categorie fondamentali della modernità capitalistica (valore, merce, denaro, Stato etc.) e che era stata colta, almeno in parte, da alcune correnti critiche più eterodosse, come i situazionisti francesi. Ma questa critica frammentaria non venne mai recepita dal marxismo ufficiale, che invece preferì puntare tutto sulla lotta di classe e sulla redistribuzione più “equa” del plusvalore sociale. Proprio per questa ragione quel marxismo, in Occidente, aveva perso progressivamente ogni afflato critico di reale trasformazione sociale, candidandosi nelle vecchie forme organizzative politiche (socialdemocratiche) alla cogestione della società della merce (in Germania la SPD era giunta al governo proprio in quegli anni, anche se in condominio con la CDU), mentre all’Est si era congelato nell’ideologia ufficiale del socialismo di Stato. La stessa Teoria critica, nonostante i suoi indubbi meriti nella critica dell’autoritarismo sia del tardo-capitalismo, che del socialismo di Stato, soprattutto nella versione che ne diede Adorno, identificò pur sempre nel “soggetto borghese” il cardine della propria riflessione emancipatrice, convertendola in una forma di pessimismo storico-sociale. L’insoddisfazione per il “teoricismo” dei francofortesi e l’incapacità di produrre una riflessione originale (tra le poche eccezioni, nella RFT, H. J. Krahl) condannò il movimento all’acefalia teorica, cosicchè l’ideologia antiautoritaria e antiistituzionale non poté che reggersi su basi politico-morali; il risultato fu inevitabilmente il riflusso verso forme organizzative compatibili con la politica democratica (e in Germania farà la sua comparsa il fenomeno peculiare dei Verdi) o la regressione verso un settarismo da ortodossia marxista (o verso la violenza terroristica) e, in seguito e parallelamente, il ridimensionamento di qualsiasi ambizione trasformatrice nelle riserve indiane del movimento alternativo, null’altro che un mini-settore marginale della società della merce, l’”autogestione” nei limiti consentiti dal sistema e la “valorizzazione” alternativa del proprio “capitale umano”.
Samuele Cerea, settembre 2017
Splendore e miseria dell’antiautoritarismo
Alcune considerazioni sulla storia delle idee e sulla «storia degli effetti»1 della «Nuova sinistra»
I. Nella sua autocoscienza il movimento studentesco del 1968 fu un movimento «antiautoritario» o – se vogliamo usare un termine equivalente – «anti-istituzionale». Certo, uno degli slogan più popolari di Dutschke raccomandava la «lunga marcia attraverso le istituzioni», senza però contraddire – perlomeno nel suo senso originario – l’autocoscienza del movimento, in quanto esprimeva solo l’auspicio che la battaglia anti-istituzionale venisse combattuta non solo dall’esterno ma anche dall’«interno», mediante una penetrazione sovversiva delle istituzioni capitalistiche. Un’altra espressione convenzionale del movimento, la «prassi da rivoluzionario di professione», guardava nella stessa direzione, manifestando le idee, i desideri e – ad uno sguardo retrospettivo – le illusioni dell’epoca. Come sinonimo del concetto di «antiautoritarismo» valeva quello di «autonomia», oggi di uso corrente, su cui si modella l’autocoscienza di tutta una corrente dell’opposizione radicale giovanile. Basterebbe questo a dimostrare che le vicende del 1968 non sono ancora state consumate fino in fondo, che restano ancora vive, che il 1968 non è stato un semplice episodio storico, per quanto al presente, per molti giovani, potrebbe sembrare un evento remoto come la Grande guerra.
Anche se l’ideologia antiautoritaria apparve in maniera repentina e venne adottata spontaneamente da un movimento che si diffuse in modo fulmineo (i cui seguaci erano in gran parte digiuni di riflessione teorica), essa non cadde dal cielo. L’impulso decisivo non venne certo da una proliferazione delle esperienze di risveglio spirituale ma dal cambiamento sociale, un elemento oggettivo che prese forma dietro le spalle dei soggetti. Le motivazioni e le piattaforme ideali da cui il movimento prese lo slancio furono di natura politica e morale; sul piano politico un ruolo determinante lo ebbe la critica delle leggi di emergenza della «Grande coalizione»2 (di per sé una critica di carattere borghese, nei limiti della democrazia); invece, su quello morale, decisiva fu l’indignazione (anch’essa ben dentro i limiti della riflessione borghese) nei confronti dell’intervento americano nel Vietnam. Ma per quale ragione le istituzioni sociali vennero sentite tutt’a un tratto come autoritarie e intollerabili («Sotto l’abito talare, una muffa secolare») visto che le cose non erano mai state diverse nel passato?
Il retroterra del movimento del 1968 fu indubbiamente una trasformazione sociale oggettiva, ossia il processo che rimodellò la società in senso fordista. L’epoca del dopoguerra non fu solamente un «periodo di ricostruzione del capitale» – secondo una tesi in voga nel movimento – ma anche una forma di ricostruzione capitalistica della società, che si dirigeva ad ampie falcate verso una nuova fase di sviluppo. Lo testimoniano i tassi di crescita dell’accumulazione di capitale, storicamente senza precedenti, anche se davvero fondamentale, astraendo dalla mera crescita quantitativa, fu la qualità sociale di quel cambiamento. Secondo uno stereotipo sociologico assai diffuso dalla società fordista sarebbe derivata la genesi dello Stato sociale keynesiano ed interventista e la crisi della famiglia. Entrambe queste tendenze erano già state anticipatamente dedotte, almeno a tratti, dalla riflessione teorica (per esempio dalla Teoria Critica) sulla base della logica dell’economia di guerra, del fascismo e del «New Deal». Ma fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che prese davvero corpo la spinta verso la socializzazione fordista. Da quel momento l’automobile, gli elettrodomestici e gli apparecchi per l’intrattenimento, favoriti in parte dalle innovazioni tecnologiche del periodo bellico, entrarono nella fase della produzione di massa; la creazione di nuovi bisogni di massa su scala globale, l’assorbimento redditizio di gigantesche masse di lavoro vivo nella produzione generarono per la prima volta un boom in grado di autoalimentarsi. Mentre la donna venne integrata nell’«attività economica» capitalistica come mai in passato, i presupposti, le conseguenze e gli effetti collaterali involontari di questo processo richiesero l’intervento sempre maggiore dello Stato in tutti i settori: dalla politica monetaria, all’«economia di guerra permanente» basata sull’industria bellica, allo sviluppo rapido delle istituzioni preposte alla formazione professionale e all’implementazione della scienza, all’assistenza sociale etc.
Allo stesso tempo però le istituzioni sociali e le forme di relazione rimasero pur sempre ancorate alla mentalità tradizionale, le cui radici erano ben più remote e risalivano addirittura all’epoca della società corporativa precapitalistica. Anche se il crogiolo sanguinario delle due guerre mondiali della prima metà del Novecento aveva già iniziato sicuramente a distruggere, dissolvere e frantumare, sotto parecchi aspetti, le forme di relazione tradizionali, i vecchi schemi di pensiero e di comportamento, fu la «pacifica» socializzazione fordista a portare a termine l’opera, penetrando capillarmente in tutti gli anfratti della società. Il risultato fu la genesi dell’unica forma di individualità perfettamente consona al capitalismo e alla sua qualità sociale negativa: la monade astratta, libera da tutti i vincoli e da tutti i «valori» tradizionali. Una «liberazione» assoggettata però al fine-in-sé privo di contenuto della valorizzazione del valore, della commercializzazione di ogni cosa, compreso l’individuo stesso. La realizzazione di questa tendenza (insita fin dal principio nel capitalismo) nel corso del nuovo stadio di sviluppo, la creazione di questa individualità vuota e autosufficiente, entrò fatalmente in collisione con il pensiero e la prassi tradizionali, pietrificati, «autoritari», ancora precapitalistici nella loro essenza. Già prima del 1968 era stata la cultura di massa a fornire ai giovani una forma di espressione per questo scontro, non solo attraverso la sub-cultura ribellistica dei rocker o lo straordinario fascino della sollevazione eroico-esistenziale, incarnata in maniera emblematica da James Dean, ma soprattutto mediante la cultura musicale di massa del rock o del beat e dei suoi idoli. Questo impulso non deve essere sottovalutato. Per la prima volta nella storia il fenomeno della cultura mondiale, già realizzato nelle forme capitalistiche, abbandonò la roccaforte dell’«alta cultura», prerogativa di élite intellettuali minoritarie, per raggiungere il quotidiano delle masse, grazie alla forza produttiva tecnologica del fordismo e alla creazione di una rete comunicativa immediata su scala globale. Sotto questo aspetto nessun altro fenomeno della cultura di massa ha potuto anche solo lontanamente eguagliare la pop music. Proprio sul livello della vecchia e della nuova cultura di massa ebbero inizio i primi duri scontri, innescati da mere manifestazioni esteriori, che però vennero subito percepite come segnali di protesta (jeans, capelli lunghi etc.). Non si trattava solo di un capitolo dell’eterno conflitto tra le generazioni ma anche di un conflitto incipiente tra due mondi, quello tradizionale, in cui il capitalismo era solo una parte della società o una semplice patina esteriore, e quello fordista con il suo capitalismo integrale totale, che aveva sottomesso la riproduzione sociale alla sua forma priva di contenuto, senza risparmiare le nicchie più recondite e i pori più sottili della società.
Questa prospettiva ha generato un’interpretazione oggettiva del movimento del 1968, diametralmente opposta all’idea che quello stesso movimento (a suo tempo) si era fatto di sé; esso venne identificato come un semplice fattore della «modernizzazione» capitalistica o, ancor meglio, dell’imposizione del capitalismo integrale, nell’atto di divenire totale, identico a se stesso per la prima volta nella storia. Una rivalutazione che si ritrova sempre più frequentemente nella pubblicistica, talvolta accompagnata da commenti negativi, ma più spesso accolta positivamente, sotto il guscio ideologico della «democratizzazione». Anche l’autocomprensione odierna della maggioranza delle figure del movimento, piattamente modellata sulla democrazia capitalistica, da cui non sono immuni neppure gli «estremisti di sinistra» (come ad esempio Cohn-Bendit), si orienta verso quella direzione.
Ma questa interpretazione è altrettanto unidimensionale di quella opposta, che sottolinea l’autocoscienza super-rivoluzionaria del 1968. In realtà il movimento, così come le precedenti sub-culture ribellistiche ed esistenzialiste, fu ambivalente nella sua essenza. Non espresse solo la tendenza modernizzatrice del capitalismo, volta a plasmare le monadi astratte contro il tradizionalismo «autoritario», ma anche l’immane malessere di questa individualità in sé, la rabbia contro il vuoto terrificante dell’autovalorizzazione totale. È lecito pertanto chiedersi se sia possibile salvare questo lato della rivolta, questa indignazione, alla stregua di un’«eredità» per convertirla in un nuovo pensiero rivoluzionario all’altezza dei tempi: oggi, vent’anni dopo. La risposta può venire solo dalla ricerca e dall’analisi critica degli elementi ambivalenti dell’antiautoritarismo nelle sue forme espressive teoriche, ideologiche.
