Print Friendly, PDF & Email

Il Manifesto invisibile di Marx

Pubblichiamo la prefazione di Alastair Hemmens all’ultima edizione francese del Manifesto contro il lavoro, nella traduzione di Afshin Kaveh. Il Manifesto contro il lavoro è un testo partorito dal Gruppo Krisis ed uscito in Germania la prima volta nel 1999. In seguito è stato ripubblicato in quel paese altre tre volte, l’ultima nel 2019 in occasione del ventennale della prima pubblicazione (è possibile leggere la postfazione di Norbert Trenkle a questa edizione qui).
Tradotto in molte lingue (fra cui appunto quella francese), questo testo uscì in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Anche nel nostro paese è in gestazione la sua ripubblicazione, arricchita con altri testi. La nuova edizione apparirà con ogni probabilità entro l’anno, quindi anche in questo caso in occasione del ventennale, però dell’edizione italiana.
Il Manifesto contro il lavoro è da sempre un testo con fortune alterne: amato, odiato, vilipeso o venerato, sembra sfugga le mezze misure. La sua importanza, tuttavia, sia dal punto di vista concettuale che come “provocazione” a fronte delle miserie della sinistra mondiale attuale, non può essere misconosciuta. Lo prova, sia pure indirettamente, l’impatto che ha avuto e sta avendo in Francia, per esempio in occasione degli scioperi in corso in risposta al progetto di aumento dell’età pensionabile da parte del governo Macron, scioperi che spesso si sono trasformati in vere e proprie manifestazioni contro il lavoro. Persino un ex-ministro come Luc Ferry si è scomodato, in un paio di articoli apparsi su Le Figaro, ad esprimere un parere un po’ preoccupato sui contenuti del Manifesto e sulla loro diffusione, indicando peraltro alcuni dei “responsabili” di questo “misfatto” (tra cui proprio Alastair Hemmens, l’autore dello scritto che qui presentiamo).
Detto questo, aggiungiamo solo che gli esiti francesi della circolazione del Manifesto ci sembrano tutt’altro che deludenti, e a questo punto possiamo solo augurarci che, in modo magari inedito, si replichino anche in Italia, forse proprio (anche) grazie al contributo che la nuova edizione italiana saprà e potrà dare.
Intanto, buona lettura

