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Il “Manifesto contro il lavoro” venti anni dopo

Pubblichiamo qui la post-fazione alla IV edizione tedesca del Manifesto contro il lavoro, apparsa in Germania quest’anno a distanza di venti anni dalla prima, uscita nel 1999 (in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi).

Norbert Trenkle prova, con questo scritto, ad “aggiornare” le tesi del Manifesto, molte delle quali comunque non invecchiate ed anzi forse più attuali oggi di allora. Le condizioni che resero quasi “necessario” quel famoso libro non sono certo venute meno, al contrario si sono inasprite e approfondite. Il lavoro (che è qui inteso come una forma storicamente specifica di attività della società capitalistica, come attività che produce merci) è sempre più raro ed opprimente. Al tempo stesso, la crisi si è fatta più acuta e la forma-capitale più folle e devastante. Proprio per questi motivi, più forte si è fatta anche l’esigenza di emanciparsi una volta per tutte da questo sistema omicida, esigenza che però fatica a prendere forma e viene piuttosto incanalata verso vicoli ciechi sovranisti, antisemiti, razzisti, classisti e sessisti.

Il Manifesto contro il lavoro è stato e continua ad essere un tentativo che va nella direzione opposta, nella direzione cioè di dare forma ad un progetto di liberazione di cui si sente veramente la necessità e la mancanza. Per questa ragione resta un testo ancora attuale, e in modo stringente.

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Il Manifesto contro il lavoro venti anni dopo. Postfazione alla quarta edizione

Da quando abbiamo pubblicato il Manifesto contro il lavoro, quasi 20 anni fa, non solo la crisi fondamentale del capitalismo si è rapidamente intensificata dal punto di vista economico, ma sta mettendo sempre più in discussione l’esistenza stessa della società della merce nel suo insieme. La distruzione delle risorse naturali continua senza sosta, la frammentazione sociale del mondo ha raggiunto proporzioni drammatiche, a livello politico si assiste ad un inquietante ritorno di ideologie identitarie, accompagnato dall’emergere di partiti e movimenti nazionalisti, al tempo stesso portatori di posizioni estremiste di destra e populiste di sinistra. Non deve però sorprendere che l’esaltazione quasi religiosa del lavoro non ne abbia risentito, poiché essa rappresenta un elemento costitutivo della soggettività moderna e rinvia alla posizione centrale del lavoro nella società capitalistica. Tuttavia, l’orientamento ideologico del lavoro è cambiato sotto molti aspetti dagli anni Novanta. All’epoca, l’attenzione si concentrava sulla celebrazione della volontà individuale di successo, in base al motto neoliberale secondo cui ognuno dovrebbe essere in prima persona responsabile della propria fortuna. Adesso l’invocazione del lavoro si è spostata sempre più al centro di costruzioni identitarie collettive e ideologicamente affiancate dalla demarcazione nazionalista e dall’esclusione razzista. Qui si innesta la ben nota opposizione antisemita fra “lavoro onesto” e “capitale finanziario parassitario”, che ha conosciuto una rinascita nel processo di crisi in corso. Niente di nuovo sotto il sole. Già negli anni Novanta, questi momenti ideologici e identitari si mescolavano al feticismo del lavoro dominato dal neoliberismo; abbiamo tematizzato queste problematiche proprio nel Manifesto. Tuttavia, esse ora stanno forgiando il discorso sul lavoro in modo sempre più stringente.