II. Allora come oggi, i concetti di antiautoritarismo e di autonomia vennero intesi in un’accezione assai vaga. L’autonomia rivendicata dall’individuo si dirigeva in apparenza contro istituzioni sociali sperimentate come repressive; di conseguenza tale individuo avrebbe dovuto opporsi all’autorità della società repressiva e dei suoi rappresentanti mediante un movimento di individui autonomi che, alla fine, avrebbe soppresso la società basata su queste istituzioni. Su questo punto la tensione con la storia delle idee socialiste fu naturalmente aspra e contraddittoria. Da una parte l’antiautoritarismo condivise pienamente con il socialismo l’idea dell’abolizione dello sfruttamento economico in quanto base della repressione sociale; dall’altra individuò nella concezione e nella prassi tradizionale del socialismo (quelle della Seconda e della Terza internazionale) anche una nuova forma di oppressione istituzionale del singolo; un giudizio che venne confermato dagli sviluppi in corso nell’URSS. Quindi un impulso essenziale per il movimento antiautoritario giovanile e studentesco venne non solo dalla critica del tardo-capitalismo oppressivo ma anche da quella delle società oppressive e autoritarie del socialismo reale. E il fatto che nel 1968, al culmine del movimento, il Maggio parigino e la Primavera di Praga fossero travolti dalla macchina della repressione, sembrò offrire una conferma schiacciante.
Per comprendere criticamente l’antiautoritarismo occorre esaminare brevemente la sua storia intellettuale, compiendo un salto a ritroso di un secolo e mezzo. L’ideologia antiautoritaria, pressoché «inconcepibile» nelle società tradizionali, fu un prodotto tipico dell’Ottocento borghese (come del resto il marxismo) – cioè di una fase precoce del «capitalismo basato sui propri fondamenti» – la cui valenza era sicuramente emancipatrice. Fin dal primo momento le correnti antiautoritarie erano assai prossime all’anarchismo o ne erano addirittura parte integrante. Nella sua forma più radicale questo primo antiautoritarismo si scagliò contro qualsiasi autorità esterna all’io individuale, quale che fosse la sua natura. Questa idea – emancipatrice nella sua autocoscienza, su cui si fonda l’egoismo solipsista – venne banalmente riassunta in termini da Max Stirner, alla vigilia della rivoluzione borghese del 1848:
Lungi da me perciò ogni cosa che non sia interamente la mia causa! Voi pensate che la mia causa dovrebbe essere almeno la «buona causa»? Macché buono o cattivo! Io stesso sono la mia causa, e io non sono né buono né cattivo. L’una e l’altra cosa non hanno per me senso alcuno. Il divino è la causa di Dio, l’umano la causa «dell’uomo». La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, ecc., bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che mi importi più di me stesso! (Stirner 1842).3
Già questa prima formulazione di Stirner evidenzia con estrema chiarezza il nocciolo autentico dell’antiautoritarismo. Bisogna ammettere che queste tesi, così come certe affermazioni di Nietzsche (anche se da una prospettiva intellettuale differente), se paragonate all’altruismo ipocrita della morale da schiavi cristiana e dell’organizzazione borghese del «benessere», hanno quasi un effetto corroborante. Allo stesso tempo però questa affinità problematica non è affatto casuale. Non possiamo eludere la questione circa l’atteggiamento dell’antiautoritarismo nei confronti delle ideologie individualistiche del liberalismo radicale (liberalismo «manchesteriano» nel XIX secolo, monetarismo etc. oggi) o delle idee da «razza padrona» di Nietzsche. L’idea che la libertà di ogni singolo e «unico» io avrebbe come conseguenza la libertà di tutti gli altri è una risposta fiacca e sterile. In fondo questo assioma potrebbe essere denunciato come deriva altruistica, come appendice morale, essenzialmente estranea alla logica di autonomia radicale dell’antiautoritarismo coerente. Questa determinazione astratta non ci fornisce il benché minimo indizio su come sia possibile costruire una società umana davvero conforme al principio dell’anti-istituzionalismo radicale.
È chiaro che l’antiautoritarismo racchiude in sé un dilemma, quello del rapporto dualistico tra individuo e società, che il pensiero borghese non è mai riuscito a risolvere. Esso presuppone sempre un individuo moderno già costituito, come se fosse caduto dal cielo, che si contrappone alla sua stessa società come a una realtà estranea ed esteriore, addirittura ostile. Una contrapposizione che divenne sempre più aspra nel corso del XIX e XX secolo, con lo sviluppo sempre più minaccioso degli apparati statali e burocratici e il loro progressivo accanimento contro l’io individuale. Tale riflessione si rifiuta di comprendere che questo individuo non è affatto un postulato ovvio ma una costruzione storico-sociale, realizzata dall’universalizzazione capitalistica della merce e quindi dal trionfo del capitalismo come forma sociale totale e generale.
Liquidando le false astrazioni della fede cristiana e le false astrazioni dell’uomo della critica alla religione di Feuerbach, Stirner si illuse di aver identificato una realtà autenticamente concreta, corporea, tangibile, ossia il proprio io, senza comprendere che questo «io» rappresenta precisamente l’astrazione più arida ed estrema, talmente astratto da disconoscere la società che lo costituisce, da ridurre l’esperienza sociale alla fredda ostilità delle sue istituzioni, cui contrappone bellicosamente la sua autonomia astratta e vuota. È questo il nucleo dell’oscillazione stabile e incessante tra i due poli dell’astrazione sociale e della privatezza individuale, impossibili da conciliare e da ricomporre, ma che nel complesso costituiscono un’identità mediata e scissa in sé e nei confronti di se stessa. Se da un lato la società astratta e le sue istituzioni, quali il diritto, lo Stato, la nazione etc., vengono chiamate in causa ogni volta come limitazione necessaria della libertà del singolo, dall’altro è il singolo, in nome della sua libertà, a dichiarare guerra alle istituzioni, senza capire che queste ultime derivano dallo stesso processo che ha generato la sua individualità.
Le sofferenze dell’individuo, ancora vive e impossibili da lenire, traggono la loro origine dal fatto che si tratta di un individuo astratto, che si rapporta con una società astratta. La spaventosa dinamica sociale generata dallo scatenamento della produzione di merce e dalla trasformazione della forza-lavoro umana in merce, travolgendo la rozzezza dei modi tradizionali di produzione (come il feudalesimo), ha reso gli uomini progressivamente indipendenti dal loro ambiente naturale immediato, distaccandoli gradualmente dalla loro angusta esistenza rurale e dall’economia famigliare associata alla produzione contadina. Il lavoro salariato, l’espansione dei mercati, la creazione del mercato mondiale, assieme all’industrializzazione, hanno intessuto una «interrelazione» universale, per usare un’espressione adottata dagli ecologi, tra lavoro umano e riproduzione sociale. Questo processo storico di costruzione sociale, tuttavia, resta pur sempre incompiuto, astratto, segregato nell’involucro capitalistico. La sua astrattezza dipende dal fatto che l’interconnessione strutturale del lavoro sociale non viene pianificata direttamente dagli uomini mediante le istituzioni sociali, né viene regolata secondo il criterio dell’utilità concreta ma funziona indirettamente e nel più totale distacco dalle necessità concrete, come produzione di merci sviluppata, basata sul lavoro salariato per la prassi sociale. Il medium di questa socializzazione astratta è un’entità esteriore, ossia il denaro. Il denaro in quanto «merce generale» è la cosa astratta, priva di contenuto, in cui il lavoro sociale trova espressione, al prezzo della separazione dal suo contenuto concreto. Come è noto il denaro non ha odore, né è possibile giudicare se il dispendio di lavoro sociale che esso esprime sia utile oppure distruttivo. Poiché il fine-in-sé della produzione è l’aumento del denaro anticipato, il criterio dell’utilità concreta non ha nessunissima importanza.
L’individuo moderno, nato dalla dissoluzione dei ristretti modi di produzione tradizionali, è dunque un individuo sociale astratto, un mero soggetto del denaro. Sarebbe il caso di parafrasare in questo modo la celebre massima di Cartesio: «Guadagno denaro dunque sono». L’antiautoritarismo potrebbe forse opporsi alle istituzioni moderne, create dalla moderna socializzazione del denaro, condannare la danza idolatrica attorno al vitello d’oro – in maniera non dissimile dalle ipocrite tiritere cristiane – ma purtroppo non è abbastanza antiautoritario per scongiurare la sottomissione all’autorità incompresa e cosale del denaro, in quanto non è in grado di eludere la sua stessa socialità altrettanto incompresa. L’individuo astratto, cui «nulla importa più di se stesso», giudica il denaro come uno strumento incoscientemente presupposto, mediante il quale esaltare addirittura il proprio io, sebbene il denaro sia solo il fine-in-sé astratto e vuoto della produzione scatenata di merci. E così l’antiautoritarismo, alias l’ideologia dell’individuo autonomo, non è altro che un riflesso inconscio dello sviluppo del soggetto borghese, la rivolta disperata dell’astratta soggettività monetaria nei confronti di se stessa. Tuttavia, in questo riflesso ribellistico si nasconde un’inscindibile pretesa emancipatrice, che non riesce però a trovare un’espressione adeguata. Ad ogni nuova crisi della società borghese del denaro l’ideologia antiautoritaria spiccherà il salto da un certo livello a un livello superiore, restando però intrappolata nelle categorie della logica della merce, fino a quando non si convertirà in una critica concreta della forma-merce. C’è da chiedersi comunque per quale ragione l’idea della liberazione dell’individuo non sia mai stata in grado, nel corso della storia, fino ad oggi, di superare l’antiautoritarismo e l’«autonomia» astratta.
III. La teoria di Marx racchiude al suo interno, in nuce, una critica radicale della produzione di merce, ossia della socialità astratta, dimidiata dell’individuo. Per Marx la rivoluzione comunista coincide, in ultima analisi, con l’abolizione del lavoro salariato in quanto soppressione della forma-merce-denaro, anche se egli non formulò mai questo nesso con sufficiente chiarezza. Una difficoltà che si spiega con il sottosviluppo relativo della socializzazione astratta nella sua epoca. E fu sempre per la stessa ragione che il movimento operaio, inclusa la sua ala più rivoluzionaria, non poté comprendere le conseguenze più radicali della teoria di Marx. Esso pretese invece di abolire il lavoro salariato sul terreno della produzione di merce e del denaro: un’impresa necessariamente destinata al fallimento. In Occidente il risultato fu l’integrazione della socialdemocrazia nel capitalismo e, all’Est, la società sovietica, anch’essa assoggettata alla forma-merce in quanto espressione dell’industrializzazione di recupero e della costruzione di una società borghese, sebbene sotto sembianze peculiari.