****

Il manifesto invisibile

Nel 1998, Robert Kurz (1943-2012), uno dei futuri autori del Manifesto contro il lavoro, rifletteva sull’incontro casuale di due significativi anniversari della sua epoca: il centocinquantesimo anniversario della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels nel 1848 e l’avvicinarsi della fine del primo decennio dopo la caduta del muro di Berlino nel 19891. Questa congiuntura storica appariva tanto più significativa perché sembrava incarnare il cambiamento delle condizioni materiali inaugurate nel nuovo millennio. Per la maggior parte degli osservatori contemporanei, di cui Francis Fukuyama era il più noto, il collasso della grande esperienza del socialismo reale nell’Europa dell’Est sembrava segnare la fine della storia. L’uscita dal capitalismo che il Marx del Manifesto aveva promesso al nascente movimento operaio, era definitivamente archiviata. Infatti Marx, e con lui il progetto di emancipazione dei lavoratori, hanno trovato lì la loro fine. Naturalmente alcuni marxisti se lo aspettavano e stanno ancora cercando una via di fuga nell’altermondialismo e in altre ideologie sotto-marxiste a carattere postmoderno; ma quelli che prendevano sul serio l’appello alla lotta di classe si ritrovano ora sempre meno numerosi. Kurz, insieme agli altri membri del gruppo Krisis, ha prontamente ammesso che le parole del Manifesto, un tempo infuocate, avevano ora, a un certo punto dell’anno 1989, perso la loro potenza di fuoco. Marx, per come è stato percepito e letto per più di un secolo – soprattutto il Marx del Manifesto – è stato effettivamente sepolto. Il movimento operaio di cui questo Marx era il teorico essenziale si ritrova così a essere ridotto soltanto come un anacronismo nelle nuove condizioni materiali del capitalismo. Il gruppo Krisis, tuttavia, non considerava che questa scomparsa rappresentasse l’ultima parola pronunciata su Marx. Al contrario, questa morte altro non sarebbe che la scomparsa della parte più visibile di Marx, quella che il gruppo chiama il Marx “essoterico”: il Marx del Manifesto, della lotta di classe, l’uomo della scienza positivista, l’adepto delle nuove tecnologie di produzione, che protestava contro l’estorsione del plus-valore dagli operai e che voleva liberare il lavoro dal suo giogo borghese; vale a dire il Marx che abbiamo conosciuto fin dalle nostre prime letture e che è facile da capire. Per il gruppo Krisis, la morte di questo Marx essoterico rappresentava finalmente la sana occasione per portare alla luce un Marx nascosto e tanto più radicale, l’autore, finalmente, di un manifesto invisibile adattato al XXI secolo.
Kurz difende, in effetti, l’esistenza di un Marx “esoterico”, poco conosciuto e più difficile da inquadrare, e che, come la sua ombra, avrebbe accompagnato il suo celebre gemello nel corso di tutta l’opera marxiana. Questo Marx avanzò una teoria critica radicale del capitalismo in contraddizione con il Marx del Manifesto. L’ironia della storia sta nel fatto che queste due versioni contraddittorie dell’anticapitalismo esistevano all’interno della stessa testa e, spesso, nelle medesime pagine dell’opera di Marx. Il Marx essoterico, infatti, ha visto nel lavoro una forma sociale positiva e trans-storica che si era trovata alienata e sfruttata da una classe dominante: la borghesia. Il “capitale”, in questo senso, cesserebbe di essere una forma sociale, ma sarebbe solo una sorta di furto di ricchezza che di per sé non può essere messa in discussione. Una tale concezione del capitalismo implica un movimento degli operai, dei rappresentanti del lavoro, contro i loro nemici: i proprietari dei mezzi di produzione. Il Marx esoterico, al contrario, ha visto nel lavoro in quanto tale l’essenza stessa del capitalismo: un dominio feticista, astratto e senza soggetto. Il lavoro – e le sue forme derivate che sono il valore, il denaro e la merce – sarebbe quindi una forma storicamente determinata, capitalista, e in sé già criticabile, irrazionale e distruttrice il cui solo scopo sarebbe quello di trasformare 100 euro in 110 euro. Il capitale (e, di fatto, il capitalismo) sarebbe dunque soltanto la forma storica sociale meglio adattata all’assurdità di questa ricchezza astratta in perpetuo movimento. Questo processo, secondo Marx, non è illimitato ma, alla fine, dovrà scontrarsi con i propri limiti interni ed esterni. Alla fine dei conti, nulla può salvare il capitalismo da questa morte inevitabile. Se, dunque, il manifesto visibile di Marx, vale a dire il Manifesto del Partito comunista, si è rivelato superato nel 1989, non è stato, secondo il gruppo Krisis, perché il capitalismo alla fine ha trionfato; al contrario, è stato perché il lavoro, la forma-base del capitalismo, era appena entrato nella sua fase di decomposizione scontrandosi contro i propri limiti. In altri termini, non c’è movimento di lavoratori perché non c’è più lavoro per portarlo avanti 2. Ecco la ragione per la quale il Marx essoterico è scomparso in una nube di polvere di cemento. Così, seguendo la logica di questo Marx esoterico, l’anticapitalismo oggi non consisterebbe nella conquista dei “mezzi di produzione”, ma in un movimento di emancipazione che abolirebbe il lavoro in quanto rapporto sociale. Questo è ciò di cui tratta il manifesto invisibile di Marx.
Il Manifesto contro il lavoro (1999), di cui Kurz è uno degli autori principali, può essere compreso come questo manifesto invisibile di Marx finalmente reso visibile. È il prodotto di un decennio di dibattiti in seno al gruppo marxiano tedesco Krisis. Solitamente tenuto a Norimberga, il gruppo si è sviluppato per la prima volta attorno al giornale Marxistische Kritik, pubblicato per la prima volta nel 1987, ribattezzato Krisis con il suo numero 8/9 nel 1990. Molti individui hanno contribuito al suo sviluppo nel corso degli anni, e un piccolo gruppo di teorici è in poco tempo emerso. Questo comprendeva, tra gli altri, Robert Kurz, Roswitha Scholz, Peter Klein, Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff. Sebbene il gruppo Krisis provenisse dalla sinistra radicale del suo tempo, è rapidamente diventato partigiano del Marx “esoterico”, basandosi su un’approfondita rilettura della sua opera e sviluppando le sue scoperte fino alle loro logiche conseguenze. I loro sforzi hanno trovato un eco importante anche nell’opera dell’accademico nordamericano Moishe Postone, attraverso la sua reinterpretazione di Marx, Time, Labor and Social Domination (1993)3. La scoperta di questo manifesto invisibile di Marx ha spinto molto rapidamente il gruppo verso il massiccio abbattimento delle vacche sacre del Marxismo tradizionale come la lotta delle classi, la centralità del proletariato, il soggetto della storia e, soprattutto, la sua concezione positiva e positivista del lavoro. Inoltre, si è sviluppata una teoria della crisi finale di un capitalismo che si scontra con i propri limiti interni (la caduta della massa di valore a causa della concorrenza tecnologica) e limiti esterni (l’allarme climatico e l’imbarbarimento generale dei rapporti umani a quasi tutti i livelli della vita sociale e privata). Il Manifesto contro il lavoro, riprendendo in parte tutti questi temi, presenta dunque un’esposizione dei frutti di questi sviluppi teorici critici e, prendendo di mira il lavoro in quanto tale come essenza stessa della negatività della società capitalista moderna, è una chiara affermazione di partito preso contro quasi tutta la sinistra tradizionale e contemporanea.