La critica del lavoro rimane perciò attuale ora come allora. Ma se negli ultimi vent’anni la crisi sociale si è aggravata, anche l’evoluzione teorica della critica di valore non è rimasta al palo. Con uno strumentario concettuale fattosi più acuto, siamo oggi in grado di analizzare il processo di crisi in modo più preciso sotto molti aspetti, non solo quindi nella sua dimensione economica e politica, ma anche in quella soggettiva e ideologica. Non è possibile entrare nel dettaglio in questa sede, ma alcuni aspetti importanti possono essere discussi almeno brevemente. Coloro che desiderano approfondire queste tematiche, sono invitati a consultare i testi che si trovano nelle note finali.1

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Cominciamo con alcune osservazioni sullo sviluppo economico in senso stretto. Potrebbe forse sembrare, dal punto di vista dei nudi dati empirici, che nel Manifesto ci siamo spinti un po’ troppo oltre con la frase secondo cui “La vendita della merce ‘forza-lavoro’ sarà nel ventunesimo secolo tanto ricca di prospettive quanto nel ventesimo la vendita di diligenze”. Rimane tuttavia valida senza riserve l’affermazione centrale della teoria della crisi, per la quale la Terza Rivoluzione Industriale ha portato ad una espulsione assoluta del lavoro vivo dalla produzione di valore e ha avviato una crisi fondamentale di valorizzazione del capitale. È vero che la domanda di lavoro su scala globale non è crollata in modo così massiccio come suggerirebbe la frase citata del Manifesto; in alcune regioni in piena espansione, soprattutto in Cina e nel sud-est asiatico, sono stati creati persino nuovi posti di lavoro di massa. Ma questo non smentisce l’affermazione per la quale la base per la valorizzazione del capitale si è sempre più ristretta. L’enorme crescita economica in queste regioni, come in alcuni centri capitalistici, è in gran parte dovuta al gigantesco accumulo di capitale fittizio sui mercati finanziari transnazionali, che tiene in vita la dinamica economica mondiale da diversi decenni. Si tratta quindi di un’espressione e di un effetto del rinvio della crisi avviata dalla rivoluzione neoliberale degli anni ‘80, basata sul mercato finanziario.2

Anche se nel Manifesto avevamo già affrontato la questione del rinvio della crisi attraverso il capitale fittizio, a posteriori va detto che non ne avevamo allora compreso a sufficienza le dinamiche interne e la logica di movimento e quindi ne abbiamo giudicato male le dimensioni e l’orizzonte temporale. Pensavamo che la “simulazione da capitalismo da casinò della società del lavoro”, come la chiamavamo allora, avrebbe presto raggiunto i suoi limiti. Tale valutazione era errata. Anche il grande crollo dei mercati finanziari globali del 2008, che ha indubbiamente rappresentato un passaggio qualitativo nel lungo processo di crisi e ha spinto l’economia globale sull’orlo dell’abisso, ha potuto essere nuovamente assorbito. Con massicci programmi di salvataggio economico e bancario e una politica monetaria estremamente flessibile, i governi e le banche centrali sono riusciti a rilanciare l’accumulazione guidata dai mercati finanziari – anche se i costi per molti paesi, soprattutto nell’Europa meridionale, sono stati enormi.

Il fatto che circa venti anni fa abbiamo valutato diversamente il corso della crisi, soprattutto nelle sue dimensioni temporali, è dovuto principalmente a ragioni inerenti alla teoria. Rispetto alla chiarezza categoriale con cui abbiamo analizzato la crisi di valorizzazione negli anni ’80 e ’90, la nostra analisi del capitale fittizio è stata deficitaria. Certo, abbiamo ripreso questo concetto e l’abbiamo interpretato in contrapposizione al marxismo tradizionale, che fondamentalmente conosce solo l’accumulazione di capitale basata sull’estrazione di plusvalore, per cui il capitale fittizio nella migliore delle ipotesi gioca un ruolo minore nelle sue analisi. Sin dagli anni ’80 abbiamo invece insistito sul fatto che il capitale fittizio ha sostituito la valorizzazione del valore come forza motrice dell’accumulazione di capitale, dando così agli eventi dei mercati finanziari un significato indipendente nel processo di accumulazione. Tuttavia, la differenza fondamentale tra la formazione di capitale fittizio e l’accumulo di capitale basato sulla valorizzazione del valore era fondata in modo tale, che questa rottura si fermava a metà strada.3

In sostanza, riducevamo la dinamica del capitale fittizio all’ammucchiarsi di montagne sempre più alte di debito – soprattutto pubblico -, con l’aiuto del quale l’accumulo di capitale sarebbe stato “simulato” e, come dice il Manifesto, “l’idolo ‘lavoro’ […] tenuto in vita artificialmente”.