Dati questi presupposti la teoria di Marx venne drasticamente ridimensionata e poté così formulare solo una critica riduttiva e piatta dell’antiautoritarismo. Irretito com’era nelle categorie della socializzazione astratta della merce e del denaro il marxismo tradizionale non riuscì mai ad analizzare in maniera adeguata l’antiautoritarismo. La sua scialba denuncia dell’«individualismo piccolo-borghese» rivelò solo la sua incapacità di riconoscere nell’ideologia antiautoritaria un’espressione della socializzazione capitalistica. Questa banale attribuzione sociologistica, l’identificazione di un’ideologia che caratterizzava una classe ben precisa – la cosiddetta «piccola borghesia» – eclissava la circostanza per cui il problema dell’individualità astratta, con il progresso dello sviluppo capitalistico, accomunava tutte le classi, compresa la classe lavoratrice come portatrice della merce forza-lavoro e quindi come soggetto borghese del denaro. Limitandosi a contrapporre all’individualismo astratto antiautoritario il paradigma organizzativo del vecchio movimento operaio, la critica dell’ideologia antiautoritaria restò imprigionata nel dualismo della riflessione borghese; non prese posizione in favore dell’individualità comunista concreta, mediata da una lotta di liberazione sociale, contro l’individualità astratta del denaro, ma solo in favore di una variante della socialità astratta (nella forma del «socialismo di Stato») contro la privatezza astratta dei liberali e della loro variante anarchica «rovesciata».
Pertanto il motivo fondamentale dell’antiautoritarismo sopravvisse all’anarchismo sociale, non solo in occasione delle crisi capitalistiche. Il vero tema della filosofia del XX secolo fu proprio il soggetto borghese del denaro, astratto e privo di contenuto. Esso venne affrontato dalla Lebensphilosophie e dall’esistenzialismo ma, naturalmente, non poté essere risolto in termini filosofici. Anche la Teoria Critica della Scuola di Francoforte va collocata in questa costellazione (come del resto gran parte del «marxismo occidentale»). Da un lato la critica dello «Stato autoritario» e della «personalità autoritaria» si riferiva alle istanze fondamentali del vecchio antiautoritarismo; dall’altra essa era influenzata dal dibattito filosofico dell’epoca e si riallacciava alla critica dell’economia politica di Marx. Il risultato fu, sotto molti aspetti, alquanto eclettico: una risoluzione critica della vecchia opposizione non venne mai trovata. Di fatto la Teoria Critica riprodusse in sé il vecchio dualismo borghese tra individuo e società nei termini di un’opposizione esterna tra elementi antagonisti, impossibile da mediare; tuttavia, diversamente dal marxismo tradizionale essa non si limitò a contrapporre l’universalità sociale astratta nella forma del «socialismo di Stato» contro l’individuo (liberale) ma volle prendere le difese di questa individualità, l’«unico» (compresa la singola esistenza proletaria nella sua irripetibile unicità), mediante le categorie di Marx, filtrate però attraverso il dibattito filosofico borghese, contro le angherie dei poteri della società astratta, negativa che, nel corso del XX secolo, avevano raggiunto un livello intollerabile. Neppure la Teoria Critica riuscì a superare l’individuo nella sua astrazione e pertanto il motivo centrale di Stirner continuò a sussistere, anche se attraverso mutazioni e sviluppi. In ogni caso, il temerario tentativo di fondare la liberazione dell’individuo sulla teoria di Marx, in spregio alla sua interpretazione tradizionale, segnò la possibilità di una nuova via per la teoria stessa, oltre la mutilazione del marxismo ortodosso, che però finora nessuno ha osato percorrere.
Il movimento studentesco, ancora nel 1968, dovette fare i conti con questa situazione storica della critica sociale riflessiva e non fu in alcun modo in grado di saltare oltre la sua ombra. Non gli riuscì l’impresa di «saltare da fermo», verso l’elaborazione di una teoria nuova e così fu costretto, all’inverso, a scovare una legittimazione teorica per la sua opposizione alla società esistente. Di fronte all’irrigidimento della socialdemocrazia nella sua istituzionalizzazione borghese e all’assoluta impotenza teorica e politica della falsa ortodossia marxista del «marxismo-leninismo» dell’Est, l’adozione di una versione dell’ideologia antiautoritaria, passata attraverso il setaccio storico della Teoria Critica, apparve come un inevitabile fenomeno di transizione per la teoria e la prassi radicale; l’inconcludenza e l’esaurimento teorico del marxismo tradizionale, il cui riferimento era il movimento operaio tradizionale, rese necessario il ricorso ai filoni meno screditati del pensiero radicale.
Se nelle crisi del XX secolo l’antiautoritarismo era rimasto pur sempre nel cono d’ombra del vecchio movimento operaio e dei suoi partiti di massa, nel 1968 poté godere finalmente delle luci della ribalta storica, in quanto idea fondamentale del movimento internazionale giovanile e studentesco, come se si trattasse della rivendicazione in forme nuove di una vecchia promessa inappagata, sulla quale erano naufragati sia il liberalismo che il marxismo tradizionale. Gli apostoli del marxismo tradizionale reagirono con un misto di sbalordimento e di repulsione, come dimostra l’invettiva di uno dei loro propagandisti:
L’anarchismo è risorto; scatena l’entusiasmo di studenti sediziosi, disinnesca le bombe a mano della propaganda, sommerge le bancarelle dei libri, rimpingua il lessico dei resoconti polizieschi. Si tratta di una circostanza indiscutibile, per quanto sconcertante. Pensavamo fosse morto una volta per tutte, un reperto archeologico, ma la sua era solo una morte apparente. Occorre rinnovare la discussione, arricchendola con l’esperienza di un secolo burrascoso (Frei 1971).4
Ma in questa discussione rinnovata i «tradizionalisti» non avevano davvero più nulla da dire; lo illustra in maniera evidente quanto involontaria lo stesso autore, quando si scaglia, con le parole che seguono, contro l’«individualismo piccolo-borghese» del nuovo movimento antiautoritario ed il suo concetto neo-anarchico di libertà:
Lo Stato, in quanto garante (!) dell’ordine sociale, non è l’opposto della libertà (!). La questione concerne piuttosto quale Stato deve farsi garante per quale ordine sociale, quale libertà (!) […] La libertà, come insegna Marx, non consiste nella negazione (!), nel rifiuto individuale, nell’isolamento del singolo dalla società ma, proprio al contrario, nella capacità di identificarsi con le leggi di movimento (!) e con gli obiettivi superiori (!) dell’umanità.5
Un conservatore non avrebbe potuto esprimersi in modo migliore. I difensori tradizionalisti del «socialismo reale» e della socialdemocrazia gettarono la maschera, manifestando la loro natura autentica di ideologi della legge e dell’ordine, per i quali la risposta alla rivendicazione di libertà dell’individuo astratto poteva consistere solo nell’integrazione astratta nella sfera politica, che è solo l’altro lato del denaro. Mentre la teoria di Marx identifica effettivamente la soppressione dello Stato e l’abolizione del lavoro salariato e del denaro, l’ideologo della «produzione di merci socialista» e dello Stato «socialdemocratico» rivolge il suo sguardo verso le «leggi di movimento» e gli «obiettivi superiori» dell’umanità. Come se non fossero proprio queste «leggi di movimento» – null’altro se non la logica immanente della produzione di merce, che Marx voleva abolire prima di ogni altra cosa – a determinare la scissione forzata dell’individuo in privatezza astratta e socialità astratta; è da questo dilemma irrisolto che deriva la costruzione nebulosa dell’«ideale» esteriore e degli astratti «obiettivi superiori dell’umanità», cui l’individuo empirico deve «sottomettersi» pena la condanna morale. Gli antiautoritari avevano tutte le ragioni di biasimare e deridere questo marxismo politico collegato al socialismo reale e alla socialdemocrazia. Ma a loro volta neppure essi riuscirono a venire a capo del dilemma classico che consiste nella lacerazione interna dell’individualità borghese poiché il nuovo movimento antiautoritario, così come le forme tradizionali del socialismo politico, non seppe criticare in maniera concreta la produzione di merce come tale e quindi la socialità astratta del denaro. Fu così che il movimento del 1968 si trasformò in una sorta di calderone in ebollizione per tutte le idee emancipatrici critiche del passato, che vennero consumate e rigettate ad un ritmo indiavolato, incluso l’antiautoritarismo stesso.
IV. Per rendere giustizia al movimento antiautoritario va però sottolineato che esso, così come la Teoria Critica, non si limitò a ripetere banalmente e senza soluzione di continuità le affermazioni stirneriane del 1842, né tantomeno si dissolse in maniera pura e semplice nella tradizione ideologica dell’anarchismo. In effetti possiamo riconoscere due differenti filoni argomentativi e interpretativi del nuovo antiautoritarismo, che però a quel tempo non svilupparono appieno la loro opposizione oggettiva. Il primo di essi, davvero importante, il cui contributo potrebbe essere ancor oggi rilevante, venne elaborato dall’«Internazionale situazionista», un organizzazione completamente scomparsa, perlomeno nella coscienza della sinistra tedesca. Come suggerisce il nome singolarmente evocativo, questa corrente sembra essere sorta nel contesto dell’esistenzialismo francese di sinistra. Bollnow ha sottolineato il fatto che il concetto di «situazione» è un concetto fondamentale di tutta la filosofia esistenzialista:
«[…] la situazione non ha nulla a che fare con quanto l’uomo sperimenta solo in modo occasionale ed esteriore, in quanto l’esistenza umana consiste essenzialmente nel vivere in una situazione, poiché l’uomo non può assolutamente sfuggire al suo vincolo con una situazione. Ad ogni istante della sua vita esso è sempre posto in una situazione, che non ha cercato, che non si cura minimamente della sua volontà e dei suoi bisogni, ma che lo opprime come un entità estranea e ostile» (Bollnow 1955).6
Tradotto nel linguaggio dell’attivismo di sinistra, il significato potrebbe consistere in una generalizzazione della vecchia prassi anarchica dell’«azione diretta» in una versione peculiare, la ribellione in quanto soggetto in una forma immediatamente «situata» nei confronti delle «situazioni» oggettivamente poste dalla socializzazione capitalistica. Gli storici dell’SDS, Fichter e Lönnendonker, poi regrediti a socialdemocratici, non hanno poi molto più da dire circa questa fonte del movimento internazionale antiautoritario:
Il clima di fondamentale rassegnazione tra gli intellettuali europei dell’epoca […] costrinse i situazionisti ad adottare una prassi singolare: attraverso «modi sperimentali di comportamento» nell’organizzazione collettiva sarebbe sorto un «ambiente unitario» come «momento costruito della vita» (Fichter/Lönnendonker 1977).7
Questa concezione davvero singolare della prassi ricorda in apparenza certi vecchi esperimenti delle «comuni» anarchiche ed utopiche. E proprio il futuro «comunardo»8 Dieter Kunzelmann fu il fondatore, nel 1959, della sezione tedesca dell’«Internazionale Situazionista», assieme al gruppo artistico SPUR. Tuttavia il gruppo di Kunzelmann venne espulso dall’IS solo un anno dopo, proprio a causa delle sue tendenze putschiste e neo-anarchiche; un indizio del fatto che l’autocoscienza di questa corrente francese fosse di natura ben diversa. Più tardi il medesimo gruppo, con il nome di «Azione sovversiva» (che ebbe provvisoriamente tra i suoi membri lo stesso Dutschke), entrò a far parte della storia dell’SDS e, in Germania, fu precursore dell’attivismo antiautoritario.