Critica del lavoro

Allora su quali basi del Marx esoterico il gruppo Krisis fonda la sua concezione negativa del lavoro? Innanzitutto si deve osservare che il capitalismo non prende la forma di un dibattito concreto tra gli esseri umani su ciò che è necessario per la vita e quindi su quel che produrranno e in quali condizioni. Al contrario i produttori individuali – privati o aziendali – cercano di accumulare la maggior parte possibile della ricchezza sociale astratta – di denaro – in concorrenza tra loro su dei mercati anonimi. Così, l’attività sociale umana – che in sé non è astratta, ma fatta di una pluralità infinita d’attività concrete particolari – conta solo se produce una merce che realizzerà un valore di scambio sul mercato. Così il lavoro non ha un fine concreto, come fornire del cibo, un riparo o persino dei prodotti di lusso; al contrario, la sua ragion d’essere è interamente astratta: cercare di accumulare più denaro di quanto è stato originariamente investito. Il fatto che la produzione capitalista produca di conseguenza del cibo, un riparo oppure degli oggetti di lusso è solo un effetto secondario verso questo risultato essenzialmente astratto. Inoltre, il successo in questo sistema non è garantito. Una delle irrazionalità fondamentali del capitalismo è che si può essere impiegati per produrre degli oggetti o dei servizi che potrebbero non trovare mai un acquirente. I produttori hanno inoltre fatto grandi sforzi per “educare” i potenziali acquirenti sulla necessità e sul modo in cui utilizzare i loro prodotti (si pensi ai marchi di moda o ai cosmetici). La logica di questo sistema è che l’attività concreta “conta”, al livello più essenziale della realtà umana, solo come un dispendio indifferenziato di energia. Poco importa quel che viene prodotto e in quali condizioni, purché questa energia sia stata spesa e remunerata sotto forma di uno scambio proficuo. Questa contraddizione tra la forma astratta del lavoro e il suo contenuto concreto può essere descritta con più precisione in termini di “tempo di lavoro socialmente necessario” per la produzione di una merce particolare. Se a un sarto, per esempio, ci vuole in media un’ora per confezionare una camicia, questa “varrà” un’ora di tempo socialmente necessario. Tuttavia, se un proprietario di una fabbrica introduce una macchina che permette a un operaio di produrre una camicia in 30 minuti, egli può vendere per meno del suo concorrente artigiano e così prendere la sua quota di mercato. Questo proprietario farà un importante profitto perché fa una camicia in 30 minuti quando lo standard tecnologico più comune rimane quello degli artigiani sarti che hanno bisogno di un’ora. Tuttavia, dopo un po’ di tempo, i suoi concorrenti lo recuperano introducendo le proprie macchine e il nuovo standard tecnologico per la realizzazione di una camicia scende a 30 minuti.
Questa formula, apparentemente molto semplice, contiene già in sé tutta l’irrazionalità distruttiva della modernità capitalista, il suo “cuore di tenebra”, che ha creato la dialettica storica, violenta e cieca “di sangue e di fuoco” (Marx) dei cinque secoli precedenti. All’inizio il produttore che introduce la nuova tecnologia distrugge i posti di lavoro perché è necessario meno lavoro per produrre lo stesso oggetto concreto. Inoltre l’introduzione di questa tecnologia non consente all’umanità di lavorare meno. Al contrario, la ricchezza prodotta dalla forma-lavoro è di un carattere interamente astratto; così è possibile accedervi, o addirittura mantenerlo, solo lavorando o impiegando lavoratori. Il nostro sarto artigiano deve andare a lavorare per il proprietario di queste macchine da cucire, se c’è del lavoro da svolgere, oppure trovare un lavoro in un altro settore dell’economia. Una tale logica dell’“economia del tempo”, che può sembrare insignificante solo dal punto di vista della prospettiva capitalistica della “produttività”, ha storicamente condotto alla successiva distruzione di intere comunità e interi modi di vita, dalle comunità contadine del tardo Medioevo alle comunità manifatturiere di una volta. In secondo luogo questa concorrenza tecnologica riduce, col passare del tempo, la quantità di ricchezza astratta prodotta dalla totalità della società; ne risulta un aumento effettivo della quantità di materiali concreti necessari per ottenere la stessa quantità di valore. In altre parole, non appena 30 minuti spesi su una macchina da cucire diventano lo standard sociale per produrre una camicia, i nostri produttori devono vendere due camicie, e quindi utilizzare il doppio dei materiali e trovare dei nuovi acquirenti, al fine di realizzare, come prima, la stessa quantità di ricchezza sociale, cioè di valore. Dal punto di vista del lavoro non importa che, a causa di questo aumento del consumo di materiale, l’oceano si stia acidificando, il pianeta si surriscaldi, gli uccelli marini si ingozzino di plastica o che il mondo, dall’Amazzonia all’Australia, stia bruciando. È questa costante pressione del tempo e sui materiali, risultante dalla forma-lavoro che dà al capitalismo la sua dinamica direzionale, storica e disastrosa: la necessità di accrescersi ed espandersi costantemente, di dominare sempre più “razionalmente” e di utilizzare scientificamente l’energia umana e il mondo naturale. Più si riduce il tempo di lavoro necessario per produrre un prodotto, meno costoso diventa fabbricarlo e maggiore è il tasso di plusvalore realizzato; fino a quando un concorrente non recupera il proprio ritardo, allora l’intero ciclo ricomincia a partire da un nuovo standard tecnologico. Questo perché, nell’epoca moderna, non c’è mai abbastanza tempo e il tempo è denaro in un senso molto letterale. Il meccanismo concorrenziale sulla quale poggia il lavoro fa sì che un tempo di produzione universale e astratto diventi la misura di tutte le cose; non si possono avere delle stagioni “improduttive”, il processo di lavoro deve essere intensivo e tutte le pause devono essere ridotte al minimo. È questa dinamica che plasma e genera il lavoro così come noi lo viviamo: l’etica del lavoro, la divisione del lavoro, il lavoro salariato, il posto di lavoro, le diverse classi sociali (e i loro ruoli) e tutto ciò che, a giusto titolo, viene discusso generalmente nel riquadro della storia e della sociologia del lavoro. Naturalmente, una parte di questa astrattizzazione è organizzata coscientemente, come nel taylorismo, ma, in fondo, gli esseri umani che sono presi da questa logica sono solo il “materiale umano” che viene consumato in un processo di astrazione frenetica che sfugge dal controllo di qualsiasi persona, istituzione o gruppo.
È facile vedere qui come la base teorica del Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis rappresenti una “critica del lavoro” di un ordine fondamentalmente diverso e tanto più radicale di quello che abitualmente si incontra nella critica sociale. Sarebbe un errore, per esempio, vedere esattamente gli stessi argomenti che si trovano in celebri opere critiche della sinistra radicale storica come Droit à la paresse di Paul Lafargue o il famoso “ne travaillez jamais” dei situazionisti4. Naturalmente anche lì possiamo trovare degli elementi della critica del lavoro che si incontrano nel Marx esoterico e, successivamente, nei testi del gruppo Krisis5, tuttavia la concezione del lavoro in questi autori, così come nel movimento anarchico e in altri nemici del regime capitalista del lavoro, rimane fondamentalmente limitata dalla convinzione della legittimità del lavoro come categoria razionale e naturale di tutta la vita umana. Si immagina che il lavoro sia solo “alienato” o che possa essere completamente abolito soltanto da un’automazione tecnologica senza precedenti. I sociologi “critici” del lavoro commettono il medesimo errore. Oggi si parla molto di “boulots de con”6, di mancanza di dignità sul lavoro, di precarietà, di pensioni più basse e così via a seguire. Tutto ciò ha certamente validità sul piano della descrizione del mondo empirico, ma vi si sottointende che il lavoro in sé, il lavoro in quanto tale, non abbia niente di problematico. Sarebbe soltanto necessario trovare la giusta direzione (o autogestita o statalizzata in nome del “popolo”). Qualunque sia la sua posizione sul campo politico, o sulla scala sociale, l’individuo moderno considera con convinzione il lavoro come una legge di natura. E a ragione, in un certo senso; il lavoro pesa attualmente sulla vita sociale e individuale come una forza della “seconda natura” tanto potente quanto le forze della “prima natura” in fisica. Tuttavia, questa limitata prospettiva, che vede solo ciò che è direttamente di fronte al “soggetto” empirico, cioè il mondo fenomenologico, non va abbastanza lontano in un mondo realmente rovesciato ove il lavoro, un’astrazione reificata, è il re.

