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Tout le monde déteste Luc Ferry

Ci eravamo illusi. Dopo che quel coglione di de Benoist si era messo a sdottorare di “critica del valore” – “merita di essere studiata ed esaminata”, diceva, meritandosi lui stesso tutti i nostri insulti –, credevamo ormai di averle viste di cotte e di crude. Ma le vie del signore sono infinite, ed è così che ci siamo ritrovati Luc Ferry (docente di filosofia ed ex ministro della Gioventù, dell’Educazione nazionale e della Ricerca nel governo Raffarin dal 2002 al 2004), a bivaccare e, vestendosi dell’“utile idiota” quale è, ha dato sfoggio, dalle colonne del quotidiano più longevo di Francia, di aver letto le opere di Robert Kurz, Anselm Jappe, Moishe Postone e Alastair Hemmens nelle edizioni dei nostri compagni di Crise&Critique o – meglio precisare le cose per come stanno palesemente – le sole Prefazioni a queste stesse opere. Ed eccolo lì, in apprensione, biasimando alla “critica del valore” di ispirare e animare in Francia le frange più violente, combattive e radicali delle rivolte ecologiste e dei movimenti sorti dall’ostilità per la riforma delle pensioni. Di certo non potevamo esimerci e non tradurre per il pubblico italiano queste vere e proprie perle, sempre che a Le Figaro non si offendano. Cosa hanno in serbo per noi i prossimi giorni? Il compagno Hemmens sarà forse al centro di un’indagine parlamentare che ne richiederà l’estradizione in quanto colpevole, col libro Ne travaillez jamais, di minacciare la morale dei francesi? E che ne sarà del nostro compagno Jappe? Avvistato nelle piazze parigine dello sciopero generale verrà forse espulso dal territorio francese per attività terroristiche intellettuali? Ebbene, come hanno già giustamente notato i nostri compagni e le nostre compagne oltralpe, Monsieur Ferry, almeno nelle sue prime brevi battute, coglie decisamente meglio dei molti, moltissimi, marxisti ortodossi alcuni dei punti essenziali della “critica del valore”, ma stia ben attento dal compiacersi: l’“utile idiota” non può far a meno di esprimersi per idiozie, concludendo così la sua rubrica con un acerbo minestrone che lo porta a mescolare la “critica del valore” con un’irrazionalistica lettura anti-tecnica in salsa heideggeriana. Che sia Ferry l’essere da gettare? A questo punto il tipo si rende conto che il collasso del modo di produzione capitalistico stritolato nella morsa di un doppio limite – interno, per la contraddizione insanabile delle sue stesse logiche di funzionamento; esterno, per l’irreversibilità crescente della crisi ambientale – è alle porte da diverso tempo ormai, ma la sola idea di non lavorare è per lui ancora più catastrofica! Raglio d’asino non sale in cielo. Certamente è la prova vivente che non basta decantare sulla carta la differenza tra “forma fenomenica” e “contenuto categoriale”, tra “apparenza” ed “essenza” per sfoggiarsi del ruolo di pensatore “dialettico” che ha ben compreso Hegel. Al contrario, Ferry non lo ha proprio capito. Pover’uomo. La critica del lavoro non è un esercizio di stile, è cosa seria e, in quanto tale, appare come “scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari”. Ancora uno sforzo, caro Luc, ti mancano tante, tantissime Prefazioni da leggere.

Afshin Kaveh

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Ne travaillez jamais!
di Luc Ferry, Le Figaro, giovedì 30 marzo 2023