L’accumulazione sui mercati finanziari era quindi, dal nostro punto di vista dell’epoca, fondamentalmente di natura apparente – in contrasto con l’“accumulazione reale”, la quale avviene attraverso lo sfruttamento della forza lavoro – e quindi sembrava logico che presto avrebbe dovuto raggiungere i suoi limiti. Ciò significava anche che potevamo fare solo dichiarazioni molto generali e non concrete sulle dinamiche del mercato finanziario e la sua logica interna, nonché sui suoi effetti sulla società. Già solo in considerazione della durata dell’era del capitale fittizio, tuttavia, queste conclusioni risultavano estremamente insoddisfacenti e indicavano debolezze nell’analisi teorica.

In tempi più recenti ci siamo perciò concentrati sull’analisi della storia interna dell’era del capitale fittizio. Questo, tuttavia, ha richiesto un affinamento del concetto di capitale fittizio e un corrispondente strumentario categoriale con cui poter comprendere la sua moltiplicazione in quanto forma propria di accumulazione di capitale. In primo luogo, è stato necessario chiarire su cosa si basa il potenziale di accumulazione indipendente del capitale fittizio, che non è affatto “apparente”, e, in secondo luogo, quali sono i limiti interni di questa specifica forma di accumulazione di capitale e come vengono raggiunti.

Ernst Lohoff ha compiuto questo passo teorico qualche anno fa nel libro La grande svalorizzazione e, a seguito delle riflessioni frammentarie di Karl Marx sul capitale produttivo d’interesse tratte dal terzo volume de Il capitale, ha sviluppato una propria critica all’economia politica della formazione fittizia del capitale.4 Il punto di partenza è l’osservazione di Marx per la quale la concessione di un prestito o l’emissione di azioni procura al capitale monetario ceduto una temporanea doppia esistenza. Accanto alla somma di denaro originaria, sorge infatti anche un credito monetario del prestatore di denaro per tutto il corso del prestito o per la durata dell’azione. Se questo credito monetario ha una forma trasferibile, cioè la forma di un titolo finanziario, allora può essere negoziato esso stesso come una merce, e questo raddoppio è sinonimo di una forma specifica di accumulazione di capitale. L’immagine speculare del capitale iniziale, sotto forma di titolo finanziario corrispondente, rappresenta allora una parte della ricchezza totale capitalistica tanto quanto il capitale originario stesso. È questo strano meccanismo che costituisce la base dell’accumulazione globale di capitale nel capitalismo contemporaneo. Finché la massa dei crediti monetari, negoziabile alla stregua di una merce, si gonfia (sempre più velocemente), il sistema della ricchezza astratta nel suo complesso può mantenersi su un percorso di espansione.

Tuttavia, il predominio dell’accumulazione industriale finanziaria non si disconnette mai completamente dal processo di accumulazione dell’economia reale. A suo modo, anche l’accumulo di capitale nel settore finanziario rimane sempre legato a variabili economiche reali. Esso però non presuppone una valorizzazione già realizzata, vale a dire una produzione di plusvalore del passato, ma capitalizza le aspettative di profitto del futuro. In altre parole, rappresenta l’accumulo di valore che si prevede di produrre in futuro. In quanto tale, tuttavia, dipende dalle aspettative e dalle speranze di futuri aumenti degli utili nei mercati, o almeno in alcuni specifici mercati. Ogni boom immobiliare si basa sulla prospettiva di un aumento dei prezzi immobiliari, e ogni crescita sui mercati azionari trae il suo slancio dalla speranza di futuri profitti aziendali.