Critica del valore-dissociazione

Uno dei grandi meriti del Manifesto contro il lavoro è insito nel fatto di insistere sulla critica, non soltanto del lavoro, ma più fondamentalmente, della scissione tra il lavoro e ciò che gli è non-identico, cioè “dissociato”. L’emergere storico della forma-lavoro, infatti, ha prodotto anche una divisione quasi-binaria tra lavoro – l’aspetto della vita sociale che serve alla trasformazione di 100 euro in 110 – e non-lavoro, vale a dire gli aspetti della vita che sono assolutamente necessari, o almeno contingenti, ma che non possono servire, o possono ma solo indirettamente, a questo scopo astratto. Il dissociato non è né un arcaico substrato positivo né un partner alla pari7. Al contrario, questo “lato oscuro” del capitalismo lo accompagna in una posizione subordinata in un rapporto dialettico continuamente in evoluzione8. Inoltre, questa scissione dialettica non è neutra, ma ha un carattere essenzialmente di genere e razzializzato. In termini pratici pensiamo qui alle attività, spesso non retribuite, come la cura dei bambini e la loro formazione, la pulizia della casa, il bucato e la preparazione dei pasti. Queste attività, sebbene essenziali per la vita umana, si trovano isolate nella sfera domestica, storicamente attribuita quasi esclusivamente alle donne e legata a uno status sociale minore. Tuttavia, non si tratta soltanto di una mancanza di “riconoscimento” culturale o teorico. In più tali pratiche non possono accedere pienamente allo status di “lavoro” perché non assumono la forma del lavoro: dal punto di vista delle categorie di base del capitalismo, esse sono solo un “male necessario” non direttamente redditizio e servono soltanto alla riproduzione sociale dei lavoratori (che sono essi stessi sempre meno redditizi in un mondo in cui il lavoro produttivo è sempre più raro).
Per comprendere il carattere di genere e razzializzato di questo schema, dobbiamo riflettere sulle origini storiche dell’emergere del lavoro e delle sue forme precedenti. Queste forme astratte capitaliste si sono sviluppate a partire dalla cultura maschile bellicosa e colonialista delle guerre tra Stati europei assolutisti che hanno segnato la fine del Medioevo. Gli uomini bianchi che erano, per ragioni storiche, le maschere di carattere originarie e la classe del profitto (ma non-“dominante”) di questo sistema si sono ritrovate di fronte a un mondo concreto informale e anche resistente allo sviluppo del capitale: un tempo sociale concreto scandito dai ritmi del corpo e delle stagioni, l’unità delle attività “domestiche” e “produttive”, un contadino che abbandona il lavoro in fabbrica non appena ha guadagnato abbastanza per soddisfare i suoi bisogni, la continua celebrazione dei giorni santi del cristianesimo medievale che ha ostacolato per tutti i primi secoli dell’era moderna la formazione di una settimana lavorativa9, donne che godono dell’occupazione di un posto importante nella politica delle élite e delle comunità rurali ecc. Iniziarono così gli orrori della prima età moderna, la caccia alle streghe, l’assoggettamento schiavista delle popolazioni nere e, nel corso dei secoli, la progressiva subordinazione o semplicemente lo sradicamento degli aspetti del mondo non-identici e dissociati dal lavoro e dalla valorizzazione del valore. Sul piano della psiche e delle pratiche intellettuali, questo processo di dissociazione si è tradotto in una scissione tra una visione dell’essere universalista androcentrico e bianco – essenzialmente, tutto ciò che serve alla valorizzazione del valore, l’autodisciplina, il duro lavoro, la razionalità (degli interessi economici), la concorrenza – e ciò che è dissociato, quindi subordinato, ignorato, non bianco e femminile – concepito come l’irrazionalità, l’oziare, il sentimentalismo, l’infantilismo, ecc. Si è sviluppata così una visione del “soggetto” maschile bianco e della sua pratica come produttore di merci, perseguendo razionalmente i suoi interessi economici astratti; una visione, in fin dei conti, prodotta dalla struttura sociale basata sulla scissione valore-dissociazione (lavoro/non-lavoro).
Questa critica del valore-dissociazione mostra che la teoria avanzata nel Manifesto contro il lavoro riguarda sia i problemi di carattere “universale” – crisi ecologica, povertà materiale – sia quelli delle “differenze” – come il sessismo e il razzismo – senza ridurli a una semplice questione di dominanti e dominati, né ignorare le loro specificità le quali, va sottolineato, richiedono una loro propria teorizzazione. Questa capacità di superare l’universalismo astratto del marxismo tradizionale e il presunto particolarismo concreto della teoria critica post-strutturalista e postmoderna, che evita qualsiasi astrazione teorica dell’ontologia sociale storica, è uno dei grandi contributi della teoria del valore-dissociazione. Questo superamento mette in evidenza che ciò a cui mira il Manifesto contro il lavoro non è solo la pratica come noi la viviamo, ma l’intero universo prodotto dall’apparizione di questa forma feticistica nella storia: quella di questo “soggetto” narcisista del lavoro, che vede al di fuori di sé solo “materiali” da consumare o ignorare nella sua corsa verso la realizzazione dei propri desideri illimitati, nel consumo di oggetti che possono servirgli10. In altri termini, il Manifesto contro il lavoro non è solo un manifesto che, come il Manifesto del Partito comunista, affronta le sofferenze sociali quasi-universali, come la disoccupazione di massa e la crisi ecologica, ma mette l’accento, fondamentalmente, sulla questione delle “differenze”, come quelle del sessismo, il razzismo e l’antisemitismo.