Essenzialmente più interessanti furono i tentativi teorici dei situazionisti stessi9, che in Germania passarono quasi inosservati ma che giocarono un certo ruolo nella rivolta del Maggio francese. Nel 1968 venne pubblicata la versione tedesca di un pamphlet situazionista, che in precedenza era già stato diffuso in Inghilterra, in Italia e negli USA. Vi erano espresse idee che non furono quasi oggetto di discussione in seno al movimento tedesco ma la cui rilevanza per una nuova elaborazione critica riulta ancora più evidente ai giorni nostri. Infatti gli antiautoritari dell’IS, invece che ripetere le idee fondamentali del vecchio antiautoritarismo anarchico, le misero in relazione con la critica di Marx del feticismo della merce, ossia con quel lato della critica del capitalismo di Marx che il marxismo tradizionale aveva sotterrato. nascosto sottoterra. Lo stesso Sartre, nelle sue opere più mature, ispirate dal confronto con la teoria di Marx, ritenne possibile una mediazione tra il problema del feticismo e la filosofia esistenzialista anche se non si spinse mai oltre un primo tentativo (vedi Sartre 1967).10 Superando il «marxista» Sartre, i situazionisti intendevano attaccare e abolire l’estraniazione dell’individuo dalla sua esistenza individuale, costruita sulla base del feticcio della merce; uno dei loro slogan recitava: «Abbasso il mondo delle immagini e il feticismo della merce». Per i situazionisti il «mondo delle immagini» non era altro che l’esistenza del feticcio della merce nella cultura del consumo di massa capitalistico dell’epoca fordista, una prospettiva assai più feconda del concetto antiautoritario di «compulsione al consumo», a quei tempi popolare in Germania, anche se oggi potrebbe sembrare un po’ naif la conversione in uno slogan immediato di questa idea teorica fondamentale. Nell’opuscolo situazionista si legge tra l’altro:
Il feticismo dei fatti maschera la categoria essenziale e i particolari fanno dimenticare la totalità. Tutto si dice di questa società, salvo quello che effettivamente essa è: società della merce e dello spettacolo.11
Da questa angolazione fu possibile sottoporre la sinistra tradizionale ad una critica fondamentale in termini veramente nuovi:
All’interno di questo mondo alcune organizzazioni che si pretendono rivoluzionarie combattono solo apparentemente, sul suo terreno, il vecchio ordine attraverso le più grandi mistificazioni.12
Un giudizio che, per quanto generico, coglie appieno l’essenza del vecchio movimento operaio, inseparabile dal suo marxismo; certo, riecheggiano i toni di una critica quasi «ontologica», da imputare ad una analisi astorica, ancora debitrice dell’esistenzialismo, destinata a sfociare nella denuncia astratta del vecchio movimento operaio come «falso», senza approfondire le condizioni concrete in cui esso operò. Rilevante è però il fatto che i situazionisti, invece di criticare l’immanenza del marxismo tradizionale dall’usuale punto di vista politico-rivoluzionario, espressero direttamente rivendicazioni molto avanzate nei confronti della società della merce e del denaro:
Non basta essere per il potere astratto dei Consigli operai, bisogna dimostrarne il significato concreto: l’eliminazione del proletariato e della produzione della merce. La logica della merce è la razionalità prima ed ultima della società attuale, è la base della autoregolazione totalitaria di queste società simili a quei giochi di pazienza i cui pezzi, in apparenza completamente diversi l’uno dall’altro, sono in realtà equivalenti. La reificazione imposta dalla società della merce è l’ostacolo fondamentale per una emancipazione totale, per la costruzione libera della vita. Nel mondo della produzione della merce la prassi non si attua in funzione di un fine determinato in modo autonomo, ma è soggetta alla pressione di poteri esterni. Se le leggi dell’economia sembrano diventare leggi naturali di un tipo particolare è solo perché il loro potere si fonda unicamente sull’«assenza di coscienza di coloro che vi sono implicati». Il principio della produzione della merce è la perdita di se stessi nella creazione caotica e inconsapevole di un mondo che sfugge totalmente ai suoi creatori.13
Questo tentativo solitario di criticare radicalmente la forma-merce è tanto più apprezzabile nel suo significato se si pensa che negli ultimi vent’anni il «radicalismo» della sinistra non si è mai spinto molto più in là del mero parteggiare per il «potere astratto dei Consigli Operai», sia nella Nuova sinistra, nel frattempo incanutita, sia tra gli autonomi (quando va bene). Va detto comunque che queste tesi situazioniste, per quanto rimarchevoli, peccarono pur sempre di astrattismo e non fu possibile per loro tramite – proprio a causa delle loro basi esistenzialistiche – concretizzare la critica di Marx dell’economia politica in una forma consona ai tempi. Inoltre neppure i situazionisti furono in grado di superare la falsa identità di teoria e prassi immediata che caratterizza l’attivismo degli antiautoritari. Ciò che la labile coscienza della sinistra rammenta di quel tentativo, può essere forse condensato in questa sentenza frequentemente citata: «Le rivoluzioni del proletariato saranno feste o non saranno affatto». Ma non si rende certo giustizia ai situazionisti associandoli da un edonismo astratto, immediato, a causa di qualche idea separata dal contesto. La loro critica radicale della merce e del denaro supera di gran lunga l’antiautoritarismo consueto e può fungere ancor oggi da «punto archimedeo» su cui occorre far leva per svellere gli ordini sociali esistenti.
Come preconizzazione, fin troppo in anticipo sui tempi, di un futuro movimento rivoluzionario, che fino ad oggi non è stato ancora realizzato, tale tentativo non fu né mai accettato, né veramente compreso dalla coscienza ordinaria del movimento del 1968; gli stessi situazionisti lamentavano il fatto che le loro idee fossero state «fondamentalmente commentate e fondamentalmente fraintese da tutta la pubblicistica borghese di sinistra». Un giudizio più che mai valido per il movimento tedesco, che del resto non si è neppure mai dato la pena di commentare. Si affermò invece un’interpretazione dell’antiautoritarismo collegata alle implicazioni desolatamente riformiste della Teoria Critica, incapace di tenere il passo con la radicalità della proposta francese, che intendeva rinnovare la teoria di Marx in chiave «esistenzialistica». Indubbiamente anche la Teoria Critica tematizzò le mistificazioni della cosiddetta «società dello scambio», tuttavia la sua audacia teorica si arrestò prima ancora di percorrere la nuova via che essa stessa aveva aperto; pertanto essa si limitò ad invocare l’incompreso individuo astratto contro la sua stessa mistificazione sociale e a ripiegare nel mondo concettuale del feticismo democratico. Invece di attaccare direttamente la forma-merce come tale la concretizzazione della critica si rivolse solo contro le forme secondarie del suo sviluppo storico. E così la Teoria Critica dimostrò, in ultima analisi, tutta la sua vaghezza e inconsistenza nei confronti della «spina dorsale» della società borghese; da un lato si ritirò nella sfera culturale, dall’altro adoperò ancora una volta in maniera acritica le categorie feticizzate dell’economia politica (a questo proposito si vedano i saggi teorici dedicati alla pianificazione economica di Friedrich Pollock, l’«economista politico» della Teoria Critica). Ne deriva che la Scuola di Francoforte, nonostante i suoi meriti teorici, fu assai restia a recidere il legame con l’enigmatica individualità astratta del denaro e con il liberalismo borghese, perlomeno rispetto a certe correnti dell’esistenzialismo di sinistra.