Questa dipendenza dalle speranze nell’economia reale, a cui si riferiscono le aspettative di profitto, spiega la specifica pericolosità dell’era del capitale fittizio. Ogni volta che tali aspettative si rivelano illusioni e scoppiano bolle speculative, il capitale fittizio accumulato perde improvvisamente la sua validità e la formazione di nuovo capitale fittizio si arena. Come l’ultima volta nella crisi globale del 2008, appare minacciosa una spirale economica discendente, in cui diviene manifesto il processo di crisi fondamentale, normalmente nascosto dal rigonfiamento della sovrastruttura finanziaria. C’è un solo modo per evitarlo: creando nuove, e ancora più grandi quantità di capitale fittizio, il cui accumulo è alimentato dalle aspettative di profitto in altri settori dell’economia reale. Ma più dura l’epoca del capitale fittizio, più difficile è aprire questi nuovi campi di speranza per l’economia reale, mentre allo stesso tempo le rivendicazioni di valore futuro, che in realtà non possono più essere riscattate, continuano ad accumularsi sempre di più. Si trova qui il limite interno del capitalismo sostenuto dall’accumulazione industriale finanziaria.

Con il crollo finanziario del 2008, questo limite interno venne raggiunto. Solo l’intervento massiccio e coordinato dei più importanti governi e banche centrali ha impedito che l’economia mondiale cadesse in una spirale discendente di enormi proporzioni. Da allora, l’accumulo di capitale fittizio è stato sostanzialmente mantenuto solo dalle politiche delle banche centrali, che incanalano enormi quantità di “denaro gratuito” nei mercati finanziari e finanziano direttamente i governi in larga misura attraverso l’acquisto in massa di titoli di Stato. Sebbene continui a verificarsi un accumulo di capitale fittizio privato (cioè non statale), che fa riferimento ai più promettenti comparti dell’economia reale (immobili, intelligenza artificiale, elettromobilità, ecc.), tuttavia questo non è più al centro delle dinamiche dei mercati finanziari, ma dipende in larga misura dagli afflussi di denaro delle banche centrali.5

Se non intendiamo più l’accumulazione di capitale fittizio solo come “accumulazione apparente”, ma come una forma specifica di accumulazione che segue le proprie leggi (e possiede i propri limiti interni), allora possiamo anche determinare più precisamente quali conseguenze abbia per la categoria “lavoro” – e quindi, naturalmente, per la massa di persone che dipendono dalla vendita del loro lavoro. In primo luogo emerge che, da un punto di vista economico, il lavoro subisce una perdita di significato fondamentale quando il capitale non aumenta più in modo significativo attraverso l’uso della forza lavoro, ma fa riferimento direttamente a se stesso.

Nell’era del capitalismo classico, che si basava sulla valorizzazione del valore e che si è conclusa con la crisi del fordismo negli anni ’70, il lavoro era la merce di base dell’accumulazione di capitale. Questo perché è l’unica merce il cui valore d’uso consiste nel produrre valore e plusvalore. Per i venditori della merce “lavoro”, questa posizione speciale significava da un lato, che dovevano mettersi quotidianamente al servizio del capitale e sottomettersi ai vincoli della produzione di valore; dall’altro lato, però, dava loro anche una posizione negoziale relativamente forte nei confronti del capitale, che permetteva loro, almeno nei centri capitalistici, di ottenere netti miglioramenti nelle retribuzioni, nelle condizioni di lavoro e nella sicurezza sociale. Inoltre, le specifiche condizioni di produzione del lavoro di massa standardizzato favorirono un’ampia sindacalizzazione, specialmente nell’epoca fordista.