Morte del lavoro e imbarbarimento del suo mondo

Le prime parole del Manifesto contro il lavoro – “un cadavere domina la società, il cadavere del lavoro” – rievocano sia il famoso appello di Nietzsche sulla morte di Dio sia lo “spettro” richiamato da Marx nel 1848. Effettivamente non è più il “comunismo” del Marx essoterico che infesta la società contemporanea, ma la realtà non-riconosciuta della morte del Dio-Lavoro di questo stesso comunismo del vecchio movimento operaio. Così, allo stesso modo in cui la rinnovata religiosità del XIX secolo è servita a reprimere il fatto che la nuova metafisica materializzata del capitalismo aveva detronizzato i valori del cielo, nel 1999 le forze dell’ordine contemporanee sgomitavano tra di loro pur di affermare la salute di una civiltà fondata su una forma-lavoro in piena putrefazione. Impossibile evitarne il cattivo odore vent’anni dopo: blocco dei movimenti sociali, guerre civili, terrorismo e sparatorie in streaming, terre bruciate, mari acidi, allerte climatiche, estinzione di specie animali e biodiversità in caduta libera, aria irrespirabile, città quasi interamente inghiottite dal traffico di droga, chiusure di biblioteche e di ospedali, disoccupazione di massa e precarietà, razzismo, omicidi antisemiti, sciovinismo, narcisismo e nazionalismo ovunque. È tanto irrealizzabile contare tutti i disturbi del capitalismo nella sua agonia quanto lo è contare i granelli di microplastiche che ingorgano gli oceani e asfissiano la fauna marina. In più le attuali modalità di gestione di questa crisi finale del capitalismo – da sinistra a destra – sono pronte ad affogarci nei loro tentativi di salvarlo. Il lavoro è morto, ma noi non ci siamo assolutamente sbarazzati del suo cadavere.
Tuttavia, con quale diritto gli autori del Manifesto contro il lavoro annunciano la morte del lavoro? Per rispondere a questa domanda, è per noi necessario tornare al nostro esempio della realizzazione di camicie. Abbiamo visto che la ricchezza nel capitalismo assume la forma di un’astrazione: il dispendio di energia umana indifferenziata, misurata dal tempo socialmente necessario, che è stato poi realizzato nello scambio di merci [marchand]11. Abbiamo anche visto che la quantità di questa gelatina [gelée]12 di energia nella produzione di una merce diminuisce nel tempo a causa della concorrenza tecnologica. Per compensare questo declino, il capitalismo, nel corso della sua storia, ha dovuto sempre accrescersi, vale a dire creare dei nuovi mercati e domande, creare nuove industrie in cui il capitale possa investire se stesso e nuovi posti di lavoro per compensare quelli che vengono soppressi nel corso del suo sviluppo. Storicamente questo processo è stato costellato da diverse rivoluzioni industriali. La prima rivoluzione industriale, ad esempio, compensò il lavoro perduto nella coltivazione mercantile [marchande] delle terre alla fine del XVII secolo e donò dei nuovi campi di investimento per una borghesia in piena espansione. La seconda rivoluzione industriale, quella della massiccia espansione del consumo di massa nel dopoguerra, ha anche risposto al crollo dell’economia globale tra la fine del XIX e l’inizio degli anni ’30. Tuttavia, questa stessa rivoluzione, fondata sul taylorismo e sul fordismo, ha minato le proprie basi con la tecnologia espellendo dal processo produttivo una grande parte del lavoro storicamente necessario per la produzione di merci. La terza rivoluzione industriale, basata sull’informatica e le comunicazioni, già percepibile alla fine degli anni Sessanta, ha infine espulso così tanto lavoro vivo dalla produzione che la massa totale della ricchezza astratta prodotta dal capitalismo si è ridotta fino al punto di sconvolgere il sistema nella sua interezza. Contrariamente ai precedenti periodi della sua storia, il capitalismo ha fallito nel trovare una nuova via d’uscita per un nuovo periodo di espansione. La crisi petrolifera del 1972 e del ’73 ha poi mostrato quanto l’economia mondiale fosse indebolita. Il lavoro si è scontrato con un limite interno del capitalismo, programmato fin dalle sue origini, il fatto che a un certo punto dato, storicamente raggiunto negli anni ’70, questo avrebbe cessato di avere la capacità di compensare sufficientemente la diminuzione della quantità di lavoro necessaria per la produzione di merci.