Sulla scorta della teoria di Adorno, Rolf Wiggershaus ha compendiato in maniera convincente le premesse e le conseguenze essenziali della Teoria Critica. Per quest’ultima l’obiettivo di Marx sembrava la «realizzazione in un senso diverso da quello borghese» delle idee borghesi di libertà, uguaglianza e fraternità, l’adempimento delle promesse dell’Illuminismo e del liberalismo. Questa tesi potrebbe essere plausibile se fosse intesa in un senso quasi morale o metaforico (si pensi, ad esempio, all’immagine di Marx del «regno della libertà»). Ma sul piano teorico-concettuale e e su quello della prassi sociale rivoluzionaria Marx era più che mai lontano da simili propositi; infatti per esso il problema non consisteva nella realizzazione bensì, proprio all’opposto, nel superamento del liberalismo e dell’Illuminismo. L’idea della realizzazione è irretita nel feticismo della merce e quindi dell’astratta soggettività monetaria. Da essa non possono che derivare conseguenze riformiste, come quelle sostenute in tutta franchezza da Habermas che, da buon illuminista, si balocca sistematicamente con questo concetto di «realizzazione» nei confini della legalità giuridica e delle leggi della produzione di merce. Anche in Adorno questo riformismo rassegnato è pur sempre il frutto dell’intreccio, liberale nella sua essenza, tra economia di mercato e individualità; data l’impossibilità di venire a capo dell’enigma della forma-valore come forma fondamentale della reificazione, anche la critica delle forme culturali derivate non approda a nulla e di conseguenza non si capisce come possa sorgere un’individualità sociale comunista nel superamento della produzione di merce. Eludendo il problema fondamentale Adorno, così come Horkheimer, si concentra sulle presunte forme di trasformazione del capitalismo in seno alla riproduzione capitalistica stessa; nel «capitalismo organizzato» e nella moderna burocrazia di Stato egli vede solo la distruzione dell’individualità e della soggettività modellate sullo scambio mercantile, soffermandosi soprattutto a deprecare questo fenomeno e ad analizzare il suo decorso:
Adorno era convinto che con la fine dell’economia di mercato e della famiglia patriarcale sarebbero scomparsi non solo gli imprenditori relativamente autonomi ma anche gli individui relativamente autonomi […] Sulla scorta di tale giudizio Adorno non riesce ad individuare nessun’altra condizione per la genesi di una forza di opposizione se non quella del capitalismo liberale […] Disgregazione del mercato, disgregazione della famiglia borghese, disgregazione dell’io – sono questi i termini-chiave della visione di Adorno circa la genealogia del soggetto desoggettivato nel capitalismo organizzato in forma autoritaria (Wiggershaus 1987).14
Ovviamente Adorno non era certo un insulso liberale, ossia un ideologo dell’economia di mercato capitalistica; egli invece, coerentemente con la propria autocoscienza, tentò di impostare il problema del superamento della riproduzione sociale nella forma capitalistica ma il suo tentativo, proprio in virtù dei suoi presupposti teorici, sperimentò una curvatura peculiare. Il tallone di Achille di Adorno consisteva proprio nella sua incapacità di criticare fino in fondo la forma-merce e nella conseguente impossibilità di identificare un’individualità diversa da quella astrattamente costituita dalla forma-merce stessa; di conseguenza l’idea del superamento finisce con l’impantanarsi, non viene più scandagliata riflessivamente e si esaurisce quindi nella falsa posizione del problema delle «condizioni», che vede nella soggettività costituita dal «capitalismo liberale» (ritenuto ormai defunto) allo stesso tempo la condizione necessaria del rifiuto radicale: un’idea che si riduce a una «black box», un proposito assolutamente sterile sul piano teorico. Ne risulta infine uno spregiudicato paradosso che può essere concentrato in questa massima inerme: il superamento del capitalismo esige proprio il salvataggio del «capitalismo liberale». Astraendo dal fatto che si tratta solamente di un circolo vizioso, imputabile al piattume ideologico della «realizzazione», al suo interno si delineano già i contorno, per quanto incerti, della tendenza a combattere battaglie difensive per le «condizioni» della liberazione; una liberazione che però è vuota nella sua sostanza e che quindi può essere agevolmente ricondotta nella gabbia della forma-merce. Non a caso, su questo punto, affiora un’associazione sconcertante, una rievocazione del revisionista Bernstein: «Il movimento è tutto e il fine nulla». Si osserva quindi come la compatibilità teorica tra Teoria Critica e ideologia socialdemocratica, che da allora si tradusse anche nella pratica, possa essere spiegata già sulla base dell’impostazione teorica. Se ne conclude che la radicalità apparente del movimento antiautoritario, legata com’era a questo genere di argomentazioni, celava al suo interno fin dal principio il germe della sua conversione a uno scialbo riformismo.
Il dilemma del movimento nel rapporto con i suoi «padri teorici» può essere così riassunto: invece di criticare la loro ritirata verso il riformismo democratico sulla base della teoria stessa, la critica del movimento fu prettamente formale e si limitò a puntare l’indice contro una presunta «volontà di prassi» deficitaria. Questa critica unidimensionale diretta contro le autorità professorali come Horkheimer, Adorno e Habermas, che si erano messi istintivamente sulla difensiva nei confronti di uno spettro che nessuno si era mai sognato di evocare, contribuì oltremisura ad un ottuso feticismo della prassi, che fece scivolare gradualmente la sinistra rivoluzionaria lungo la china della demoralizzazione. Un dilemma che emerge nell’impostazione strategica di Rudi Dutschke, la principale figura simbolica di quel movimento. La «lunga marcia attraverso le istituzioni», il «processo di cambiamento» possono essere interpretati in maniera duplice – ed è qui che si annida l’ambiguità inconsapevole del movimento: o vanno intesi come un processo di coscientizzazione rivoluzionaria – e quindi contro il denaro e, più in generale, contro la società della merce (nel senso di Marx e dei situazionisti del 1968, che però non seppero dare uno sviluppo ulteriore ai loro propositi), oppure si tratta di un «rinnovamento democratico» della produzione di merce, ossia del capitalismo. Tertium non datur. Su questo punto le parole di Dutschke sono inequivocabili:
Il problema delle riforme non si pone neppure più. Le riforme del genere che sarebbe possibile imporre servono solo a perfezionare le celle che ci imprigionano, riproducono la realtà esistente […] (Dutschke 1980).15
Ma ancora una volta il contenuto appare indeterminato, nulla viene detto circa l’attacco diretto alla produzione di merci e quindi al denaro come forma della socializzazione capitalistica (e solo questa radicalizzazione renderebbe possibile anche una critica rivoluzionaria del «socialismo reale»); è proprio questo a far sì che sia possibile interpretare Dutschke in un senso conforme alla democrazia e al feticismo della merce. In questa nebbia concettuale l’enfasi sulla liberazione dell’individuo, ancora plausibile sul piano soggettivo, può sempre essere assorbita dal mondo borghese, se non nella situazione dell’epoca, quantomeno in una prospettiva storica. Verso la fine lo stesso Dutschke entrò a far parte di un’organizzazione politica borghese, ossia il partito dei Verdi, e la sua morte precoce gli precluse qualsiasi ripensamento rispetto a questa decisione.16 Ma durante i fasti del movimento, quando ancora era in vita, era già stato chiamato in causa e strumentalizzato in maniera estemporanea dall’integrazionismo borghese, un’idea che a quel tempo Dutschke rifiutò con veemenza:
L’esistenza di Dutschke, il fatto che ci troviamo costretti a prenderlo sul serio, consegue dalla situazione odierna della nostra democrazia parlamentare e dei partiti che la sostengono. Se i Dutschke – questa volta non in senso negativo – forniranno lo stimolo per un’autoriflessione necessaria nello Stato e nei partiti, per la ri-democratizzazione, essi finiranno col rafforzare quello Stato che si illudono di abolire. Un risultato che Dutschke non desidera affatto ma che è invece auspicabile per la maggioranza (Stuttgarter Nachrichten, 5/12/1967).17
Dopo la sua morte Dutschke verrà interpretato dalla maggior parte dei suoi compagni dell’epoca esclusivamente in questa prospettiva; la dimensione intrinseca alla logica della merce e della democrazia del movimento del 1968 verrà dichiarata come l’unica valida mentre l’elemento innovatore, in grado di superare l’immanenza democratica, sarà ferocemente rinnegata assieme alla coscienza rivoluzionaria. Nel migliore dei casi l’obiettivo che questi signori si pongono oggi – e che il Dutschke del 1968 avrebbe rigettato con orrore – è il «perfezionamento delle celle di prigionia», per giunta solo nel caso in cui tale proposito risulti «fattibile».
Ma l’ambivalenza del movimento antiautoritario si manifesta ancora meglio e in una forma ancora più eclatante che in Dutschke in un altro portavoce del movimento, Oskar Negt, che mai e poi mai si potrebbe accusare di velleità rivoluzionarie e che probabilmente, nel suo intimo, fu sempre un tesserato del partito socialdemocratico. In un discorso dell’ottobre 1967, «Politica e protesta», più volte ripubblicato, Negt accenna incidentalmente ai «rapporti reificati di dominio» ma dietro a questa espressione ossificata, molto distante dal radicalismo concettuale dei situazionisti, non traspare nessun significato particolare. Le argomentazioni di Negt prendevano di mira la costellazione quanto mai arretrata e angusta della storia tedesca del dopoguerra; il bersaglio da colpire non era certo il feticismo della merce, sulla strada dell’imposizione storica totale, ma un processo specifico che aveva luogo nello stadio più recente della produzione capitalistica e che virava verso lo «Stato autoritario» di Horkheimer e Adorno. Per Negt il problema consisteva quindi nel
[…] consolidamento di una società autoritaria fondata sull’efficienza produttiva che, nell’interesse delle strutture decisionali monopolistiche e statali, punta ad eliminare gradualmente la sfera liberale della discussione politica, del controllo parlamentare, della faticosa negoziazione di compromessi e della temporanea conciliazione di interessi contrapposti in quanto quintessenza dello spreco superfluo in un’impresa complessiva sociale funzionante.18
Nella loro franchezza queste parole non fanno che esprimere una posizione difensiva, che non si riduce a una questione di mera tattica e che, in sostanza, si limita ad invocare la «sfera liberale del controllo parlamentare», ponendosi come unico obiettivo chiaramente formulabile la «conciliazione degli interessi contrapposti» (in ultima analisi come «partner sociali») nel senso del più ordinario legalismo sindacale. Non c’è dubbio: nel medesimo frangente Negt concede che il movimento sia nato «con una pretesa totale di cambiamento sociale» ma questa formulazione priva di contenuto lascia già intendere che la totalità di questa pretesa non farà troppi passi avanti. Lo si capisce ancora più chiaramente quando Negt, a riguardo dei gruppi antiautoritari, dichiara che «[…] nella riflessione politicamente efficace sviluppano forme di auto-attività organizzativa» e quindi non solo realizzano «le pretese di solidarietà democratica, interne al diritto costituzionale, che contiene l’elenco dei diritti fondamentali» ma, simultaneamente, instaurano «zone autonome di resistenza pratica contro un ordine, che può reagire alla forza per la legittimazione con la forza e la violenza come legittimazione».19
Ma se queste non meglio definite «zone autonome di resistenza» fossero davvero funzionali a un cambiamento sociale radicale allora sarebbero allo stesso tempo la rottura con tutte le rivendicazioni «interne alla legalità costituzionale» e non potrebbero mai ricongiungersi ad esse secondo la logica del «non solo – ma anche». L’ambiguità di Negt non solo ci permette di identificare tra una folla di baschi rivoluzionari il futuro accademico piccolo-borghese, che con queste dichiarazioni intendeva cautelarsi anticipatamente da qualsivoglia interdizione alla carriera universitaria per violazione del codice penale, ma certifica proprio l’ambiguità inconsapevole del movimento stesso. A ben vedere, il suo vero punto di partenza empirico fu la «difesa della democrazia» e della costituzione borghese contro la legislazione di emergenza, la «Grande coalizione» e le tendenze verso la formazione «tecnocratica». La sua dinamica specifica aveva sospinto il movimento verso posizioni formalmente rivoluzionarie, il cui contenuto però non poté essere definito e concretizzato con maggior precisione. Il presunto radicalismo era più che altro meramente formale, diretto alla «violazione delle regole del gioco», alla trasgressione degli ordinamenti accademici, invece che a un contenuto radicale, rivoluzionario. In ultima analisi la sostanza del movimento non si mosse granché dal punto di partenza – la cui matrice era democratica, quindi irretita nel feticismo della merce, nel capitalismo – che gli aveva conquistato la sua base di massa. Anche questo aspetto risalta in maniera esemplare alla conclusione del discorso di Negt, quando egli afferma che
[…] una prassi costituita mediante la dialettica tra elementi anti-istituzionali e istituzionali, che crei le condizioni (!) per un superamento in senso socialista della società capitalistica di classe, trasformerà la violenza sotterranea del sistema di dominio in violenza manifesta nella misura in cui l’attività democratico-rivoluzionaria (!) si conquisterà una reale base di massa. Solo in seguito ad una simile espansione il contenuto politico della protesta potrebbe essere concretizzato socialmente; la violenza manifesta dello Stato non si rivolgerebbe più esclusivamente contro gli studenti e i giovani ma dovrebbe confrontarsi con strategie di contropotere organizzato, in grado di raccogliere tutti i democratici di questa società (!!) in un fronte unitario di resistenza.20
Da queste parole fanno capolino le meravigliose orecchie d’asino democratiche di Negt, oggi ancor più sviluppate di allora: come nel caso di Adorno, la battaglia si riduce a una mera lotta per le «condizioni». Ma questa indicazione, se applicata a un movimento sociale concreto, appare ancor più dubbia e confusa. Ad esempio, se queste «condizioni» consistessero nel sabotaggio del processo reale della riproduzione sociale, sarebbero impossibili da «creare» mediante lo sforzo soggettivo di un movimento di giovani e di studenti, ancora relativamente inadeguato per questo scopo; se invece si trattasse semplicemente di «condizioni» di coscienza, di una «cultura rivoluzionaria» o della diffusione della comprensione teorica, esse coinciderebbero proprio con l’affermazione, l’elaborazione e la concretizzazione dei contenuti rivoluzionari stessi, non certo con la fiacca rivendicazione delle esigenze e delle parole d’ordine della coscienza democratica borghese. Chiamare a raccolta la «comunità dei democratici», addirittura «tutti i democratici di questa società», in una forma che si presume autentica, alternativa, invocare il principio della società borghese contro la sua realtà empirica, invece di distruggere questo principio ideologico con una critica radicale della forma-merce, rivoluzionaria nella sua sostanza – tutte queste cose sono pur sempre manifestazioni immanenti al mondo borghese, che smascherano la falsità di ogni tono pseudo-radicale. Ma questa ottusità democratica, tutta rinchiusa nella gabbia delle astrazioni feticistiche, è solo l’esito necessario di un’impostazione teorica decurtata. Data l’assenza di uno specifico contenuto rivoluzionario non resta che rimasticare fino alla nausea gli ideali della borghesia rivoluzionaria del XVIII secolo, ormai in putrefazione, mentre il radicalismo presunto si colloca necessariamente sul livello della forma; è questa la ragione per cui la «questione del potere», che è puramente formale, si trasformò in un’architrave, eternamente riproposta, finendo col degenerare, in quanto vuota o infarcita di inermi contenuti borghesi, in una militanza esteriore e stilizzata a base di «strategie di contro-potere organizzato».