La Terza Rivoluzione Industriale ha invece completamente ribaltato questa costellazione e ha indebolito in modo fondamentale la posizione sociale della merce “forza-lavoro”. Con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la conoscenza – per essere più precisi: l’applicazione della conoscenza alla produzione – è diventata la principale forza produttiva, e quindi il lavoro, che finora aveva ricoperto questa posizione, è stato detronizzato. Allo stesso tempo, le nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni sono state anche un importante presupposto per l’emergere di una nuova divisione transnazionale del lavoro, che ha permesso alle imprese di sfruttare sistematicamente le differenze globali in materia di salari, normative ambientali e del lavoro, tasse, ecc. per ridurre i costi di produzione. Questo non solo ha ulteriormente indebolito la posizione negoziale dei venditori di manodopera, ma ha anche cambiato il rapporto tra economia e politica.6 Mentre il capitale ha agito sempre più globalmente e si è orientato direttamente al mercato mondiale, la politica è rimasta essenzialmente limitata al quadro nazionale, perdendo così una parte considerevole del suo già limitato margine di manovra. Di conseguenza, gli Stati si sono trasformati in fanatici della politica neoliberale, per cercare di attrarre capitali con ogni mezzo a loro disposizione, al fine di mantenersi competitivi sul mercato mondiale.

Secondo l’abituale visione di sinistra, il degrado globale del lavoro e l’indebolimento degli Stati nazionali è il risultato di un’egemonia neoliberale che è stata imposta con successo da influenti fazioni capitalistiche, gruppi di potere ed élite globali in una sorta di “lotta di classe dall’alto”. Ma in questo modo viene sistematicamente sopravvalutato il potere della politica. È vero che il neoliberismo era stato a lungo preparato ideologicamente e politicamente in think tanks ben organizzati, ma è diventato egemonico solo perché la crisi degli anni Settanta e Ottanta non poteva più essere risolta con metodi keynesiani. Il motivo era strutturale: le fondamenta del keynesismo sono crollate con la fine del boom fordista, e nelle condizioni della Terza Rivoluzione Industriale le dinamiche della valorizzazione non hanno più potuto riprendere slancio, neanche con i tanti programmi statali di rilancio economico. Si apriva quindi il terreno per il neoliberismo, che si presentava con la promessa di rilanciare la produzione e superare la crisi.7

Ovviamente neanche il neoliberismo – nonostante le brutali misure di deregolamentazione del mercato, di precarizzazione delle condizioni di lavoro, di taglio del bilancio sociale e di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture – è riuscito a superare la crisi di valorizzazione del capitale. Sebbene gli anni ’80 e ’90 abbiano effettivamente visto una rinascita dell’economia mondiale, la ragione non è stata la presunta maggiore efficienza delle strutture produttive, come proclamato dall’ideologia neoliberale; il fatto che la struttura industriale sia stata ampiamente distrutta nei paesi pionieri del neoliberismo, ovvero gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, depone a sfavore rispetto a questa tesi. Piuttosto, il rinnovato dinamismo economico si è basato in gran parte sull’accumulo di capitale fittizio, che a sua volta è stato reso possibile solo dalla politica neoliberale di deregolamentazione e dall’apertura dei mercati finanziari. Da questo punto di vista, il neoliberismo non ha affatto provocato la crisi capitalistica, come sostiene un pregiudizio comune, ma al contrario l’ha rinviata aprendo nuovi spazi per il capitale, nei quali potrebbe accumularsi per diversi decenni a venire. I costi sociali sono stati e sono devastanti.