Ciò che ha fatto seguito a questa crisi è il mondo in cui noi viviamo oggi. Gli Stati, di fronte all’aumento della disoccupazione di massa e al calo dei gettiti fiscali, hanno trovato una soluzione temporanea solo nei tagli graduali di bilancio – abbandonando così le loro pretese sulla capacità di mantenere in vita i loro cittadini e le loro cittadine al di fuori del mercato. La creazione di enormi debiti si è rivelata necessaria per mantenere, da un lato e per quanto possibile, le funzioni statali e, dall’altro, fornire ai mercati finanziari una quantità di titoli sufficientemente grande da virtualizzare l’espansione capitalista13. Così il neoliberalismo, con la centralità della finanza contemporanea e del mercato globalizzato, non è in alcun modo il prodotto di una vittoria di una classe di dominanti, o della sconfitta dei dominati, ma piuttosto, allo stesso tempo, un sintomo dell’anacronismo storico del lavoro come forma di produzione di ricchezza sociale e l’unico modo che ha permesso per un po’ di tempo al capitalismo di preservare il lavoro come forma di base della società moderna. Questa è la ragione per cui il gruppo Krisis non ha mai inteso la caduta del muro di Berlino come la vittoria finale del capitalismo. Al contrario, il socialismo esisteva realmente sulle medesime categorie astratte di base del suo cognato liberale. Non era che una “modernizzazione di recupero”, di uno Stato che si isola e nazionalizza lo sviluppo delle sue industrie per attenuare un po’ lo shock della concorrenza sul mercato mondiale14. Gli Stati comunisti, così come diversi paesi post-coloniali, non si sono adattati al meglio alle nuove condizioni storiche del capitalismo in crisi e sono stati i primi a cadere o verso un nuovo Stato autoritario neoliberale barbarizzato, o verso la barbarie omicida del conflitto etnico. I paesi più sviluppati dell’Ovest, soprattutto gli Stati Uniti, hanno infatti trovato una soluzione temporanea per evitare un tale collasso continuando la valorizzazione del valore sulle basi virtuali della finanziarizzazione dei mercati. Tuttavia, anche questi titoli devono, dopo un po’ di tempo, riferirsi all’impiego produttivo del lavoro. Quando, ad esempio nel 2008, questo lavoro non si presenta, sotto la forma di lavoratori che hanno abbastanza lavoro per pagare i debiti contratti durante l’acquisto della loro casa, queste bolle devono scoppiare con le disastrose conseguenze sociali che conosciamo bene.
La morte del lavoro dunque non produce necessariamente un’emancipazione dal lavoro. Se il lavoro resta l’essenza stessa del nostro modo di socializzazione, il principio della nostra sintesi sociale e il nostro “metabolismo con la natura” (Marx), tutto sarà fatto per evitare la constatazione della sua morte. Così assistiamo oggi all’imbarbarimento del mondo del lavoro piuttosto che a nuovi movimenti sociali che mirano a superarlo. Lo Stato pretende sempre di essere “provvidenziale”, ma abbassa le pensioni e tratta i disoccupati come parassiti. I movimenti sociali dei lavoratori non sono più in grado, come prima, di ottenere talvolta la soddisfazione delle proprie rivendicazioni, né manifestando per le strade, né portando i loro candidati alla testa dello Stato con dei mandati importanti. Un apartheid sociale sta emergendo a livello nazionale e globale. I “losers” di questo sistema di crisi, invece di impiegarsi per la morte del loro caro lavoro, si rivolgono sempre più verso gli ideologi che offrono loro capri espiatori a seconda del gusto politico: i ricchi, i neoliberali, gli immigrati, i non patrioti, gli ebrei, l’1%, lo 0,01% e così ad nauseam. Oggi, in Inghilterra, uno dei paesi ad avere conosciuto il più grande successo con il capitalismo storico, migliaia di persone sopravvivono grazie ai “banchi alimentari” dove devono elemosinare allo Stato per dei pezzi di pane e delle lattine di succo di frutta. Questa miseria apparentemente inspiegabile produce una rabbia narcisistica insensata in molti uomini della classe media che vedono i “winners” di questo sistema, reali o instagrammati, accedere a tutti i piaceri del consumo sfrenato. Vanno nei caffè e nelle scuole con un’arma che dona loro il senso di onnipotenza, che altri invece detengono a causa dei loro soldi, prima di suicidarsi. Gli autori del Manifesto contro il lavoro fanno infine riferimento a un “imbarbarimento”, perché la “civiltà” del capitalismo-patriarcato ha perso la sua capacità di fornire una sintesi sociale stabile e sta diventando disfunzionale a tutti i livelli. Tuttavia, finché si rimarrà entro i limiti del lavoro – e delle sue categorie che sono il valore, la merce, il denaro, il capitale e lo Stato –, gli esseri umani diventeranno sempre meno capaci di evitare un esito mortale e la vita stessa diventerebbe insopportabile. In questo caso, la fine del lavoro sarebbe anche la fine dell’uomo.