Oggi Negt non comprende certo la sua corresponsabilità per la via distruttiva ed autodistruttiva imboccata dalla RAF, che però, malgrado tutto, gli può essere comunque rimproverata a partire dalla costellazione fin qui descritta. Sul piano morale i militanti della RAF furono più coerenti degli accondiscendenti carrieristi accademici alla Negt che, nonostante la loro aura, non furono mai radicali nella loro sostanza. Di conseguenza il fatto che Negt, vent’anni dopo, nel novembre 1986, in occasione di un congresso di ex-membri della SDS, manifesti in tutta sincerità, senza alcun imbarazzo, il suo totale fraintendimento delle categorie fondamentali della critica della merce di Marx non andrebbe neppure considerato come un collasso teorico:
È un peccato che molte persone […] abbiano letto del Capitale solo i capitoli che trattano della forma-valore; sono i capitoli più astrusi, oscuri e, probabilmente, superflui – probabilmente. D’accordo, su questo punto qualcuno avrà forse da obiettare, non intendo indugiare […] Sul piano pratico non è così essenziale per me, non lo è, dunque come le forme del valore […] oppure no.21
Questo balbettio aconcettuale è fin troppo eloquente. E si può neppure parlare di decadenza perché il livello teorico non fu mai più elevato di così. Oggi semplicemente non c’è più bisogno di nessuna retorica pseudo-radicale. Pienamente soddisfatto e ben collocato nella «pratica» della società capitalistica, la cui forza normativa viene finalmente riconosciuta senza opporre alcuna resistenza, Negt è libero di esibirsi ora nei suoi sproloqui democratici presso una cerchia di accoliti, convertiti al «realismo». Davvero non c’è più vergogna. L’interpretazione democratica del movimento antiautoritario, che aveva avuto la meglio fin dal principio su tutte le altre opzioni più feconde, in particolare su quella dei situazionisti francesi, capitolò necessariamente, in virtù della sua stessa logica interna, di fronte alle conseguenze dell’irrisolta soggettività monetaria del feticismo sociale della merce, finendo col professare apertamente, in nome della «Realpolitik», la propria fede nella sfera politico-giuridica del capitalismo.
V. Nonostante le obiezioni del marxismo tradizionale, l’antiautoritarismo del 1968 ebbe sicuramente dei meriti. Esso mise in risalto, anche solo per un brevissimo istante storico, un livello della contraddizione sociale che, in seguito, non venne mai più riconosciuto da nessuno e, proprio in virtù della sua ambivalenza sociale, si convertì in un fattore indispensabile dello sviluppo. In ogni caso non fu all’altezza – proprio come non lo fu il marxismo – di affrancare l’emancipazione sociale dai suoi cascami storici. L’individuo come astrazione estrema non è in grado di comprendere le basi della sua costituzione sociale; di conseguenza, la ribellione della monade nei confronti delle sue istituzioni sociali è puramente formale, simulando, mediante uno pseudoradicalismo di facciata, le estreme conseguenze della soggettività borghese, senza che si verifichi nessun superamento reale, né sul piano teorico (logicamente precedente), né su quello pratico. Pertanto l’inevitabile regressione di questo antiautoritarismo vuoto lo riconduce infine nel grembo del mondo borghese, contro cui si era battuto a più riprese con entusiasmo donchisciottesco, mutando continuamente le sue sembianze ad ogni fase dello sviluppo della socializzazione capitalistica. Da principio il ritorno pacifico della pecorella smarrita nel recinto borghese o, per usare un eufemismo di un altro ex-pseudoradicale, Thomas Schmid, il «ritorno a casa della sinistra» si verificò in punta di piedi, manifestando addirittura un carattere superficialmente oppositivo. In fondo l’antiautoritarismo dell’SDS contribuì alla liquidazione di una forma tradizionale di organizzazione borghese, del tutto analoga ad un istituto per l’addestramento di cagnolini ubbidienti; ed anche questo fu certamente un merito. Va detto però che il «problema dell’organizzazione» della sinistra radicale non potè certo essere risolto mediante una «dissoluzione nel movimento» puramente negativa in quanto priva di contenuto; già nell’ambito di questo problema apparente fece capolino la regressione borghese. La sua manifestazione concreta fu l’ascesa repentina quanto meteorica delle «sette comuniste»22 con il loro terrificante bizantinismo, generalmente orientate verso il modello del partito bolscevico. Nell’illusione dei loro adepti la mitologizzazione del proletariato e della lotta di classe (entrambi già defunti sul piano empirico) del Novecento – quando «il mondo rivoluzionario era ancora in ordine» – erano un sintomo del «tradimento» della loro classe di appartenenza – la «piccola borghesia» – e del «passaggio tra le fila della classe operaia»; in realtà si trattava solo di una stazione intermedia nel viaggio che li avrebbe condotti a ritroso verso gli ancestrali lidi borghesi. Certo, ad ogni fase del movimento vi fu sempre chi si rifiutò di proseguire la marcia, cosicchè, ancor oggi, tutti questi fenomeni di transizione sono empiricamente visibili in un formato bonsai, senza però il benchè minimo cambiamento nell’evoluzione generale del processo. Nei fatti il feticismo organizzativo «proletario», agghindato nei suoi abiti d’epoca, con le sue rigide inibizioni mentali e l’autoflagellazione degli «intellettuali» (tra i quali era lecito e doveroso includere qualsiasi matricola «rivoluzionaria» della facoltà di letteratura), servì soprattutto a strangolare ed estinguere ogni residua dinamica «eccedente» del movimento, prossima alla critica radicale del feticismo della merce. Quel marxismo tradizionale, trasfigurato in senso «rivoluzionario», sceso in campo con le sole armi del dogmatismo contro la meschinità delle sue forme decadenti, denunciate come «revisioniste», non fu affatto il polo antagonista, finalmente realizzato, del mondo borghese ma condivise con questo una segreta affinità, che venne percepita solo in maniera subliminale. Verso la fine degli anni Settanta la vera sostanza delle presunte questioni organizzative e di classe venne finalmente alla luce, in un processo di metamorfosi accelerata che condusse al partito dei Verdi, cioè ad un’organizzazione per l’ammaestramento dei criceti, con tutti i crismi della forma giuridica e politica borghese, lo spettacolo farsesco di una resurrezione in abiti verdi della socialdemocrazia nelle nuove condizioni.
A sopravvivere sono state proprio quelle «nuove condizioni» ed è senz’altro corretto affermare che il movimento antiautoritario, non solo in Germania, abbia contribuito alla «modernizzazione», ossia all’imposizione di una forma sociale integrale, negativa, astratta, modellata sulla forma-merce. Ma attribuendosi i meriti della «democratizzazione» sociale, dell’«ampliamento dei diritti e delle libertà» – ritenuta irrevocabile, anche dopo la «svolta» – come se si trattasse di altrettante medaglie da appuntarsi sul petto, i reduci di quella battaglia deformano fino all’irriconoscibilità la vera sostanza di quegli sviluppi. La stessa Teoria Critica, con la sua tesi dello «Stato autoritario», aveva interpretato in maniera alquanto unidimensionale la tendenza storica, pur intuendo l’ambiguità dei concetti nella forma-merce feticistica. Tra intensificazione della repressione e dello statalismo da una parte ed estensione delle libertà (formali) dell’individuo» dall’altra, non c’è affatto esclusione vicendevole bensì implicazione reciproca. La dinamica scatenata della forma-merce astratta e la genesi effettiva dell’uomo astratto includono questi fenomeni nella loro identità. Nel corso del medesimo processo l’uomo viene soggiogato dall’universalità astratta dello Stato ma, simultaneamente, «liberato» nella forma della monade del denaro, priva di contenuto e progressivamente derubata della propria umanità. Chi confonde il lato statalista di questo processo con un «ritorno dello Stato autoritario» dà solo prova di una sconfinata ingenuità teorica e politica (da cui non fu immune lo stesso Adorno). La macchina della repressione statale, l’espansione davvero mostruosa degli apparati burocratici, colpisce gli individui in forme sotterranee o manifeste, mentre le contraddizioni omicide della forma-merce totale li gettano nella disperazione, fino a farli letteralmente impazzire; tuttavia questa repressione non ha più la funzione di conservare gerarchie e strutture autoritarie tradizionali, come fu per gli apparati dello Stato semi-feudale. Viceversa gli individui devono conformarsi, senza alcun genere di limitazioni, al libero movimento del «soggetto automatico» (Marx), alla forma-valore della riproduzione sociale e quindi del denaro, finalmente totale. Le residue strutture tradizionaliste e le forme di coscienza autoritarie dovevano essere eliminate proprio perché di ostacolo alla libera fluttuazione delle monadi del denaro, ed è proprio in quest’ambito che il movimento antiautoritario ha raccolto i suoi «successi» più duraturi.
