Pubblichiamo qui l’introduzione di Samuele Cerea a: Robert Kurz, «Ragione sanguinaria», Mimesis 2014.
Una storia che ha una lunga storia. Gli spasmi attuali della società globale smentiscono una volta di più, in termini oggettivi, le aspettative ireniche, vecchie ormai di un quarto di secolo, nate dopo la fine del «comunismo». La «grande crisi» economica globale, la guerra civile ucraina, l’anomia sociale in Siria, in Libia e in molti altri paesi della periferia globale, le nuove forme di fondamentalismo religioso – che fanno seguito alla guerra civile jugoslava, alle campagne militari in Afghanistan e Irak, ai collassi economici su piccola e grande scala, per non parlare della catastrofe ecologica incombente – testimoniano la drammatica precarietà della costruzione post-1989. Per quel che riguarda l’interpretazione generale degli eventi, le cose stanno però ben diversamente. Già nei primi anni Novanta, dal disastro delle «democrazie progressive» del «socialismo reale» e dal naufragio totale del presunto bipolarismo politico-economico, l’intelligentsia «ufficiale» dell’Occidente avrebbe potuto sviluppare una riflessione critica e auto-critica incisiva, capace di scandagliare il significato profondo di quel collasso epocale. L’omologazione delle strutture socio-economiche globali al paradigma occidentale (generalmente nella sua ultima e più militante versione neoliberale) andò di pari passo con il miope trionfalismo del «mondo libero» e con l’afasico disfattismo della precedente opposizione critico-ideologica.
Travolti dal delirio autocelebrativo dell’apologetica neoliberale, gli esponenti (soprattutto marxisti) di una critica sociale finita al tappeto ripudiarono le loro obsolete velleità di trasformazione sociale, per marciare finalmente in armonia con lo spirito del tempo con l’entusiasmo dei neofiti. Il «cane morto» del marxismo fu interrato senza troppe cerimonie mentre simultaneamente le opere di Smith, Tocqueville, von Hayek, Popper facevano il loro ingresso in grande stile nelle biblioteche degli ex-nemici giurati dell’esistente. Per una minoranza, questo riposizionamento faticoso nella nuova costellazione della coscienza sociale, non significò necessariamente l’abbandono di qualsiasi postura critica. In apparenza lo tsunami ideologico anti-sociale «liberista» poteva essere arginato solo facendo appello agli ideali e ai valori originariamente «liberali» dell’Illuminismo nella forma del «riformismo» sociale e dell’esaltazione dei «diritti umani», questa volta non più minacciati dal «totalitarismo» comunista ma dagli «eccessi» di un liberalismo senza freni (di cui però nessuno osava più mettere in dubbio la legittimità storica).
In questo modo si perfezionò un singolare riallineamento sul piano ideologico, poiché i teorici del mercato e delle classi dirigenti globalizzate, ormai sature di retorica liberale e kantiana, erano convinti che la società mondiale della democrazia e dell’economia di mercato fosse la migliore realizzazione del patrimonio ideale ed etico-morale illuministico. Ad accomunare entrambe le fazioni era quindi il tenace riferimento ai valori illuministico-occidentali; in una forma più militante e trionfalistica per i cantori del «sol dell’avvenire» capitalistico, in una forma più indulgente e attendista per i «critici». Secondo questi ultimi la vittoria dei valori occidentali si sarebbe avverata in nome dei «diritti umani» e in opposizione all’irrazionalità dell’economicismo liberista, nel contesto di una società veramente «aperta» e liberale. La tragedia newyorchese del 2001 e la successiva, sanguinosa crociata ideologica e militare della superpotenza americana ha estremizzato in maniera parossistica la tendenza dell’Occidente verso il fondamentalismo democratico-illuminista e ha messo in luce il nesso indissolubile tra ragione illuministica, valori occidentali, democrazia politica, economia di mercato e militarismo globale poliziesco (il cui manifesto potrebbe forse essere l’appello pro-bellicista What we’re fighting for: A letter from America).