Liberiamoci dal lavoro

Se il Manifesto contro il lavoro ha predetto l’attuale situazione con una precisione sorprendente, è perché la teoria critica e negativa che professa ci aiuta a comprendere la logica reale e nascosta di questo sistema e del suo disfunzionamento così come lo viviamo oggi. I suoi autori spesso sono stati accusati a torto di pessimismo e, rifiutando il proletariato come soggetto della storia, di aver negato qualsiasi possibilità di “uscita” dal capitalismo. Tuttavia, anche una prima lettura provvisoria del Manifesto rende assurda questa accusa. Il Manifesto contro il lavoro ci offre finalmente, dopo centocinquant’anni di mezze verità, una descrizione chiara e precisa di ciò che è il nemico: la dittatura che il lavoro esercita sulla vita umana. Questa constatazione piuttosto semplice rappresenta la nuova condizione della lotta per i movimenti sociali che stanno emergendo dalla frattura col marxismo tradizionale e dall’impasse dell’altermondialismo che si limita all’anti-neoliberismo. Non si tratta più della questione di andare dallo Stato per chiedere pane e lavoro. Lo Stato non è più all’altezza del compito. Non c’è lavoro e la cassa è vuota. Non resta che qualche spicciolo per l’approvvigionamento dei poliziotti che impediscono che il cadavere del caro Dio-Lavoro venga finalmente sepolto. Ciò che è ora necessario porci è la questione dell’organizzazione di base della vita umana ogni volta che un ospedale viene chiuso, ogni volta che si tratta della crisi ecologica, ogni volta che lo Stato cerca di abbassare le pensioni o quando viene dichiarata una nuova guerra etnica in una regione in cui l’economia è crollata. I movimenti sociali partono sempre da rivendicazioni particolari, ma l’importante oggi è la direzione in cui si sviluppano: o verso le vecchie lotte immanenti adesso bloccate dalla crisi finale del capitalismo, o verso la creazione di comunità che vadano oltre la mediazione della vita da parte del denaro, della merce e dello Stato. Questo superamento non è un compito facile da realizzare ma, come sottolineato nel Manifesto contro il lavoro, è diventato assolutamente necessario per salvarci e, con noi, anche il pianeta.