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L’ideologia del lavoro ha svolto un ruolo importante per l’imporsi della rivoluzione neoliberale e dell’epoca che con essa ha avuto inizio. Diversamente rispetto al fordismo, in cui l’identificazione con la costrizione generale al lavoro andava a braccetto con la brutalità del lavoro di massa standardizzato e dei suoi tratti collettivisti, è stato messo l’accento su un’etica della prestazione individuale. Da un punto di vista neoliberale, la deregolamentazione dei rapporti di lavoro e la distruzione dello stato sociale sono stati considerati come la vittoria dei “laboriosi” sui “pigri”, che si presuppone fino ad allora avessero sonnecchiato “fra quattro guanciali” a spese della società. A coloro che non ce l’hanno fatta restava ora solo da biasimare se stessi per non essersi impegnati a sufficienza. Così la dilagante disoccupazione di massa e il fatto che il capitalismo produca sempre più “persone superflue” al livello socialmente dato di produttività ha potuto ridursi ad un problema di mancanza di volontà individuale di rendimento. Anche le differenze di reddito e di ricchezza in rapida crescita hanno potuto essere molto ben giustificate in questo modo, perché un reddito elevato è stato considerato una ricompensa adeguata per una corrispondente elevata disponibilità al rendimento. Il carattere apparentemente circolare di questa figura ideologica, secondo la quale il reddito dimostrava quanto qualcuno valeva, quando allo stesso tempo questo doveva essere solo il risultato delle sue prestazioni, naturalmente non ha scosso più di tanto i fanatici di mercato neoliberali. Perché l’ideologia del neoliberismo è fondamentalmente un sistema chiuso e folle che rilegge le auto-contraddizioni del sistema capitalistico come relazioni fra volontà individuali.

Considerata con più attenzione, l’ideologia neoliberale della performance rivela molto sul rapporto tra lavoro e capitale nell’era del capitale fittizio. Poiché il lavoro non rappresenta più il motore dell’accumulazione di capitale, ma è diventato a sua volta la variabile dipendente del capitale fittizio, il contenuto materiale praticamente non gioca più alcun ruolo. Si tratta solo di prestazioni nude e crude, del tutto prive di significato, il quale a sua volta si misura solo in base al mero risultato monetario. L’orgoglio schietto del produttore è stato così sostituito dallo stupido orgoglio di un conto bancario rigonfio e da stupidi status symbol di successo o di successo simulato. Il presupposto per tutto questo, tuttavia, era che una parte significativa della popolazione, nonostante tutte le imposizioni e le autoregolamentazioni ad essa associate, partecipasse ancora alle dinamiche del capitale fittizio e potesse convincersi che sarebbe stata tra i vincitori in futuro.

Ma questa finzione è implosa successivamente con la crisi finanziaria del 2008, in cui si è dolorosamente rivelata la totale dipendenza della società in generale e del lavoro in particolare dalle dinamiche del capitale fittizio. La grande narrazione del (neo)liberalismo, secondo la quale ognuno poteva raggiungere la prosperità individuale se avesse fatto sforzi sufficienti, ha perso la sua egemonia sociale.

Non deve sorprendere che le onde d’urto della crisi non abbiano scosso, nella visione del mondo e nell’immagine di sé, quella parte di popolazione, già socialmente scaricata, per la quale l’affermazione che la fatica era comunque valsa la pena risuonava ora come pura beffa, ma soprattutto che credeva di essere riuscita ad arrivare dalla parte vincente o stava ancora provando a farlo. Perché ora si sono visti traditi nelle loro pietose speranze, e all’improvviso si sono sentiti profondamente offesi dal fatto che, come venditori di manodopera per il capitale, in realtà erano solo fastidiose appendici, nemmeno più utili al fine autoreferenziale dell’accumulazione. Ma la maggior parte di loro non ha trasformato questo interrogarsi sulla loro identità di soggetti di lavoro e servizi in pensiero critico, quanto piuttosto in un risentimento antisemita contro “gli avidi speculatori e banchieri”, ai quali viene opposto il fantasma del “lavoro onesto”. A questo risentimento si è accompagnato l’odio proiettivo contro gli immigrati in generale e i rifugiati in particolare, che come incarnazioni del “superfluo” capitalisticamente inteso rappresentano la paura del proprio declino sociale e anche per questo vengono in modo tanto spietato allontanati dal campo visivo – meglio ancora se dal proprio territorio.