Questo slogan, inciso su un muro nel 1953 da Guy Debord, teorico del movimento situazionista, ha fatto all’epoca parte delle rivendicazioni delle correnti rivoluzionarie più radicali. In effetti Debord ha ripreso un tema già tratteggiato da Paul Lafargue, il genero di Marx, nel suo famoso libello Il diritto alla pigrizia. In modo significativo la parola d’ordine è stata affissa, lo scorso 8 febbraio, sui cartelli dei manifestanti ostili alla riforma delle pensioni, tanto che Sandrine Rousseau, sempre interessata a farsi notare, ha fatto il possibile per introdurla all’interno dell’Assemblea nazionale. Parliamoci chiaro: la riforma delle pensioni, appena passata, è stata mal progettata, mal venduta, imposta nel peggior momento e nel peggior modo. Che sia necessario che si rinunci a tutto ciò è assurdo, così come sarebbe aberrante concludere che sia necessario “decostruire” l’idea stessa di lavoro. Ma è questo che ci propone oggigiorno un’ultrasinistra ecologista che vuole riabilitare il “diritto alla pigrizia” in una prospettiva vicina a quella di Lafargue. Ecco, per la cronaca, ciò che quest’ultimo diceva dalla prigione nel 1883, lamentandosi contro la “follia di una classe operaia” a cui rimproverava di rivendicare, dal 1848, un “diritto al lavoro” anziché esigere la sua abolizione: “Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale, i preti, gli economisti, i moralisti, hanno santificato il lavoro. Uomini ciechi e limitati, essi hanno voluto essere più savi del loro Dio; deboli e spregevoli, hanno voluto rabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. […] In essa [la società capitalistica N.d.T.], il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica”.1 E Lafargue, sebbene fosse marxista, materialista e ateo convinto, citava, al fine di mettere i suoi avversari di fronte alle proprie contraddizioni, i discorsi tenuti da Gesù sulla montagna: “Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”.
In un recente libro (Ne travaillez jamais. La critique du travail en France de Charles Fourier à Guy Debord, delle edizioni Crise & Critique) Alastair Hemmens, un adepto della corrente neomarxista della critica del valore (WertKritik), un movimento sia ecologista che rivoluzionario nato in Germania negli anni Ottanta, riprende questi temi e li adatta al contesto attuale, quello di un anticapitalismo radicale che alimenta in tutta Europa, ogni anno sempre di più, una critica violenta non delle condizioni del lavoro ma bene e meglio, come in Lafargue, del lavoro in quanto tale. Secondo i teorici della critica del valore (si veda il loro Manifesto contro il lavoro, delle edizioni Crise & Critique), esistono in effetti due tipi di anticapitalismo. Il primo, supportato dalla sinistra tradizionale e dal marxismo “volgare”, che mira a migliorare le condizioni del lavoro: questo parla di fatica, di precarietà, di remunerazione, di orari, d’autonomia, ecc., e supplica per la loro “riappropriazione” da parte dei lavoratori. Il secondo, quello che dovrebbe difendere un movimento realmente rivoluzionario, guarda al lavoro in quanto tale. La sua tesi principale è che, in seno alla globalizzazione liberale, la produzione di valore non è più un mezzo destinato al sostegno della vita umana, ma un fine in sé. Poco importa che produciamo delle automobili, dei medicinali, delle verdure o dei vestiti, ciò che conta, nel capitalismo, è che il lavoro, ormai separato dalla propria utilità reale e astratto da tutti i contenuti concreti, trasformi 100 euro in 110 euro! Le imprese produrrebbero così del valore per il valore, del denaro per il denaro e, come la produzione universale rende questo processo inarrestabile, il lavoro, oramai denudato di tutte le finalità umane, conduce alla distruzione del pianeta. È questa critica che anima oggigiorno le frange più violente dell’ecologia “decrescente”. È anche quella che spiega in parte il big quit e il quiet quit come ostilità a tutta la riforma delle pensioni. Qualsiasi cosa se ne pensi (per quanto mi riguarda, niente di buono…) è meglio comprenderla se gli si vuole rispondere. Vi ritornerò nella mia prossima rubrica.