Alastair Hemmens
Marzo 2020

(traduzione di Afshin Kaveh)

—–
Note:

1. R. Kurz, Il duplice Marx

2. N. Trenkle, Kampf ohne Klassen, Krisis, n. 30, Norimberga 2006.

3. M. Postone, Time, Labor and Social Domination, Cam­bridge University Press, New York 2006.

4. Un punto sottolineato da Norbert Trenkle nel suo articolo Arbeitskritik und soziale Emanzipation Eine Replik auf Kritiken am Manifest gegen die Arbeit, Krisis, n. 28, Norimberga 2004.

5. Cfr. A. Hemmens, The Critique of Work in Modern French Thought, from Charles Fourier to Guy Debord, Palgrave Macmillan, London 2019 (tr. fr. Ne travaillez jamais. La critique de travail en France de Charles Fourier à Guy Debord, Crise & Critique, Albi 2019).

6. [Nota del Traduttore] Il riferimento (che, così come reso in francese da Hemmens, potrebbe essere tradotto con “lavoro da coglione”, “da cretino”) guarda al termine “bullshit jobs” coniato dall’antropologo statunitense David Graeber (1961-2020) diffuso e tradotto in Italia come “lavori del cavolo”. D. Graeber, Bullshit Jobs, tr. it. di A. Cerutti, Garzanti, Milano 2018.

7. [Nota del Traduttore] Si è qui tradotto “partenaire égale” con cui l’autore faceva riferimento al termine “equal partners”, ovvero due persone che, per esempio in un’azienda o in un matrimonio, hanno uguali diritti e responsabilità.

8. Si veda: R. Scholz, Le sexe du capitalisme, Crise & Critique, Albi 2020.

9. In alcune regioni dell’Europa i capitalisti, all’inizio della rivoluzione industriale, hanno talvolta avuto difficoltà nel far lavorare i contadini. Questi, in stretto legame coi modi di vita agricoli esistenti, potevano far ritorno alla fattoria di famiglia non appena erano soddisfatti di quel che avevano guadagnato perché, a quel tempo, non era una questione di sopravvivenza. Ci sono voluti dei decenni o persino centinaia di anni per stabilire la “settimana lavorativa” e un “proletariato” che dipendeva dal lavoro industriale per sopravvivere. La ragione di ciò è dovuta a uno sviluppo storico irregolare: il capitalismo industriale non è nato tutto in una volta completamente formato, ma ha dovuto interagire con le precedenti culture e i modi di vita premoderni. Questa nuova situazione storica si è sviluppata nel corso dei secoli attraverso il bastone, come il sistema penale e le sanzioni e, dall’altra, la carota, come la società del consumo [nota aggiunta dall’autore nel gennaio 2023 per questa traduzione italiana].

10. A. Jappe, La société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction, La découverte, Paris 2017.

11. [Nota del Traduttore] Dibattiamo spesso sulle categorie di “marchand” o “marchande” che, in diverse occasioni, abbiamo visto rese in italiano come “di/del mercato”; così, ”échange marchand” nel testo, si sarebbe dovuto tradurre in “scambio di mercato” o, per fare un esempio originale e più ampio, “société marchande” sarebbe traducibile in “società di mercato”. Personalmente si è giunti alla conclusione che il portato del loro significato sia ben più sottile e ricco: non un rimando al “marché”, al “mercato” e dunque alla semplice circolazione, ma piuttosto alla “marchandise”, alla “merce”, marxianamente la cellula germinale, la forma generale e feticistica del modo di produzione capitalistico nella sua contraddizione interna tra forma sociale e contenuto materiale. Purtroppo, non esistendo in italiano un corrispettivo soddisfacente che renda la centralità categoriale della merce, a seconda del contesto tradurre in “di/della merce” o “di/delle merci” non suona particolarmente bene, trovandoci così costretti – come nell’esempio successivo, in corpo al testo – a optare per “mercantile” che, ugualmente, ci pare rendere l’idea molto limitatamente.

12. [Nota del Traduttore] L’autore richiama qui al termine marxiano di “gelatina”, Gallerte nell’originale in tedesco; infatti il Moro di Treviri, nel primo capitolo del primo libro de Il Capitale, si riferiva al lato astratto del lavoro come a un’indistinta “gelatina” di forza lavorativa umana che non bada, ed è anzi indifferente, alla forma e al contenuto materiale del suo dispendio.

13. N. Trenkle ed E. Lohoff, Die große Entwertung, Unrast Verlag, Münster 2012.

14. R. Kurz, Il collasso della modernizzazione, tr. it. di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2018

Print Friendly, PDF & Email

Alastair Hemmens

insegna all'università di Cardiff, si occupa di critica del lavoro/valore e situazionismo. È l'autore, fra altri libri, di The critique of work in modern French thought: from Charles Fourier to Guy Debord (2019), tradotto in Francia con il titolo Ne travaillez jamais

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.