Sta nella logica delle cose che questo riferimento regressivo ad un’identità lavorativa oramai superata da tempo si combini con una non meno regressiva rinascita delle identità collettive nazionaliste. Infatti, oltre al lavoro, per le persone “formattate” capitalisticamente anche la nazione è considerata come una sorta di modo di esistenza sovrastorico, indipendentemente dal fatto che si tratti di un’invenzione del XIX secolo. Anche qui la realtà viene percepita attraverso il filtro del pensiero feticistico. Per questo motivo, lavoro e nazione formano un binomio di certezze apparentemente concrete, alle quali i soggetti della merce si richiamano sempre in modo identico in tempi di crisi per proteggersi dalle minacce delle dinamiche del capitalismo. Quest’ultimo appare come un potere straniero, astratto ed esterno che minaccia lo stile di vita, apparentemente eterno, da instupidito animale nazionale da lavoro. Non sempre, per fortuna, ciò conduce alla ben nota frottola per la quale dietro tutto questo stia il “complotto giudaico”, ma il terreno è comunque preparato per questo topos antisemita. In ogni caso, l’identità basata sul lavoro e sulla nazione deve essere difesa contro la minaccia delle “potenze straniere” e del “globalismo” scatenato dalle “élite neoliberali”, così come contro la “decadenza” che si immagina causata dall’immigrazione di massa di “elementi estranei alla propria cultura”. Entrambe le fantasie si completano a vicenda e in questa visione paranoica del mondo non è ovviamente troppo difficile riunificarle, per esempio sostenendo che i grandi movimenti di rifugiati in Europa sono controllati da “gruppi di potere ebraici” per distruggere le nazioni europee dall’interno.

La maggior parte della sinistra è del tutto confusa di fronte a questi vaneggiamenti, perché condivide elementi centrali di questa visione del mondo. Ciò è evidente in modo particolare con populisti di sinistra come Wagenknecht, Corbin o Mélenchon, che stanno provando a lanciare programmi per ripristinare un capitalismo basato sul lavoro di massa e regolamentato dallo Stato, e a tal fine vogliono rendere nuovamente forti gli Stati nazionali. A parte il fatto che si tratta di un prospettiva del tutto priva di fondamento, è importante osservare con attenzione questi fenomeni, per accorgersi di quanto siano vaghi i confini che distinguono questa sinistra dalla nuova e vecchia destra.8 Ma anche al di là di queste posizioni apertamente nazionalistiche, la critica anticapitalistica di molta sinistra è ancora troppo spesso ridotta ad accusare il potere del capitale finanziario, delle banche e delle società globali accusandole di vivere a spese della stragrande maggioranza della popolazione. L’estrema polarizzazione della distribuzione globale della ricchezza, che negli ultimi decenni ha assunto proporzioni quasi oscene, viene qui tematizzata come se “il popolo” (o come viene spesso chiamato: “il 99 per cento”) fosse in qualche modo esterno al capitalismo e fosse solo esternamente oppresso, dominato e sfruttato da una minoranza globale ma potente (l’1 %).

Con ciò si rimuove completamente il fatto che la difficoltà maggiore dell’emancipazione sociale sta proprio nel rompere la “formattazione” capitalistica dei soggetti e nel superare lo stile di vita della società della merce a cui sono costretti.9 La critica al lavoro è ancora centrale per questo, perché è diretta sia contro la forma feticcio della società produttrice di merci che contro le identità che su di essa si fondano; non solo dunque contro l’identità del lavoro in quanto tale, ma anche contro l’identità del “lavoratore”10 e del “performer” (che, a prezzo della sua distruzione, trasforma il mondo a sua immagine e somiglianza), e contro le identità nazionali, da sempre legate alla chimera del “lavoro onesto”. La critica del lavoro mira alla creazione di una società in cui le persone possano disporre liberamente delle proprie relazioni sociali invece di essere dominate da esse sotto forma di vincoli oggettivi. Una società in cui le persone non siano più costrette a lavorare solo per partecipare alla ricchezza sociale, ma in cui ognuno possa operare secondo le proprie esigenze e capacità. In altre parole, mira all’appropriazione del contesto sociale da parte di individui liberamente associati sotto forma di auto-organizzazione sociale generale. In questo senso, il Manifesto contro il lavoro è ancora attuale come lo era vent’anni fa.