In quegli anni, in aperto dissidio con l’unanimismo della pubblicistica sul tema dell’Illuminismo e dell’ideologia bellicista occidentale (che aveva fatto molti proseliti anche tra le fila della cosiddetta sinistra radicale), Robert Kurz e il gruppo di autori raccolto attorno alla rivista Krisis inaugurava una nuova stagione di riflessione, assumendo come bersaglio polemico l’Illuminismo e il falso universalismo dei «valori occidentali». Vox clamantis in deserto, il lavoro teorico di Robert Kurz (1943-2012) si segnala come un opus magnum, ancora largamente inesplorato, di straordinario rigore e suggestione, soprattutto nel panorama desolante di una critica sociale che, rifiutandosi di analizzare e di ricostruire sensatamente la realtà sociale contemporanea, si rovescia, volente o nolente, nella forma fenomenica del suo contrario, cioè nella pura e semplice legittimazione. Iniziata nella seconda metà degli anni Ottanta, con una revisione «demitologizzante» del pensiero marxista, la riflessione critica di Kurz e dei suoi collaboratori si è configurata come un paradigma suggestivo ed estremamente ambizioso. Questo tentativo di penetrare a fondo la «totalità» negativa della società moderna e della sua crisi fondamentale ha aperto allo stesso tempo prospettive suggestive e feconde per una analisi dell’essenza sociale dell’uomo. La polemica contro l’Illuminismo assumeva allora il significato di una indispensabile pars destruens, una fase preliminare a un grande progetto rivoluzionario di riflessione critica, così estraneo al minimalismo pseudo-riformista e all’idiosincrasia post-moderna per le «grandi narrazioni».
La resa dei conti con la filosofia illuministica, come matrice intellettuale di tutte le teorie della modernità, ha preso l’avvio con le venti tesi del saggio pamphlettistico «Ragione sanguinaria» (Blutige Vernunft), pubblicato sul numero 25 di Krisis (2002). Questo testo dimostra che l’Illuminismo non è solamente una corrente di pensiero, formatasi nel corso del XVIII secolo e culminata nella filosofia kantiana. Né tantomeno lo identifica con il processo sovrastorico, e in ultima analisi distruttivo, con cui l’uomo realizza il suo dominio sulla natura – nel senso della Dialettica francofortese. Esso è piuttosto l’auto-riflessione della coscienza sociale borghese e l’ideologia di imposizione della società capitalistica fondata sul valore. Con questa espressione si intende una forma sociale che ha modellato progressivamente (almeno a partire dalla fase assolutistica protomoderna) la sua prassi produttiva, riproduttiva e simbolico-culturale sugli imperativi della valorizzazione capitalistica, e quindi sulla produzione di merce e sull’universalizzazione della pratica monetaria. In seguito all’autonomizzazione e all’autoreferenzialità dei processi di valorizzazione la società si è infine convertita in una totalità automatizzata, governata da logiche desoggettivate, che i singoli non riescono più a riconoscere come l’esito della propria prassi (feticismo sociale). Come riflessione specificamente storica, la ragione illuministica non coincide affatto con la razionalità tout court, non è infatti una facoltà rimasta incomprensibilmente latente nel corso della storia umana, fino al suo start-up nella società borghese. È una forma di ragione o, più precisamente, la ragione di una forma, cioè la ragione plasmata sulla forma-valore. Come il valore di una merce fa completamente astrazione dalle sue qualità sensibili, anche questa forma di ragione mira a trasformare ogni realtà sensibile in mere quantità di valore astratto, nel corso di un processo irrimediabilmente distruttivo e auto-distruttivo, in cui la stessa struttura istituzionale (politica) della società della merce collassa e il cui ultimo stadio può essere identificato nei fenomeni di estesa destatalizzazione e anomia sociale e nelle guerre dell’ordine mondiale.
Nella totalità feticistica, il portatore funzionale delle esigenze della valorizzazione è il «soggetto», cioè l’individuo che ha interiorizzato gli imperativi della dinamica capitalistica al punto tale da non essere più in grado di elaborare l’eteronomia del processo sociale. Il suo fine è dunque l’autorealizzazione apparente all’interno di una costellazione sociale che funziona come una realtà autonomizzata, nella forma di un’autosottomissione aprioristica alla dinamica della valorizzazione del valore e della concorrenza universale. Questo soggetto percepisce la realtà solo attraverso il prisma della forma astratta del valore: il denaro come apriori in contanti (A. Sohn-Rethel).