Diversamente da quanto suggerisce la Teoria Critica il capitalismo «liberale» del XIX secolo non fu affatto il capitalismo «autentico», imperniato sull’individuo liberale, potenzialmente capace di realizzare una «vera» emancipazione, generalizzabile alla società nel suo complesso, ma un capitalismo semi-feudale, molto distante dal suo perfezionamento e dalla sua piena maturazione, in grado di assorbire al suo interno solo una parte della società; inoltre l’individuo liberale dell’epoca non coincideva ancora con l’individualità astratta integralmente sviluppata ma ne costituiva solo una protoforma embrionale. Ma allora, contrariamente all’opinione di Adorno e Horkheimer, il capitalismo integrale o totale fordista non fu un superamento del capitalismo sul suo stesso terreno ma il compimento definitivo del capitalismo stesso, di cui essi collocavano, a torto, l’apogeo nel passato. Per quanto perverse, le forme secondarie del feticcio della merce, da essi descritte, non furono l’esito di un falso superamento della merce, bensì del ritorno della merce a sé, l’epifania della sua vera natura e del suo riflesso logico su se stessa. Ogni rivendicazione dell’aporetica soggettività astratta nei confronti delle istituzioni dell’universalità astratta, come presunto bastione delle tradizioni autoritarie, era destinata a sprofondare progressivamente nel feticismo della forma-merce, come del resto aveva presagito lo stesso Adorno. La sua opposizione alle pretese di «prassi» degli antiautoritari assume così tratti meno drastici. In effetti ogni realizzazione parziale delle idee emancipatrici antiautoritarie in seno alle forme della società borghese si è sempre rovesciata nel suo esatto contrario. Ad esempio, la realizzazione parziale della «liberazione sessuale» non poté che sfociare nell’industrializzazione pornografica della sfera sessuale. La «democratizzazione» della sessualità coincide in forma immediata con la sua commercializzazione pornografica. In caso contrario, l’interpretazione «democratizzante» del movimento antiautoritario sarebbe entrata in collisione con la forma-merce invece di collaborare alla sua imposizione.
L’evoluzione del movimento antiautoritario non ha contribuito solo all’imposizione sociale oggettiva e all’ulteriore scatenamento storico della forma-merce poiché esso ne è stato contaminato anche nella coscienza soggettiva; lo testimoniano gli «alternativi», l’ultima forma decadente del movimento, il cui retaggio è la cosiddetta «riforma della vita»23 e i cui polimorfici progetti finora non sono altro che un pilastro sociale del partito dei Verdi. Concentrandosi esclusivamente sulla socialità dell’individuo e sulle sue pretese i progetti «alternativi» hanno significato fin dal principio l’abdicazione da ogni pretesa sociale, il sacrificio pratico di ogni riferimento politico alla società nel suo complesso, degradato a orpello morale. Una volta ridotte ad asfittiche «residenze collettive», tipografie, case editrici, birrerie, librerie, spazi culturali, etc., le «comuni», separate da un movimento politico in decomposizione, si convertirono, più o meno volenterosamente, in «attività commerciali». E così anche la loro funzione di luogo organizzativo, un tempo subordinata ad una certa finalità sociale, si sottomise ad una privatezza astratta fine a se stessa, in cui ogni prospettiva trascendente, rivolta alla totalità sociale, venne liquidata ed esiliata ideologicamente verso l’interno: la politicizzazione del privato cedette il passo alla privatizzazione del politico, all’enfasi sull’autodeterminazione rivoluzionaria subentrò l’invocazione sommessa di un’«autogestione» nel senso della «riforma della vita» e nell’ambito prosaico dei progetti alternativi. Questi progetti, un tempo meramente logistici, ormai solo il pallido riflesso di una pretesa sociale, realizzati da un movimento dedito a una pseudoproduzione da «riforma della vita» (panetterie e altre imprese artigianali «alternative», attività agricole sulla «terra bruciata» delle vecchie culture contadine ormai estinte, fino al modello delle «imprese di lavoratori» keynesianamente sovvenzionate dallo Stato) e la loro interconnessione mediata dallo Stato stesso, non segnalano una nuova metamorfosi della soggettività «ribelle», quanto piuttosto la sua totale soppressione, la rinuncia incondizionata ad un cambiamento rivoluzionario della produzione sociale reale, dopo solo pochi anni di esangui tentativi. E l’ipocrita celebrazione dell’astrattezza borghese del soggetto-movimento, che si manifesta nelle sue forme di decomposizione direttamente legate alla forma-merce, ne comprova solo l’ottusità teorica:
In tempi in cui la riflessione come principio dell’esistenza è sotto assedio, compaiono movimenti sociali, per i quali può valere come esempio il movimento degli alternativi, che intraprendono direttamente (!) la battaglia in difesa di tutte quelle forme di esistenza minacciate dalla tecnica, comprese le possibilità della coscienza individuale – sebbene in maniera contraddittoria (Daniel 1981).24
Alla produzione alternativa di formaggio naturale dovrebbe seguire logicamente quella teorica. «Per quanto in maniera contraddittoria»: questa retorica qualunquista non è certo in grado di indagare né la forma sociale né tantomeno la sostanza della soggettività di cui si fa portavoce. Nel totalitarismo sociale della produzione di merce, questa sostanza si riduce al fine-in-sé della forma vuota, cui non è possibile venire a capo senza una critica fondamentale proprio di questa forma. Ma di sicuro è più semplice seguire la corrente, mobilitare la forma-denaro, che la società non è più in grado di ostacolare, così da realizzare qualche «lodevole proposito». Tuttavia, nella vita falsa non vi può essere nulla di autentico; sotto il dettato della forma-merce totalitaria la coscienza individuale non può che assoggettarsi incondizionatamente all’automovimento oggettivo della forma stessa. Ormai da tempo anche il movimento degli alternativi viene incalzato sul suo stesso terreno dalla ferocia della forma-valore sociale, come dimostra la paradossale fondazione di banche alternative nonché la tendenza irresistibile verso la «professionalizzazione», conforme all’economia di mercato, mediante cui le leggi oggettive della forma-merce si prendono gioco di un’«autogestione» totalmente illusoria, come nel caso dell’«autogestione operaia», ormai naufragata, dell’economia di mercato jugoslava. Ma all’orizzonte si profila già una nuova metamorfosi dell’antiautoritarismo, l’ultima, che, in un rapporto stretto con la «professionalizzazione», saprà ricomporre una prospettiva sociale complessiva, sulla base però di un’ideologia militante apertamente antisocialista, nella forma manageriale del «capitalismo ecologico». Gli «ecologisti di mercato» verdi rappresentano solo un piccolo segmento di questa tendenza, il cui baricentro si trova principalmente nella prospettiva «eco-sociale» della tecnologia sociale capitalistica.25 Fin dal principio l’ascesa tardo-fordista del «lavoro sociale» fu intimamente collegata, sia sul piano personale che su quello ideologico, con il movimento antiautoritario e i suoi stadi di transizione, inclusi i progetti «alternativi». Nel contesto del «lavoro sociale» comunale e della sua riflessione «teorica» l’impulso verso la professionalizzazione ha prodotto risultati assolutamente imprevedibili:
L’industria avanzata esige innovazioni sociali per se stessa e per i suoi scopi […] Ciascuno diviene il manager di se stesso […] Il nuovo stile dell’organizzazione aziendale si chiama networking style of management […] in cui ognuno rappresenta una risorsa per tutti gli altri (!). Le imprese si prendono cura delle loro risorse umane (!) orientandosi verso i bisogni sociali e le necessità del mondo della vita dei loro dipendenti. Pianificazione aziendale della vita del lavoratore e pianificazione della vita personale, stile di lavoro e stile di vita si coordinano vicendevolmente in maniera flessibile (!). D’altronde la costituzione di imprese alternative avviene spesso per ragioni sociali: vivere in maniera diversa, lavorare in maniera diversa […] La «nuova povertà» non deve trarci in inganno (!), impedendoci di osservare un processo di valorizzazione delle risorse umane (!) che si contrappone radicalmente alla tesi classica dell’immiserimento. Nell’Occidente industrializzato il singolo uomo può ottenere di più da sé (!) ed essere ancor più produttivo con un minor dispendio […] Le risorse umane sono il potenziale che è possibile utilizzare nella maniera più redditizia (!). In avvenire il ruolo del «lavoro sociale» non sarà più tanto legato al suo impegno continuo nell’assistenza dei bisognosi, quanto piuttosto alla sua efficacia nella creazione di risorse sociali (!) […] Questa creazione è, da una parte, il frutto della connessione diretta tra «lavoro sociale» e attività economica […] Nella Repubblica Federale il settore dell’economia alternativa può già contare su più di 150.000 occupati […] A lungo termine redditività e assistenza pubblica dovranno trovare una conciliazione (!), il guadagno economico e quello sociale un punto di equilibrio. Affinché questo non avvenga sopra le teste degli individui (cioè ancora una volta in maniera «non-sociale») il compito sempre più importante del «lavoro sociale» è quello di restare fedele, all’esterno e all’interno delle imprese, alla propria organizzazione produttiva, partecipando così in maniera socialmente attiva ai processi economici. È questo il significato della parola francese «autogéstion», con cui i francesi considerano l’associazione tra autodeterminazione, autogoverno e auto-amministrazione (!!) […] (Wendt 1986).26