Norbert Trenkle (Gruppo Krisis) – Inverno 2018/2019

testo originale: http://www.krisis.org/2019/das-manifest-gegen-die-arbeit-zwanzig-jahre-spaeter/

(Traduzione dal tedesco di Massimo Maggini)
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Note:
1. Per entrare più nel dettaglio sugli sviluppi della Critica del Valore, cf. Ernst Lohoff/ Norbert Trenkle: „Es bedarf einer neuen Perspektive gesellschaftlicher Emanzipation“. Ein Gespräch über die Entstehung und Entwicklung der Wertkritik, die fundamentale Krise des Kapitalismus und den fortschreitenden gesellschaftliche Irrationalismus [it.: È necessaria una nuova prospettiva di “emancipazione sociale”. Una conversazione sull’emergere e lo sviluppo della Critica del Valore, sulla crisi fondamentale del capitalismo e sull’avanzare dell’irrazionalismo sociale], www.krisis.org 2008
2. Ernst Lohoff: Auf Selbstzerstörung programmiert [it.: Programmato per l’autodistruzione], Krisis 2/ 2013
3. Ernst Lohoff, Zwei Bücher – zwei Standpunkte [it.: Due libri, due punti di vista], Krisis.org 2017
4. Ernst Lohoff/ Norbert Trenkle: Die große Entwertung [it.: La grande svalorizzazione], Münster 2012, p.110 e sgg., così come Ernst Lohoff, Kapitalakkumulation ohne Wertakkumulation [it.: Accumulazione di capitale senza accumulazione di valore], Krisis 1/2014
5. Ernst Lohoff, Die letzten Tage des Weltkapitals. Kapitalakkumulation und Politik im Zeitalter des fiktiven Kapitals [it.: Gli ultimi giorni del capitalismo mondiale. Accumulazione di capitale e politica nell’epoca del capitale fittizio], Krisis 5/2016
6. Norbert Trenkle, Workout. Die Krise der Arbeit und die Grenzen der kapitalistischen Gesellschaft [it.: Workout. La crisi del lavoro e i limiti della società capitalista].
7. Ernst Lohoff, Die letzten Tage des Weltkapitals. Kapitalakkumulation und Politik im Zeitalter des fiktiven Kapitals [it.: Gli ultimi giorni del capitalismo mondiale. Accumulazione di capitale e politica nell’epoca del capitale fittizio], Krisis 5/2016
8. Norbert Trenkle: Vorwärts in die Regression [it.: Avanti nella regressione], in Irrwege der Kapitalismuskritik [it.: Erramenti della critica al capitalismo], a cura di Merlin Wolf, Aschaffenburg 2017
9. Ernst Lohoff: Die Verzauberung der Welt [it.: l’incanto del mondo], Krisis 29, Münster 2005; Karl-Heinz Lewed: Schopenhauer on the rocks, in Krisis 29, Münster 2005; Ernst Lohoff: Ohne festen Punkt [it.: Senza punto fermo], in Krisis 30, Münster 2006; Peter Samol, All the Lonely People. Narzissmus als adäquate Subjektform des Kapitalismus [it.: All the Lonely People. Il narcisismo come forma adeguata del soggetto capitalistico], Krisis 4/2016
10. Norbert Trenkle: Aufstieg und Fall des Arbeitsmanns [it.: Ascesa e declino dell’uomo lavoratore], in Grundeinkommen [it.: Reddito di base], a cura di Andreas Exner et.al., Wien 2007

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Norbert Trenkle

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