Verso l’abolizione del lavoro?
di Luc Ferry, Le Figaro, giovedì 6 aprile 2023

Come la “vecchia talpa” di cui parlava Marx, una critica radicale del lavoro cammina in modo sotterraneo, a volte violento, alla sinistra della sinistra, tra i collassologi e i “decrescenti”. Essa non anima soltanto le azioni come quelle che abbiamo potuto osservare a Sainte-Soline ma, in modo per fortuna più calmo, le milioni di persone che rigettano in modo viscerale qualsiasi prolungamento della durata del lavoro. Anche se la corrente della “teoria critica del valore” proveniente dalla Germania rimane ancora marginale, ha guadagnato, di anno in anno, sempre più terreno, non soltanto tra i giovani interessati alla radicalità anticapitalista, ma anche tra coloro che, dopo la pandemia, hanno provato la sensazione di “perdere la loro vita per guadagnarsela”, il che non ha niente di aneddotico se dobbiamo credere a una recente indagine dell’Ifop [Institut français d’opinion publique] secondo cui il 37% dei salariati ammette già di praticare il “quiet quiting”! Nata negli anni Ottanta attraverso autori come Robert Kurz, Anselm Jappe, Moishe Postone o Alastair Hemmens, la teoria critica del valore oppone, come ho suggerito nella mia ultima rubrica, due tipi di decostruzione della nozione di lavoro: una superficiale o “fenomenologica”, che si troverebbe in un Marx “essoterico”, l’altra radicale o “categoriale” che affiorerebbe già in un Marx “esoterico”. Come scrive Alastair Hemmens nella sua prefazione al Manifesto contro il lavoro (per Crise et Critique), “il Marx essoterico ha visto nel lavoro una forma sociale positiva e transtorica che si è ritrovata alienata e sfruttata da una classe dominante, la borghesia. Il capitale, in questo senso, sarebbe una specie di furto di una ricchezza che resta non questionabile”. In questa prospettiva ancora superficiale sarebbe dunque sufficiente fare la rivoluzione, espropriare i proprietari e restituire ai lavoratori il prodotto del proprio lavoro di modo che tutto vada per il meglio nel migliore dei mondi comunisti. “Il Marx esoterico al contrario” prosegue Hemmens “ha visto nel lavoro in quanto tale l’essenza stessa del capitalismo: una forma sociale storicamente determinata, irrazionale e distruttrice il cui solo scopo è di trasformare il denaro in più denaro”. Come un uomo che inciampa dall’alto di un pendio e che si mette a correre sempre più veloce per sfuggire alla caduta, il capitalismo globalizzato non baderebbe ad altro che a produrre del denaro per il denaro, della crescita per la crescita. Il lavoro, motore del processo, invece di produrre dei valori d’uso, dei beni utili, sarebbe solo un’astrazione produttrice di valore di scambio: poco importa che produciamo delle automobili, dei vestiti o dei medicinali purché, alla fine, dia profitto! Per assorbire la ricchezza, questo produttivismo insensato dovrebbe allora creare, senza mai fermarsi, dei bisogni sempre più artificiali e, per ottenere ciò, decostruire i valori tradizionali in modo che la spirale del consumo non si arresti mai, il tutto al prezzo di una distruzione del pianeta. Schiavo di un sistema assurdo, il lavoratore non sarebbe niente di più che un ingranaggio cieco di una macchina anch’essa cieca. La vera rivoluzione anticapitalista non starebbe quindi nell’appropriazione dei mezzi di produzione, ma nell’annientamento di questo motore del produttivismo che è il lavoro in quanto tale. Dopo la rivoluzione si dovrebbero stabilizzare i consumi, come già richiesto dai decrescenti: ritornare alla low-tech e al locale, riapprendere a coltivare la terra senza usare le tecnologie moderne, in breve rompere la logica di distruzione-creazione inerente alla globalizzazione liberale, la cui struttura più profonda non è altro che quella del “mondo della tecnica” che denunciavano Heidegger o Ellul. Beninteso, non tutti leggono le opere di questi teorici; resta il fatto che le loro idee non smettono di progredire nell’ecologia politica radicale. Le loro conclusioni, tuttavia, sono tanto insostenibili quanto catastrofiche – insostenibili perché, per fermare la crescita, la decisione minimo dovrebbe essere universale, presa da un governo mondiale che non esisterà mai; catastrofica perché un’umanità che rinuncia al progresso e all’innovazione per rimanere bloccata nella terra abbandonerebbe ciò di cui è fatta la sua stessa essenza, vale a dire la perfettibilità e la storicità, di modo che, ricondotta alla sua naturale condizione di animalità, non avrebbe più niente di umano. Resta il fatto che il dibattito è aperto e che non si risolverà col lancio di cocktail Molotov e di gas lacrimogeno.

(traduzioni di Afshin Kaveh)

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Note:

[1]: N.d.T. Per la traduzione di questa citazione ci si è avvalsi della seguente edizione: P. Lafargue, Il diritto alla pigrizia, tr. it. di S. Bini e A. Marazzi, Massari Editore, Bolsena 2002, p. 136.

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Afshin Kaveh

Sopravvive nella costa nord-ovest della Sardegna. Traduttore dal francese dei contributi della "critica del valore".