La brutale e perversa reificazione di questo linguaggio e della sua terminologia sancisce la sua stessa autocondanna. Solo adesso è possibile comprendere il vero significato della retorica della «reificazione» dalla bocca di coloro che non seppero convertirla in una critica radicale della forma-merce della riproduzione sociale. E non si tratta affatto di una voce isolata; pensiamo, ad esempio, al «cambiamento di paradigma» di due ex-sociologi dell’industria «di sinistra» del calibro di Kern e Schumann,27 che adesso ripongono le loro speranze in un «management illuminato». Nella sua propaggine oggettiva, così come nella mutazione della coscienza soggettiva dei suoi portatori, il movimento antiautoritario è diventato così l’avanguardia della cultura imprenditoriale capitalistica. Percorrendo un sentiero che parte dall’«autodeterminazione» rivoluzionaria, attraversa un concetto di «autogestione» concepita secondo i criteri della «riforma della vita» e arriva alla brutale definizione di «risorsa umana» cosificata, all’«auto-amministrazione» e all’«autovalorizzazione» la logica inesorabile che distrugge ogni volontà di liberazione, in nome dell’aporetica soggettività astratta, è giunta infine al suo compimento! Non resta che prendere atto, nella maniera più atroce, di come un concetto meramente formale di autonomia o di antiautoritarismo non sia in grado di distanziarsi dalla soggettività monetarista nella sua definizione liberale. Sarebbe sufficiente citare le parole di un altro grande antiautoritario, alternativo e idolatra dell’astratta soggettività monetaria:
La rivoluzione americana fu una rivoluzione filosofica. Per la prima volta nella storia umana il genio individuale del singolo uomo è stato liberato, così da innalzarlo e farlo avanzare fino a dove la sua forza e le sue capacità sono in grado di sorreggerlo (Reagan 1980).28
In questa definizione sostanziale i concetti di «autodeterminazione» e di «autogestione» perdono a posteriori, come mera proclamazione formale di una volontà di liberazione, qualsiasi alito rivoluzionario. Se l’unica cosa che conta è «mettere a frutto se stessi» come soggetti del denaro, per questo scopo non è necessaria nessunissima idea emancipatrice perché la sostanza della forma-denaro consiste precisamente nella forma stessa e nel suo vuoto, su cui si fonda la desoggettivazione totale del soggetto. Giunto al termine del suo malinconico viaggio il movimento antiautoritario non può certo godere la visione dell’«aperto»29 di Hölderlin, tante volte richiamato; in serbo per esso c’è solo la reclusione spontanea e definitiva nella «cella» della socializzazione astratta, che Dutschke e i suoi non avevano saputo criticare in maniera radicale. Adesso gli «anni di piombo» hanno avuto inizio per davvero, sia per i vincitori del processo di «auto-amministrazione», che in quanto tali non sono nemmeno dei soggetti, sia per i suoi perdenti, che sono ostaggio della gestione capitalistica della miseria e delle catastrofi. E se per caso questi ultimi decidessero un bel giorno di ribellarsi, se la situazione dovesse precipitare, i portatori-limite del dominio impersonale del «soggetto automatico» saranno pronti a rispolverare i panni di Noske30 mentre i Verdi mettono già in pratica il loro millerandismo31 in abiti casual. In fondo i situazionisti del 1968 sapevano perfettamente ciò che stavano dicendo:
L’autogestione dell’alienazione della merce ridurrebbe gli uomini ad essere soltanto i programmatori della loro sopravvivenza: è il problema della quadratura del cerchio. Compito dei Consigli operai non sarà dunque l’autogestione del mondo esistente, ma la sua trasformazione qualitativa ininterrotta: il superamento concreto della merce (in quanto il processo di produzione della merce non è che il travisamento gigantesco della produzione di sé da parte dell’uomo).32
Questa dichiarazione nella sua negatività può valere oggi come una profezia per il movimento antiautoritario nella sua versione democratica, immanente al capitalismo. Una volta avveratasi possiamo ben dire che la sinistra, effettivamente, «ha fatto il suo ritorno a casa». I Verdi e il loro milieu sociale sono solo il cadavere maleodorante della volontà emancipatrice del 1968. E questa volontà, nella crisi incombente (ma in parte già manifesta) del denaro e dell’economia di mercato, soffocata com’è dalla logica del denaro e del suo automovimento, non potrà più risorgere come una fenice dalle sue ceneri: saranno invece i suoi protagonisti di un tempo a convertirsi una volta per tutte in neo-piccoloborghesi rabbiosi, famelici e, in ultima analisi, assassini. La contesa a base di strepiti e morsi, ruggiti e zanne digrignanti per il «salvadanaio alternativo» dello Stato e delle municipalità, ormai prossimo a toccare il fondo, si inasprirà fino a livelli intollerabili a causa della palese crisi delle finanze pubbliche nel contesto dell’imminente crisi economica globale, generando sviluppi sul piano politico per il momento ancora indecifrabili. Attualmente la speranza in una riscossa della volontà di liberazione del soggetto umano può appoggiarsi a ben poco. L’odierna opposizione radicale giovanile, gli autonomi, il cui concetto di «autonomia» sembra però altrettanto oscuro di quello degli antiautoritari del 1968, dovrebbe considerare gli sviluppi e gli esiti sociali, ma anche soggettivi, di quel movimento alla stregua di un oracolo di sventura. «Non basta essere per il potere astratto dei consigli operai». Gli slogan astratti rivolti contro il lavoro salariato e in favore dell’autonomia, ripetuti fino allo sfinimento, resteranno vuoti e inefficaci se, nel discorso teorico sociale, non si concretizzeranno in una critica fondamentale della forma-merce e della forma-denaro. La radicalità degli autonomi e degli altri movimenti del futuro si misurerà sulla radicalità della loro critica al feticismo della merce e del denaro. In caso contrario essi non saranno altro che progressisti borghesi.
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Titolo originale: Glanz und Elend des Antiautoritarismus.
Traduzione e note a cura di Samuele Cerea.
Note:
1. La «storia degli effetti» [«Wirkungsgeschichte»] è una nozione basilare della filosofia ermeneutica di Gadamer (si veda Verità e metodo); semplificando un po’, per «effetti» bisogna intendere le conseguenze di fenomeni che nella loro concatenazione storica ne influenzano l’interpretazione.
2. A partire dal 1966 la Repubblica Federale Tedesca fu governata per un triennio da un’inedita alleanza tra SPD e CDU, guidata dal cristiano-democratico Kiesinger. Nel giugno del 1968 il Parlamento approvò un’ampia modifica costituzionale, comprendente le cosiddette «leggi di emergenza» («Notstandsgesetze»), che conferivano all’esecutivo poteri speciali in caso di grave pericolo per lo Stato.
3. L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 1979, p. 13. Trad. di L. Amoroso.
4. B. Frei, Die anarchistische Utopie, Vienna, 1971. Benedikt Freistadt alias Bruno Frei (1897-1988) scrisse per molti anni su giornali e periodici legati al movimento comunista austriaco.
5. Ibidem
6. Otto Friedrich Bollnow, Existenzphilosophie, Stoccarda, 1955.
7. Tilman Fichter e Siegward Lönnendonker, Kleine Geschichte des SDS, Berlino, 1977.
8. Nei tardi anni Sessanta Kunzelmann fu anche tra i promotori della cosiddetta Kommune I a Berlino
9. Per approfondire l’originalità delle teorie situazioniste in una prospettiva affine a quella del presente saggio si veda A. Jappe, Guy Debord, Manifestolibri, 1999.
10. J. P. Sartre, Critica della ragione dialettica (1960), pubblicato in Germania nel 1967.
11. Della miseria dell’ambiente studentesco, 1966. Questo pamphlet apparve anonimamente come opera collettiva di un gruppo di studenti dell’Università di Strasburgo che si rivolsero all’Internazionale Situazionista allo scopo di distruggere dall’interno la locale associazione studentesca. Tuttavia il testo venne probabilmente redatto da Mustapha Khayati, un situazionista di origini nordafricane, in seguito attivista per la causa palestinese.
12. Ibidem
13. Ibidem
14. Rolf Wiggershaus, Theodor W. Adorno, Monaco, 1987.
15. R. Dutschke, Mein langer Marsch, Amburgo, 1980.
16. Dutschke convinse anche molti ex-membri della contestazione studentesca, tra cui Joschka Fischer, destinato a una grande carriera politica, ad aderire al movimento.
17. Cit. in Dutschke, 1980.
18. Oskar Negt, Politik und Protest, in Strategie- und Organisationsdebatte, Hannover, 1970.
19. Ibidem
20. Ibidem
21. Documenti del congresso Prima-Klima, Amburgo 1987.
22. K-Sekten ovvero i K-Gruppen, piccoli partiti e organizzazioni, generalmente di ispirazione maoista, nati nei primi anni Settanta dalla crisi dell’SDS. Lo stesso Kurz militò per alcuni anni in una di queste formazioni, il KABD (Lega comunista dei lavoratori tedeschi), attiva nella Germania sud-occidentale.
23. La Lebensreform fu un movimento caratterizzato da pratiche eterodosse (vegetarianesimo, nudismo etc.), le cui comunità conobbero una certa diffusione in Germania e in Svizzera, a partire dalla seconda metà del XIX secolo fino alla Prima guerra mondiale, come reazione all’industrializzazione e all’urbanesimo.
24. Claus Daniel, Theorien der Subjektivität, Francoforte sul Meno, 1981
25. Si tratta di un discorso che mira a fondere paradigmi ecologisti e «democratizzazione» economica, con un forte accento sull’uguaglianza sociale e sul significato sociale del lavoro.
26. Wolf Rainer Wendt, Das breite Feld der sozialen Arbeit: Historische Beweggründe und ökologische Perspektiven, in Oppl/Tomaschek, Soziale Arbeit 2000, Band I, Soziale Probleme und Handlungsflexibilität, Friburgo, 1986.
27. Horst Kern e Michael Schumann sono noti anche in Italia per le loro analisi del sistema industriale tedesco. Si veda La fine della divisione del lavoro? Produzione industriale e razionalizzazione, Einaudi, Torino, 1991.
28. Cit. da Die Zeit, 27/3/1981.
29. Un’immagine tratta dai versi dell’elegia Pane e vino: «Fuoco divino ci assilla di notte e di giorno / a metterci in marcia. Su, vieni! Guardiamo all’aperto, / cerchiamo quello ch’è nostro, per quanto sia ancora lontano». Trad. di G. Vigolo.
30. Gustav Noske (1868-1946), socialdemocratico tedesco; come Ministro della Difesa diresse la repressione contro la rivolta spartachista di Berlino del 1919, servendosi anche dell’appoggio di gruppi irregolari paramilitari.
31. Con questo termine dispregiativo si intende la disponibilità da parte di un esponente o di una forza progressista a partecipare a coalizioni di governo con partiti moderati o addirittura reazionari. Alexandre Millerand, socialista francese, entrò a far parte nel 1899, a titolo personale, di un esecutivo di «difesa repubblicana» che contava tra i suoi membri anche un ex-responsabile della repressione della Comune di Parigi.
32. Della miseria dell’ambiente studentesco; il corsivo è di Robert Kurz.