La storia del soggetto è quindi anche la storia della sua legittimazione nella filosofia illuministica e nei suoi derivati. Parallelamente all’affermazione su scala mondiale della mediazione sociale basata sulla forma-merce, si è realizzata la progressiva «transizione» dell’individualità premoderna verso il «soggetto» della modernità; le metamorfosi dell’autoriflessione illuministica (che Kurz identifica con la storia intellettuale della modernità) hanno accompagnato le vicende di questo soggetto, in una oscillazione continua tra i due poli dell’oggettivismo (in cui la società della merce viene assimilata a un meccanismo governato da leggi naturali e necessarie, quasi scientifiche e insuperabili, che il singolo deve limitarsi a comprendere ed eseguire) e del soggettivismo (in cui il singolo contrappone la sua «esistenza» a una socialità, di cui non riesce a cogliere la struttura feticistica). In questa prospettiva l’irrazionalismo anti-illuminista non è affatto un mostro gemello dell’Illuminismo – come ad esempio afferma lo storico Zeev Sternhell – ma un suo sviluppo coerente sul lato «soggettivo». Lo stesso marxismo, con le sue promesse escatologiche, può essere decifrato come il progetto (naufragato) di una ragione illuministica allo stato puro, nella forma di una palingenesi sociale, apparentemente post-borghese, ma in realtà anch’essa assoggettata agli imperativi della merce. La tendenza oggettivista si afferma ancora una volta con lo strutturalismo e la teoria dei sistemi mentre il post-strutturalismo e le tendenze post-moderniste convertono la critica sociale nell’ermeneutica incessante del «testo» sociale da parte di un soggetto ormai deprivato di qualsiasi capacità d’intervento sulla sua realtà.
Una volta identificato il senso segreto della filosofia illuministica come ideologia del feticismo sociale moderno, non è difficile smascherare il linguaggio orwelliano in cui si esprimono i suoi «valori». Kurz non si limita a negare l’universalismo habermasiano dei «diritti umani» nella sua portata storico-culturale, mediante il paragone con altri sistemi assiologici (si veda ad esempio la sterile diatriba sui «valori asiatici» negli anni Novanta), ma lo sottopone invece alla sua critica fondamentale. Come prodotto genuino della società del valore, i diritti umani sono i diritti del «soggetto» nella sua esistenza monadizzata, sotto il dettato del valore e della sua valorizzazione, e l’universalismo dei diritti umani è altrettanto falso quanto l’universalismo della società della merce e del suo soggetto.
In primo luogo, lo zoon politikon a pieno titolo della società della merce è proprio il «soggetto», l’uomo «solvibile», in grado di acquistare forza-lavoro o di vendere la propria, il «lavoratore», il titolare di potere d’acquisto. Per chi è impossibilitato a operare nella sfera della valorizzazione, l’alternativa è tra l’invisibilità in un limbo sociale o addirittura la perdita dell’esistenza fisica. Una condizione che, nella crisi capitalistica della terza rivoluzione industriale, si sta espandendo a macchia d’olio anche nelle metropoli occidentali. La concorrenza sempre più spietata tra i membri della società in queste condizioni di crisi assume per giunta significati razzisti o antisemiti che sono un’ulteriore smentita dell’universalismo sociale.
Infine anche l’asimmetria nel rapporto tra i sessi, lungi dal costituire un mero problema di equiparazione giuridica, è in realtà una dimensione profonda della struttura sociale. Questa nella sua totalità appare come scissa in due sfere separate e sessuate. Da una parte, tutti gli elementi della prassi sociale in stretta connessione con la valorizzazione del valore (passibili di rappresentazione nella forma monetaria o comunque complici nella gestione della società della merce: «lavoro», «politica» etc.), costituiscono una sfera primaria, «maschile». Dall’altra tutte le attività di cura, assistenza, di supporto «psico-emozionale» costituiscono una sfera secondaria, «dissociata» dalla prima, e identificata con un femminile ideologizzato (donna = emozionalità = «natura»). Tutto questo non ha nulla a che vedere con la suddivisione delle attività produttive e riproduttive sociali secondo criteri di «genere», che caratterizzava le società premoderne. Qui il rapporto tra le due sfere è dinamico, dialettico e, in un certo qual modo, idiosincratico. La sfera dissociata, femminile, per quanto necessaria alla sopravvivenza della società nel suo complesso, figura allo stesso tempo come una dimensione menomata, inferiorizzata e per di più sottoposta a una tensione critica. La dinamica della valorizzazione «maschile» cerca di re-integrare al suo interno le attività «femminili» (mediante la loro economicizzazione sotto forma di «servizi»). Contemporaneamente l’ingresso delle donne nella sfera lavorativa, perlopiù in posizioni subordinate, mette in crisi tutti quei momenti della riproduzione sociale, che, pur essendo estranei al mercato, rappresentano il presupposto segreto della sua sopravvivenza.
In sostanza, la crisi della moderna società basata sulla forma-valore e del suo «soggetto» non può essere superata nei limiti del paradigma illuministico ma richiede, all’opposto, una rottura decisiva con la sua logica. Del resto, al presente, non si intravede sul piano pratico, nessun opzione che si orienti realmente in questa direzione. L’atteggiamento contemplativo di un’opinione pubblica sempre più apatica, disorientata e spaventata dalle ripercussioni della «crisi» non lasciano presagire nulla di buono a questo riguardo.