2 Commenti

  1. Il nocciolo della questione è sempre lo stesso: la logica del profitto, che inevitabilmente diventa un istante dopo logica del profitto per il profitto, il denaro per il denaro, non è una logica a misura d’uomo come individuo, né a misura di umanità intesa come famiglie e società. Le élites si trincerano dentro le loro fortezze, circondandosi di lacchè e cortigiani a loro difesa e illudendosi di ricavarsi così un’oasi di salvezza. Tuttavia il sistema sostanzialmente anarchico del capitalismo se ne infischia pure delle loro oasi, distruggendo tutto ciò che gli capita a tiro pur di raggiungere il suo scopo, dicasi privatizzazione del mondo e persino del fenomeno vita. Una volta distrutto il substrato che sostiene le loro fortezze, collasseranno anche tutte le loro illusioni di salvezza.
    Insomma il denaro è in origine una convenzione sociale atta a favorire la produzione e gli scambi tra gli esseri umani di beni e servizi, ma la logica del profitto, ossia la mano invisibile del mercato, l’avidità, è come “Re Shitas”, trasforma in merda tutto ciò che tocca. Anzi, nemmeno in merda, perché sarebbe già qualcosa di ecologico, ma in qualcosa di peggiore, perché Re Shitas trasforma tutto in morte. In altre parole Re Shitas non è nemmeno uno stronzo, quindi sterco, quindi ecologico. Perché se Re Shitas fosse uno stronzo, sarebbe già qualcosa, ma non è nemmeno quello.
    Oggi e già da decenni imperversa una doppia anarchia: quella del turbocapitalismo globale e quella dei sistemi informatici mondiali, che… chi li controlla veramente? Forse dei poveri illusi che con la loro “intelligence” pensano di poter controllare un’infinità di algoritmi che nemmeno si sa quale è tutto il loro contenuto e a che cosa servono? C’è qualcuno al mondo che oggi sa che cosa “gira” sulla rete internet e in tutti i singoli sottosistemi computazionali e di memoria? Qualcuno sa dirci se su internet o via internet è già nata una qualche singolarità, entità informatica con una sua logica autonoma, oppure più d’una singolarità?
    Ora, quando diciamo anarchia non ci riferiamo a qualcosa di idilliaco come tribù di uomini del passato come quelle dei cacciatori-raccoglitori nel prima della nascita delle civiltà.
    Quando diciamo anarchia intendiamo esattamente riconoscere l’equipollenza del caso con l’anarchia di cui stiamo parlando – col denaro fare più denaro. Quanto durerà una civiltà dell’uomo, quella contemporanea, che si è affidata ciecamente al caso? Cioè al lancio di dadi da gioco? Qualcuno tra di noi salirebbe mai su una nave senza timone? E su di un’auto senza un volante, manuale o informatico?

    In ultima analisi, è poi così importante la civiltà dell’uomo, nell’universo? Madre natura, fissata con asteroidi, supereruzioni vulcaniche, supernove, glaciazioni e altre stregonerie tipo guerre termonucleari, sa come fare tabula rasa dei suoi figli ingrati e degenerati per riportare l’ordine delle cose alla semplicità, all’arco e alla freccia: un Mondo Nuovo.
    Ma se la civiltà, o meglio l’inciviltà dell’uomo non è poi così importante, rimane il fatto che invece è importante ieri, oggi e domani, la felicità, ma prima ancora la dignità dell’uomo e dell’umanità: individui, famiglie, società. Una società organica non ha figli e figliastri, ma solo figli. Una società organica non si affida al caso, ma alla ragione, nella sua connotazione originaria di buon senso, non certo in quella di raziocinio illuministico e successive elaborazioni contorte atte ad avvalorare il darwinismo sociale e a massimizzare i profitti infischiandosene del corpo sociale.

    Cosa vogliamo fare? Aspettare che ci pensi la natura a sistemare le cose? Oppure vogliamo noi precederla, tanto per sancire il nostro sacrosanto diritto a vivere come noi vogliamo e non come vuole una miserabile lotteria sociale tra bestie che cercano di accaparrarsi persino l’aria atmosferica pur di affermare che una bestia è migliore dell’altra?

    Ora, se da una parte è vero che non tutti i mali del mondo sono dovuti al capitalismo, giacché storicamente esistevano da ben prima della nascita del capitalismo stesso, dall’altra parte è vero che il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita materiali dell’umanità non è dovuto essenzialmente al dio denaro, o meglio, al capitalismo, ma agli sforzi, al sacrificio, all’intelligenza, alla saggezza, alla volontà e al buon senso di tutte le innumerevoli generazioni che ci hanno preceduto: i nostri progenitori. E noi dobbiamo fare in modo che la storia dell’uomo non si fermi né ora, né mai. Perché un mondo senza vita e senza dignità per tutte le creature ed esseri che lo popolano è un soprammobile inutile persino a sé stesso.
    M.L.

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